Captive State
di Rupert Wyatt
Coraggioso mix di fantascienza distopica e thriller vecchio stile, Captive State di Rupert Wyatt è un corroborante inno alla ribellione, opportunamente sostenuto da un’ottima orchestrazione delle scene d’azione.
Aria di rivoluzione
Dieci anni dopo un’invasione extra terreste, il mondo è governato dagli alieni. Gli umani si dividono in due fazioni, coloro che accettano il nuovo governo e coloro che invece si oppongono dando vita alla Ribellione. [sinossi]
In un panorama audiovisivo sempre più asservito a pratiche, spesso autocensoree, volte alla chiarezza narrativa e stilistica, Captive State deflagra sul grande schermo come una potente meteora. La metafora sulla provenienza extraterrestre appare quanto mai azzeccata per questo coraggioso mix di fantascienza e thriller vecchio stile, che rifiuta ogni tentazione eplicativa e didascalica – lasciando quest’onere alle coeve serie-tv – per meglio immergere lo spettatore in un futuro distopico dove, a dieci anni dal loro avvento sulla Terra, gli alieni governano dal sottosuolo un’umanità a cui non restano che due possibili scelte: essere collaborazionisti o ribelli.
Tema caro al britannico Rupert Wyatt e da lui già esplorato nel solido L’alba del pianeta delle scimmie (e il titolo originale, Rise of the Planet of the Apes, in tal senso, era assai più esplicito) la ribellione assume dunque un doppio ruolo in Captive State: quello tutto interno alla narrazione e ai suoi personaggi, ma anche, a un livello più personale per l’autore, di rifiuto ad adeguarsi ai codici di un cinema che vuole spiegare troppo, limitando di fatto le sue possibilità.
Ad avere obnubilato la mente dei cittadini della Chicago del 2025 ritratta dai toni lividi del film è, non a caso, proprio una forma di autoregolamentazione, che fa loro accettare ogni proibizione e controllo alieno nel nome dell’imperitura – e umanissima – capacità di adattamento. In questa infausta condizione, così lontana e così vicina, vivono due fratelli rimasti orfani in seguito a un’aggressione aliena: Rafe (Jonathan Majors), eroe della resistenza entrato in clandestinità e dato per morto, e il più giovane Gabriel (Ashton Sanders), che lavora in una fabbrica dove si distruggono quotidianamente le schede di memoria degli ormai proibiti smartphone. A vegliare in maniera assai ambigua su Gabriel c’è poi il capo della polizia William Mulligan (John Goodman), ex collega del defunto padre del ragazzo, che si sente pertanto in dovere di proteggerlo, ma non si fa scrupolo di usarlo come esca per rintracciare il fratello ribelle.
Carbura poco a poco ma inesorabilmente Captive State, prendendosi tutto il tempo necessario per il suo innesco, forte di una sceneggiatura firmata dallo stesso Wyatt insieme alla moglie Erica Beeney, che lascia ampio spazio alla coralità dell’azione, prima di consentire allo spettatore di identificare con chiarezza i suoi protagonisti. Ma è meglio mettersi subito l’anima in pace, qui gli obiettivi non vengono esposti da subito, né le reali intenzioni dei personaggi, bisognerà attendere l’epilogo del film. La suspense è dunque costante in Captive State coadiuvata dalla potente colonna sonora di stampo elettronico composta da Rob Simonsen, già autore del geniale score di Foxcatcher.
La tensione è dunque ben calibrata e consente a Wyatt di porre l’accento giusto sui suoi exploit registici che, dopo un costante e rigoroso pedinamento con macchina a mano per le strade di una Chicago desertificata, esplodono nella splendida sequenza dell’attentato allo stadio cittadino, vera e propria lezione di orchestrazione dell’azione come non se ne vedevano da tempo.
C’è infatti un aspetto vintage nient’affatto casuale né ruffiano in Captive State e che, se da un lato serve a raccontarci un futuro prossimo dove per comunicare i ribelli utilizzano la pagina degli annunci di un quotidiano locale, si inviano piccioni viaggiatori, si fa uso di una connessione internet a 56k, di pari passo abbiamo che il film di Wyatt mira anche a ragionare sui codici del glorioso thriller del passato. Se il regista ha dichiarato infatti di essersi ispirato al Jean-Pierre Melville di L’armata degli eroi e al Gillo Pontecorvo di La Battaglia di Algeri non è affatto peregrino rintracciare nella coralità del racconto, nella sua frammentazione e nel suo graduale coagularsi attorno all’azione di rivolta, echi del miglior Frankenheimer (The Manchurian Candidate) e Friedkin (Il salario della paura) o anche del Fred Zinnemann de Il giorno dello sciacallo.
Già perché Captive State è un doppio inno alla rivolta, che mira attraverso la sua saggia e necessaria venerazione per un certo cinema di ieri a stimolare le nostre sinapsi intorpidite di oggi, sperando che possano ancora scatenare una qualche azione di resistenza in una realtà sempre più dominata dal controllo, o dal nostro autocontrollo.
Info
La pagina Captive State sul sito della Adler Entertainment.
Il trailer di Captive State.
La pagina Facebook di Captive State.
- Genere: fantascienza, thriller
- Titolo originale: Captive State
- Paese/Anno: USA | 2019
- Regia: Rupert Wyatt
- Sceneggiatura: Erica Beeney, Rupert Wyatt
- Fotografia: Alex Disenhof
- Montaggio: Andrew Groves
- Interpreti: Alan Ruck, Alex Henderson, Ashland Thomas, Ashton Sanders, Ben Daniels, Brian Wolfman Black Bowman, Carey Jones, Christian Isely, Cyrus Alexander, D. B. Sweeney, Daniel Craig Baker, David J Height, Dennis Hindman, Eric C. Lynch, Giota Trakas, Ilyssa Fradin, Jacqueline Saland, James Ransone, John Goodman, Jonathan Majors, José Antonio García, Kevin Dunn, Kevin J. O'Connor, KiKi Layne, Laura T. Fisher, Lawrence Grimm, Lizzy Leigh, Machine Gun Kelly, Madeline Brewer, Marc Grapey, Matt Bailey, Mickey O'Sullivan, Mino Mackic, Otis Winston, Rene L. Moreno, Robert Forte Shannon III, Ta'Rhonda Jones, Vera Farmiga , Yasen Peyankov
- Colonna sonora: Rob Simonsen
- Produzione: Lightfuse & Gettaway, Participant Media
- Distribuzione: Adler Entertainment
- Durata: 109'
- Data di uscita: 28/03/2019

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