Il traditore

Il traditore

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La famiglia di Buscetta, quella della mafia, quella dello Stato. Marco Bellocchio con Il traditore – in concorso a Cannes – realizza uno dei film più importanti del cinema italiano degli ultimi anni, capace di guardare in faccia – in modo commovente e crudele, romanzesco e cronachistico, processuale e intimista – la storia recente del nostro paese.

Lasciatemi cantare, sono un italiano

Tommaso Buscetta è stato il boss dei due mondi. La sua figura viene raccontata a partire dall’arresto in Brasile e dall’estradizione di Buscetta in Italia, passando per l’amicizia con il giudice Falcone e gli irreali silenzi del maxiprocesso alla mafia. Ed è proprio nel momento in cui la giustizia sembra aver segnato un punto a suo favore, che Cosa Nostra ricorda a Buscetta e all’Italia che la sua sconfitta è ben lontana. Scoppia la bomba a Capaci e Buscetta alzerà il tiro facendo il nome di Andreotti: un tragico boomerang che lo costringerà a fuggire per sempre dall’Italia… [sinossi]

Con Il traditore, presentato in concorso al Festival di Cannes, Marco Bellocchio è riuscito a compiere un’operazione folgorante e spiazzante, ma allo stesso tempo sorprendentemente coerente con alcuni apici della sua filmografia più recente, in particolare con Buongiorno, notte, con Vincere e con Bella addormentata, con quei film insomma in cui Bellocchio ha affrontato di petto la storia d’Italia, dalla più lontana (il Mussolini di Vincere) alla più vicina (il caso Englaro in Bella addormentata), riflettendo sulle miserie del nostro paese. E ancora una volta tutto si gioca intorno al tema della famiglia, quale microcosmo che rimanda a qualcosa di più ampio, come praticamente accade da sempre nel cinema bellocchiano, a partire dalla famiglia che oggi diremmo disfunzionale de I pugni in tasca.
Abbiamo detto sorprendente non certo perché si dubitasse del fatto che Bellocchio sarebbe riuscito a tornare ad altissimi livelli, quanto perché sgomenta per efficacia la chiave di lettura scelta a partire dal controverso personaggio di Tommaso Buscetta, primo grande pentito di mafia, capace di aprire un varco all’interno di un mondo chiuso per decenni – anzi sin dalla nascita di questo fenomeno criminale – nella segretezza più totale. E la chiave di lettura è quella secondo la quale Bellocchio punta contemporaneamente l’attenzione su più famiglie differenti, quella siciliana di Buscetta, quella brasiliana che il cosiddetto boss dei due mondi si costruì al di là dell’Oceano vista la sua nota passione per le donne, ma anche – e queste sono le famiglie più importanti a livello simbolico – la famigghia mafiosa (da Pippo Calò a Totuccio Contorno, passando per Riina) e infine quella dello Stato a essa contrapposta e rappresentata da Giovanni Falcone e da alcuni anonimi servitori della nazione che curarono l’incolumità di Buscetta e che divennero gli ultimi – e infine unici – fidati affetti che potesse trovare al mondo.

In tutti questi sensi e direzioni si muove il film, a partire da titolo. Buscetta è un traditore nei confronti dei suoi parenti siciliani, visto che la sua decisione di denunciare le meccaniche di Cosa Nostra ebbe come ripercussione la violenta vendetta dei corleonesi, capeggiati da Riina, che gli uccisero due figli e un fratello, da lui abbandonati nel momento in cui scelse di andarsene in Brasile (e, in tal senso, è potentissima la sequenza in cui la sorella lo ripudia, paragonandolo a Giuda). Ma Buscetta è un traditore ovviamente – e in primis – anche al cospetto della stessa Cosa Nostra, visto che il maxiprocesso di Palermo contro la mafia fu possibile celebrarlo solo grazie alle sue dichiarazioni. E poi Buscetta è stato etichettato come traditore anche da una parte delle istituzioni, cui faceva comodo denigrarlo, soprattutto nel momento in cui questi decise di “attaccare il cuore dello Stato”, andando a denunciare – a seguito della strage di Capaci – gli stretti contatti tra Andreotti e la mafia.
Come però insegna Borges, un traditore è allo stesso tempo un eroe, proprio perché nella scelta di infangarsi e immolarsi ripulisce la coscienza degli altri. E così come Giuda nel racconto dello scrittore argentino in cui si ipotizza che la vera figura cristologica sia stata la sua e non quella di Gesù perché l’Iscariota si è sacrificato alla Storia più di chiunque altro, Bellocchio avanza indirettamente la tesi che quest’uomo lasciato solo, cui venne a mancare l’appoggio del giudice Falcone morto a Capaci, scelse di immolarsi e di diventare il massimo servitore dello Stato, continuando ad attaccare Andreotti e Riina e rinfacciando a costoro il tradimento, il primo dell’Italia, il secondo di Cosa Nostra, dato che quest’ultimo pur di far conquistare la Cupola ai corleonesi non si fece scrupoli nello sterminare tutta la vecchia mafia palermitana. Ma Buscetta da solo non può nulla, sia perché nel frattempo è stata messa in piedi la trattativa Stato-mafia, sia perché non ha più appoggi istituzionali. E allora finirà per rifugiarsi a Miami, sul tetto del suo villino con un fucile in mano, nell’angoscia che qualcuno prima o poi si presenti per farlo fuori.
Ed è, questa immagine di solitudine, speculare e opposta a una delle prime de Il traditore, quella della foto di gruppo alla fine di una festa, in cui vediamo Buscetta al centro, vestito di bianco candido e circondato sia da quelli che poi sarebbero morti, sia da quelli che avrebbe denunciato che, infine, da chi avrebbe cominciato a odiarlo e a cercare di ucciderlo. È una delle inquadrature fondamentali del film, un gruppo di famiglia in un interno, che prelude a quanto accadrà incorniciandone temporaneamente le spinte centrifughe; un tutto che poi andrà frammentandosi e mescolandosi, e stratificandosi, non solo e non tanto per il differente percorso dei personaggi, quanto anche sotto il profilo narrativo e simbolico, visto che Il traditore è uno dei più complessi e articolati racconti del cinema bellocchiano, pieno di deviazioni e apparenti digressioni, di capitoli apparentemente staccati eppure strettamente correlati, dotato di una struttura tanto frastagliata da ricordare la complessità narrativa di un romanzo di Dostoevskij, laddove lo scrittore russo ci chiude magari per un centinaio di pagine all’interno di un salotto, impedendoci di immaginare in che modo possa riuscire ad andare avanti, e poi trova sempre una via di fuga, un lampo, una deriva per procedere oltre.
Così appare per lunghi tratti Il traditore che si espande e poi si restringe improvvisamente nel ritmo, si dilata nel momento della prima magnifica macro-sequenza del maxi-processo dove Favino nei panni del protagonista, Luigi Lo Cascio in quelli di Totuccio Contorno e Fabrizio Ferracane in quelli di Pippo Calò si esibiscono in una performance attoriale tra le più alte del nostro cinema recente, in cui ci sembra anche che non manchino dei momenti di improvvisazione recitativa; un’aula di tribunale che diventa palcoscenico teatrale, dove accade di tutto (mafiosi che si spogliano o che si cuciono la bocca) e dove si mette in scena il confronto feroce tra Stato e mafia, con lo Stato incarnato dal giudice del Nord incapace di tenere sotto controllo la situazione, spaesato, e persino intimorito dal vigore della protesta mafiosa (incarnata anche dalle donne dei criminali). E poi, a tratti, Il traditore diventa genialmente ellittico, come nella magnifica sequenza degli elicotteri sopra Rio de Janeiro, primo grande squarcio visivo e di senso del film, capace di alludere anche alla dittatura allora in corso d’opera nel paese latino-americano.

E ritorna costantemente alla mente Buongiorno, notte, il film che ci pare si possa accostare meglio a Il traditore. In entrambi vi sono delle famiglie dell’anti-Stato (le Brigate Rosse e la mafia) che si mescolano e confliggono con quelle dello Stato. Nel primo, i figli (Mario Moretti, Prospero Gallinari e gli altri) uccidono il padre (Aldo Moro) mentre, nel secondo, Buscetta si ritrova a essere un padre senza figli, un uomo che deve aggrapparsi a qualcosa o a qualcuno per ritrovare o ricostruire qualche affetto. E in tal senso torna a essere fondamentale la figura di Lo Cascio/Contorno, in quanto progressivamente arriva a essere identificato quale alter-ego di Buscetta, come colui che – insieme al boss dei due mondi – ha cominciato a collaborare con la giustizia, ma è rimasto invischiato nella mentalità mafiosa, oltre che nel dialetto siculo, ed è impossibile che possa uscirne. Buscetta, invece, grazie alla relazione costruita con Falcone, si è emendato e ha fatto un passo avanti, un passo decisivo che sceglie di compiere in un momento ben preciso, davanti alla televisione, davanti a Capaci.
E di nuovo torna il confronto con Buongiorno, notte dove i materiali di repertorio, mai nascosti per tali, servivano a dare un senso ulteriore al racconto, servivano a comporre e a ricomporre il discorso, materiali assolutamente notissimi quali ad esempio i funerali di Moro che tornavano col fine di assumere un nuovo senso, anche narrativo, e non per via della semplice e coreografica contestualizzazione storica come, al contrario, capita spesso in maniera superficiale nel nostro cinema. Bellocchio compie ne Il traditore la stessa operazione di Buongiorno, notte, e poi reitera quelle immagini d’archivio, fino a provare a farli subentrare nell’inconscio di quei mafiosi incarcerati che, però, “non cambieranno mai”.
Contemporaneamente visionario e cronachistico, evenemenziale e romanzesco, commovente e crudele, processuale e intimista, Il traditore si situa come uno dei titoli più importanti del nostro cinema degli ultimi anni, al pari di Noi credevamo di Mario Martone.

Info
La scheda de Il traditore sul sito del Festival di Cannes.
Il trailer de Il traditore.
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