Serenity – L’Isola dell’inganno

Serenity – L’Isola dell’inganno

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Steven Knight torna alla regia a sei anni di distanza da Locke con Serenity – L’isola dell’inganno, un noir stilizzato che gioca con i punti fermi del genere cercando di nascondere al proprio interno la sua vera “anima”. Un’opera inutilmente ambiziosa e che sfiora il ridicolo involontario. Con Matthew McConaughey e Anne Hathaway.

Finché la barca va…

Baker Dill è un misterioso pescatore di tonni che, per lasciarsi il passato alle spalle, si è trasferito da anni su di un’isola caraibica. Ma il passato ritorna. Karen, la sua ex, lo va a cercare perché ha qualcosa di molto importante da chiedergli: uccidere suo marito, un malavitoso sadico e violento, in cambio di 10 milioni di dollari. E soprattutto per il bene di Patrick, il figlio che tanti anni prima Baker e Karen hanno avuto… [sinossi]

Il 2019 è l’anno delle barche, delle isole e di un massiccio consumo di sigarette e alcolici. Forse non per tutti ma di sicuro per Matthew McConaughey, passato dalle splendide acque caraibiche (in realtà il film è girato a Mauritius) solcate dalla nave “Serenity” nell’omonimo Serenity – L’isola dell’inganno di Steven Knight alla barca “Moondog” che fa la spola tra Miami e le Key Islands in The Beach Bum di Harmony Korine. A pensarci bene il texano McConaughey ha una certa propensione ad attraversare lo schermo con delle imbarcazioni, come si evince anche in Mud (2012) di Jeff Nichols in cui il nostro si nasconde su di un motoscafo nel fiume Mississippi o persino in The Paperboy (2012) di Lee Daniels in cui lo si rammenta su di una barchetta nei pressi di Ormond Beach, Florida. Volendo il “film con Matthew McConaughey e natante” potrebbe diventare un sottogenere, ma dopo la “doppietta” di quest’anno sarebbe meglio attraccare sulla terraferma. Perché se The Beach Bum, misteriosamente non distribuito in Italia, è una sciroccata e graziosa commedia che nella filmografia di Korine fa da controcanto all’assai cupo Spring Breakers, questo Serenity è ai limiti dello scult.

Sempre corrucciato, dannato e figo, il beone affetto da maledettismo incontra qui nuovamente Anne Hathaway, che gli fu accanto in Insterstellar (2014) di Nolan e forse non è un caso: anche in Serenity infatti c’è di mezzo un figlio che cerca di comunicare con il padre, Baker Dill, che vorrebbe essere uscito da un romanzo di Hemingway o da un noir della Hollywood classica ma si ritrova in un film di Zalman King. Baker vive nella (inesistente) isola di Plymouth ed è ossessionato dalla cattura di un grande tonno. Tutto attorno a lui si muove secondo canoni preordinati e già visti: nel tempo libero soddisfa le voglie di una bella signora (Diane Lane) con cui c’è solo una relazione di amicizia sessuale, nella piccola e deliziosa isola tutti conoscono tutti e vanno nell’unico bar in cui si beve rum che il nostro non disdegna. Le giornate scorrono insomma placide e finte come in The Truman Show. Ma ovviamente Baker nasconde un segreto che, fin dall’inizio, capiamo essere legato a un figlio perduto. Infatti arriva Karen (la Hathaway), la donna con cui Baker – che in realtà si chiama John – ha avuto un bambino e che da 10 anni è sposata con Frank (Jason Clarke), un mostro ricchissimo che la picchia senza sosta, ma proprio in continuazione, minacciando anche il figliastro. Karen si presenta come una perfetta femme fatale, bionda e sussurrante e poco credibile, e propone al suo ex con cui non ha più contatti da due lustri di uccidere il marito, che la raggiungerà sull’isoletta all’indomani. In cambio darà a John/Baker 10 milioni di dollari, soldi sporchi come ci tiene a precisare lei. Serenity (flop al botteghino Usa dove è uscito all’inizio dell’anno) si sviluppa come un déjà-vu di film già visti, di personaggi ipercodificati, di situazioni rimasticate a oltranza e ci si chiede dove voglia andare a parare. Soprattutto dopo la scena in cui la Hathaway affronta una pioggia battente vestita di tutto punto e senza bagnarsi neanche il trench. Finché purtroppo arriva il maledettissimo twist, preannunciato fin dalle prime immagini da un improbabile personaggio, il venditore Reid Miller (Jeremy Strong) che cerca Baker per proporgli un nuovo ecoscandaglio. Come il cowboy di Mulholland Drive (!), Reid Miller ci introduce in una dimensione “alternativa”, fa sorgere dubbi esistenziali nella mente del protagonista e ribalta il senso di quello che abbiamo visto. Forse per farci riflettere sulle guerre americane di inizio Millennio (visto che Baker è un reduce dell’Iraq), o sull’esistenza che è vera e falsa allo stesso tempo, o sull’immaginazione come via di fuga da una realtà intollerabile. O forse su qualcos’altro che però è costruito maldestramente, con poca perizia ma tantissima ambizione. Oltre a supplicare McConaughey di cambiare mood e di staccarsi dalla bottiglia di superalcolici che beve sempre con espressione cinica e ghignante, la supplica è anche di non abusare di twist e ribaltamenti pensando che bastino a dare profondità laddove non si riesce a metterla assieme o credendo che le smentite alla veridicità siano in sé portatrici di un’ideona geniale. Di cui qui non c’è ad esempio la minima traccia.

Come già in Locke, il britannico Steven Knight dimostra di amare gli universi “chiusi”, in quel caso l’abitacolo di una macchina, in questo una sorta di “bolla” isolana che in realtà non è quel che sembra. Il regista (acclamato sceneggiatore tra gli altri de La promessa dell’assassino e di Allied) dà allo spettatore ogni segnale per mettere in discussione fin da principio ciò che sta vedendo: la forzata stilizzazione degli ambienti e dei personaggi, l’incongrua presenza di Reid Miller in tenuta da ufficio, la vaghezza dell’ambientazione visto che Plymouth è un’isola che non c’è (il riferimento è forse all’isola di Montserrat, nel mar dei Caraibi e vicina all’isola de La Soufrière di Herzog, che per capitale ebbe una cittadina chiamata Plymouth rimasta sepolta dalle eruzioni vulcaniche). Ma la risoluzione ai dubbi e alle perplessità volutamente innescati dalla messa in scena di Knight è poco credibile, inutilmente misticheggiante e mal integrata nella vicenda che, comunque, per 105 minuti si propina allo spettatore. Col risultato che tutto, dall’inizio alla fine, risulta semplicemente ridicolo, stereotipato e fiacco.

Info
Il trailer di Serenity – L’isola dell’inganno.

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