Attacco al potere 3

Attacco al potere 3

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Al terzo episodio, la saga dell’agente Mike Banning aveva bisogno di un qualche – pur piccolo – elemento di novità: Attacco al potere 3, diretto da Ric Roman Vaugh, recupera il motivo dell’innocente in fuga, ma al contempo non nega le basi muscolari su cui il franchise è nato.

Un angelo momentaneamente caduto

Durante una battuta di pesca, il presidente degli Stati Uniti viene attaccato da una squadra di letali droni: lui finisce in coma su un letto d’ospedale, mentre la sua scorta è sterminata con l’eccezione del suo capo, Mike Banning. Questi, al suo risveglio in ospedale, si ritrova accusato di aver organizzato lui stesso il complotto: l’uomo si troverà così costretto a fuggire per tentare di smascherare il vero colpevole. [sinossi]

Arrivata al terzo episodio, superata l’invasione della Casa Bianca che prefigurava, fuori dallo schermo, la crisi dell’America obamiana (nel primo Attacco al potere) e gli eccessi neo-rambistici che avevano annunciato, come un tetro presagio, l’inizio del trumpismo nel sequel del 2016, la saga con protagonista l’agente interpretato da Gerard Butler aveva bisogno di un qualche elemento di novità per continuare a esistere. Se i primi due episodi trovavano la loro ragion d’essere nel mutato clima ideologico dell’America di metà decennio da una parte, e nella voglia di recuperare un cinema action muscolare – ulteriormente semplificato – figlio degli anni ’80 dall’altra, questo Attacco al potere 3 – diretto dalla new entry della saga Ric Roman Vaugh – aveva bisogno, perlomeno, di una coloritura esterna vagamente difforme, che ne giustificasse la produzione in un clima politico (almeno per il momento) non più così favorevole alla politica presidenziale. C’era bisogno insomma, tematicamente, di abbandonare almeno temporaneamente il motivo del nemico esterno e guardare dentro i gangli del potere per individuare la nuova minaccia. Minaccia da combattere, ovviamente, con gli stessi strumenti di sempre, muscoli e piombo.

Bisogna comunque intendersi, e sgombrare il campo da qualsiasi possibile fraintendimento. Le novità tematiche di questo Attacco al potere 3 – Angel Has Fallen, indubbiamente presenti e piuttosto evidenti, non hanno nulla a che vedere con un supposto maggior “progressismo” dell’approccio del film, né con un’ancor più fantasiosa virata “liberal” dell’intera operazione. C’era semplicemente, dal punto di vista cinematografico (in primis) la necessità di svecchiare in qualche modo una formula che nasceva già “stagionata” e derivativa nel 2013, e che dopo le improbabili, roboanti mattanze del sequel di tre anni dopo, non sarebbe stato semplicemente possibile riproporre tal quale. Lo spaesato presidente col volto di Morgan Freeman, insomma (qui a dire il vero ancora più spaesato – e stanco – del solito, almeno laddove compare fuori da un letto d’ospedale) non poteva più limitarsi a essere protetto da agguerriti, monodimensionali e ben poco svegli terroristi destinati al macello, per la gioia dello spettatore repubblicano di turno; c’era bisogno di un qualche elemento che arricchisse almeno un po’ la formula, ricalibrandone il centro, per giustificare in qualche modo (e rendere commercialmente appetibile) questo terzo episodio.

Detto, fatto. Il Mike Banning interpretato da Butler, non più angelo custode armato fino ai denti, ma anzi alle prese coi suoi guai personali (tra cui una patologia neurologica che lo convince ad accettare un – pur prestigioso – ruolo amministrativo), viene incastrato da un complotto ordito da una potente agenzia di sicurezza privata, in combutta con settori corrotti dell’amministrazione, e costretto a trasformarsi in fuggitivo con l’accusa di aver attentato alla vita del presidente. Quest’ultimo, da par suo, è fuori gioco su un letto d’ospedale, tra la vita e la morte, impossibilitato a testimoniare – difficile pensare che non l’avrebbe fatto – sull’assoluta integrità del suo vecchio collaboratore. Il film di Ric Roman Vaugh recupera quindi, almeno nell’impostazione di base, il vecchio motivo – di origine hitchcockiana – dell’innocente in fuga braccato dalle autorità, sostituendo all’individuo comune normalmente al centro di questo canovaccio, uno scaltro killer capace di tenere in scacco gli inseguitori – e di indagare da par suo sul reale (più che immaginabile) responsabile della congiura. Proprio nella prima parte, quella della fuga di Banning, il film gioca le sue migliori carte, non solo con una buona tensione di genere e una struttura generalmente più controllata rispetto a quella dei suoi predecessori, ma anche con l’introduzione di quel po’ di (auto)ironia nel personaggio del padre del protagonista – uno stagionato e sornione Nick Nolte.

Proprio l’introduzione di una (pur piccola) componente ironica e smitizzante, così apparentemente aliena a quella che finora è stata l’impostazione generale della saga, rappresenta la vera, sostanziale novità di questo Attacco al potere 3. Anche qui bisogna intendersi, comunque: la novità non solo è quantitativamente piuttosto limitata (le sequenze che vedono in scena il personaggio di Nolte non occupano poi molto, nel minutaggio generale del film) ma contribuisce anche involontariamente, da par suo, a ribadire quel carattere grossolanamente muscolare, poco attento alle sottigliezze, che finora ha caratterizzato l’intero franchise. Se è vero, infatti, che risulta divertente e volutamente eccessiva la sequenza in cui il personaggio di Nolte – improbabile ex veterano trasformatosi in pacifista, e tuttavia ben memore delle tecniche di guerriglia che consentono di fare una carneficina – si libera a modo suo dei nemici che gli avevano invaso la proprietà, il film è piuttosto goffo laddove cerca di introdurre un qualche elemento psicologico nel rapporto padre/figlio, tratteggiando in modo smaccato e risaputo, impossibile da prendere sul serio, il tema di un abbandono e di un ritorno. Un goffo tentativo di alzare il livello narrativo della saga che si traduce anche nel modo in cui viene trattata la patologia del protagonista, menzionata all’inizio e poi praticamente trascurata (al punto che si arriva a dimenticarsene) fino alla frazione finale.

Con un villain altrettanto privo di spessore e carisma dei suoi predecessori (qui col volto di un legnoso Danny Huston) e una gestione ben poco attenta dei personaggi secondari – vedi la sprecatissima agente interpretata da Jada Pinkett Smith – Attacco al potere 3 sembra scalpitare per arrivare (con più di una forzatura e incongruenza) all’ultima parte della storia, in cui l’angelo caduto risorge e riprende – fin troppo agevolmente – il suo ruolo di sempre. La proverbiale mattanza è meno strabordante rispetto a quelle mostrate nei capitoli precedenti, mentre il regista mostra un buon controllo della tensione, e una gestione chiara e pulita delle sequenze d’azione. Il primo cittadino col volto di Morgan Freeman, da par suo, rivela sul volto un certo qual spaesamento, e c’è da capirlo: è normale essere un tantino stanchi di continuare a essere salvati (e sempre dallo stesso angelo custode, per giunta). Il personaggio appare decisamente più a suo agio in un’estemporanea, brevissima scena posta alla fine del film, di cui evitiamo di rivelare il contenuto, che si somma alla mid-credits scene – ormai passaggio obbligato per qualsiasi blockbuster – per ricordare che la componente ironica è ancora lì, anche se la sceneggiatura sembrava essersela momentaneamente dimenticata. Viste le premesse su cui era nata la saga – decisamente poco improntante alla smitizzazione e all’autoironia – forse c’è da accontentarsi.

Info
Il trailer di Attacco al potere 3.

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