Bombay Rose

Bombay Rose

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Dopo i pluripremiati cortometraggi Printed Rainbow (2006) e TrueLoveStory (2014), la talentuosa artista indiana Gitanjali Rao realizza il suo primo lungometraggio, Bombay Rose, presentato alla Settimana Internazionale della Critica 2019. Un’opera prima che riprende e amplia le suggestioni narrative di TrueLoveStory e che conferma l’efficacia di uno stile pittorico dai cromatismi debordanti. Un realismo colorato, sognante, poetico e politico.

Rewa

Nella grande città si lotta per la sopravvivenza e una rosa rossa unisce tre storie di amori impossibili. L’amore fra una ragazza irraggiungibile e un ragazzo. L’amore fra due donne. L’amore di un’intera città per le sue star di Bollywood… [sinossi – sicvenezia.it]

È significativa l’apertura della Settimana Internazionale della Critica 2019. Non è solo un buon film Bombay Rose, è soprattutto un’opera prima in grado di smussare le carenze del budget e di arginare le genetiche difficoltà produttive del cinema d’animazione. Servono soldi, ma sono ancor più utili idee e talento. Al di là dello stratificato contenuto e della costruzione narrativa, il lungometraggio di Gitanjali Rao può contare su una composizione cromatica a tratti abbacinante. Preziosismi estetici che emergono con forza da un’animazione inevitabilmente limitata. Un piccolo film destinato a faticare per raggiungere una meritata visibilità, ma che potrà sicuramente contare sul circuito festivaliero.

Novantatré minuti densissimi. C’è un po’ di tutto in Bombay Rose, film sulla strada e per la strada, pieno di gente, di persone comuni, di piccole storie che si intrecciano. C’è anche Bollywood, il sogno, la chimera di una vita migliore. La fuga dalla realtà e anche il tentativo di una fuga vera. Il flusso narrativo-pittorico procede senza sosta, dai villain e dagli eroi di celluloide di Pyaar Ka Fasaana al fantasy sognante e coloratissimo, dai fiori rubati e regalati a un delicato amore lesbico, dai giocattoli che tornano a funzionare all’emancipazione femminile. Melodramma e realismo tratteggiati da un’animazione pittorica, distante anni luce da qualsiasi logica commerciale.

Bombay Rose e le scelte tecnico-estetiche di Gitanjali Rao sono un altro tassello di quella animazione autoriale/sperimentale che non conosce confini e che deve quotidianamente lottare per la propria sopravvivenza. Difficile non pensare ad Aleksandr Petrov, agli artisti del National Film Board of Canada, ma anche alle recenti scelte grafiche di alcuni registi transalpini, come Jean-François Laguionie (La tela animata) e Sébastien Laudenbach (La jeune fille sans mains).
La libertà grafico-narrativa di Bombay Rose è inscritta nel suo DNA, nella pittura su vetro come punto di partenza. La trasformazione delle forme e della narrazione sono la logica conseguenza di questa scelta tecnica e stilistica, come la compenetrazione tra sogno e realtà. Per raccontare i vicoli di Bombay serve anche Bollywood, servono fiumane di colori, una sovrabbondanza che non diventa mai caos e che restituisce in egual modo speranza e disperazione, fiamme e ombre.

Bombay Rose non può vantare la fluidità delle opere di Petrov, come non può avere i mezzi tecnici ed economici degli animatori del NFB. Come per i pregi, infatti, anche i limiti sono evidenti. Gitanjali Rao trova comunque una sua personale declinazione dell’animazione, una sorta di limited animation pittorica. Anche per questo, il film cresce tavola dopo tavola, sequenza dopo sequenza, come se l’accumulo cromatico riuscisse a mascherare o cancellare i passaggi più zoppicanti. In questo senso, l’animazione di Bombay Rose sembra quasi ipnotica, seduttiva.
Nel suo mescolare e intrecciare, il film di Gitanjali Rao pesca a piene mani dell’iconografia indiana, dal cinema e dalla musica, con la canzone del fiume Rewa che scandisce il crescendo emotivo e narrativo, fino all’inatteso e calzante utilizzo di Cucurrucucú paloma di Caetano Veloso. Come per i colori, tutto finisce per fondersi in un più che apprezzabile tutt’uno, un quadro pulsante, vitale: limiti e pregi, passato e presente, sogno e incubo, leggende e quotidianità. Alla fine, il Rewa scorre anche nei nostri occhi.

PS: in tema di animazione e Settimane, vale la pena ricordare l’ottimo J’ai perdu mon corps di Jérémy Clapin, presentato e premiato alla Semaine de la Critique 2019. SIC e Semaine si confermano luoghi privilegiati per la ricerca di nuovi autori, titoli, tendenze. Anche per l’animazione. Avanti così.
Info
Bombay Rose sul sito della SIC.

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