The Painted Bird

The Painted Bird

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Václav Marhoul dirige con The Painted Bird il suo terzo film, e anche il più ambizioso. Non è cosa di tutti i giorni, infatti, portare sullo schermo il romanzo che rese nota al mondo la letteratura del polacco – trasferito negli Stati Uniti – Jerzy Kosiński. Marhoul sceglie uno stile da un lato apparentemente rigoroso, ricorrendo al bianco e nero, e dall’altro fin troppo esplicito ed esibito, quasi a voler rincorrere una detestabile pornografia della miseria. Ne viene fuori un film non privo di fascino ma spesso ridondante e perfino riprovevole. In concorso alla Mostra di Venezia.

Uomini (e) bestie

Tratto dal famoso romanzo di Jerzy Kosinski, The Painted Bird è una pellicola 35mm girata in bianco e nero, una meticolosa evocazione della selvaggia, primitiva Europa dell’Est alla fine della sanguinosa Seconda guerra mondiale. Il film ripercorre il viaggio del Ragazzo, affidato dai genitori perseguitati a un’anziana madre adottiva. Presto, però, l’anziana donna viene a mancare e il Ragazzo rimane solo a vagare per le campagne e a spostarsi tra villaggi e fattorie. Nella sua lotta per la sopravvivenza, il Ragazzo è esposto all’atroce brutalità messa in atto dai superstiziosi contadini locali e assiste alla violenza inaudita dei soldati russi e tedeschi, efficienti e spietati. Al termine della guerra, il Ragazzo è cambiato, per sempre. [sinossi]

Tra tutti i titoli che affollano il concorso della settantaseiesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia The Painted Bird è apparso fin dalla conferenza stampa romana di luglio uno dei più misteriosi. Un po’ perché Václav Marhoul, nonostante sia al terzo film da regista, è un nome sconosciuto ai più, un po’ perché il romanzo da cui è tratto, scritto da Jerzy Kosiński nel 1965, è stato un oggetto di culto per una generazione per poi scomparire dai radar dei non addetti ai lavori. Un po’, infine, per lo strano ma nutrito cast su cui il regista ha potuto fare affidamento, in grado di mettere gli uni accanto agli altri i vari Harvey Keitel, Barry Pepper, Udo Kier e Julian Sands. Insomma, The Painted Bird non passava inosservato, anche per la durata che si inerpicava fino a sfiorare le tre ore. Non c’è dubbio alcuno che Marhoul abbia messo in piedi una macchina produttiva imponente, a tratti quasi annichilente. Dopo una gestazione durata quasi dieci anni il film è stato girato per oltre sedici mesi spaziando tra Ucraina, Slovacchia, Polonia e Repubblica Ceca, imprimendo le immagini su pellicola 35mm e in bianco e nero. Nelle intenzioni dell’autore l’utilizzo del bianco e nero e della pellicola avrebbe contribuito a rendere evidente il discorso sulla storicità della vicenda, ma in realtà lo splendore della fotografia lavorata da Vladimir Smutny non fa che acuire e portare a galla i vari problemi di cui è disseminato il film. Perché, ed è giusto sottolinearlo fin dal principio, The Painted Bird è un’operazione discutibile, che lancia anche segnali preoccupanti per quel che concerne il concetto di mainstream europeo.
Fedele allo sviluppo del romanzo, che il polacco Kosiński scrisse quando si era già trasferito a vivere negli Stati Uniti d’America, dove avrebbe poi trascorso il resto della sua vita, il film si dipana attraverso il percorso compiuto dal suo protagonista, un ragazzino ebreo in viaggio durante la Seconda Guerra Mondiale nell’est Europa per tornare nel posto in cui è nato e cresciuto.

Scandendo in capitoli gli incontri che il ragazzino senza nome fa durante il viaggio (ogni capitolo porta il nome di una o più persone con cui dovrà confrontarsi) Marhoul segue una metrica del racconto molto letteraria, ma che mal si confà al cinema. Anzi, un racconto così programmatico perde presto forza all’interno di un’opera così lunga, ma mai stratificata. Perché il primo appunto che si può fare a Marhoul riguarda la superficie liscia delle cose: non si scende mai in profondità, e a dominare ogni singola situazione rimane solo ed esclusivamente il potere della pellicola, di una fotografia così contrastata e lucente. Affascinato lui per primo dalle potenzialità del cinema, Marhoul sembra dimenticare ciò che sta raccontando, e si perde dietro lo splendore, la magia del controluce, un volo di corvi o di oche in cielo, i riflessi sull’acqua e il contrasto del corpo umano sul candore bianco della neve. L’immagine domina il senso, ma non si trasforma mai in esso. Resta immagine, quasi dovesse preservare una purezza tutta mentale, e mai carnale. Quella purezza che nel racconto invece viene meno, e con continuata reiterazione. Durante il suo peregrinare il ragazzino, che per la stragrande parte del tempo non profferisce verbo, ha modo di incontrare un’umanità assai varia, ma declinante per lo più i vezzi peggiori dell’umano: viene abusato da un uomo e da una donna, lanciato dalla folla di una chiesa in un letamaio, vede un uomo cavare gli occhi con un cucchiaino al contadino con cui ha una relazione sua moglie (a sua volta picchiata a furia di cinghiate dal marito), conosce la ninfomania, il tradimento, l’uccisione a freddo, il martirio. La violenza, in ogni modalità essa possa presentarsi.

Di fronte a un universo così terrorizzante, in cui il nazismo non è che una delle possibili espressioni dell’orrore (e la pressoché totale mancanza di personaggi positivi o morali tende a semplificare ulteriormente qualsiasi tipo di discorso sull’umano e sulle sue pulsioni), il regista ceco si lascia prendere le mani da quella che potrebbe essere definita come una pornografia della miseria. Insiste sui dettagli, Marhoul, dagli occhi cavati dalle orbite con cui giocano i gatti, alla decapitazione di una capra, dalla macellazione di un gruppo di ebrei che sta cercando di scappare a un treno che li sta deportando fino alle ferite inferte al capo del protagonista da uno stormo di corvi. Un’insistenza sgradevole, e che oltretutto è ammantata dalla già citata bellezza delle immagini e dalla ricercatezza estetica. “Solo nelle tenebre possiamo vedere la luce”, scrive Marhoul nelle note di regia sul catalogo della Mostra di Venezia. Il problema è che se le tenebre sono assolute, la luce è costretta a risplendere in modo uniforme sulle sozzure, fino a elevarle ad atto artistico. Una scelta sdrucciolevole, e che lascia molti, moltissimi dubbi. Tralasciando la messe di star (in declino) che hanno accettato di prendere parte a questa avventura, restano i fin troppo chiari riferimenti cinefili del regista: l’Andrej Tarkovskij de L’infanzia di Ivan e Andrej Rublëv, l’Aleksej German di Hard to be a God e in particolar modo l’Elem Klimov di Va’ e vedi, che narra una storia molto simile. Ma quei rimandi, così espliciti da apparire quasi volgari, non fanno che marcare la distanza siderale esistente tra The Painted Bird e i suddetti capolavori del cinema sovietico e russo.

Info
The Painted Bird sul sito della Biennale.

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