La mafia non è più quella di una volta
di Franco Maresco
Ideale seguito del già dinamitardo Belluscone, La mafia non è più quella di una volta segna forse l’apice dell’intera filmografia di Franco Maresco, che fa deflagrare il grottesco dal reale senza dover ricorrere ad alcuna forzatura, creando al contrario una dialettica quasi impossibile tra l’avanspettacolo freak di Ciccio Mira e l’arte con il popolo di Letizia Battaglia. Un’opera mostruosa (sotto tutti i punti di vista), che in concorso alla Mostra appare come un oggetto non identificato. E per questo ancor più meraviglioso.
Neomelodici per Falcone e Borsellino
Nel 2017, a 25 anni dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, Franco Maresco decide di realizzare un nuovo film. Per farlo, trova impulso in un suo recente lavoro dedicato a Letizia Battaglia, fotografa ottantenne che con i suoi scatti ha raccontato le guerre di mafia, definita dal New York Times una delle “undici donne che hanno segnato il nostro tempo”. Il regista sente il bisogno di affiancare a Letizia una figura proveniente dall’altra parte della barricata: Ciccio Mira, ‘mitico’ organizzatore di feste di piazza, già protagonista nel 2014 di Belluscone. Una storia siciliana. Nei pochi anni che separano i due film, Mira sembra cambiato. Forse cerca un riscatto, come uomo e come manager, al punto da organizzare un singolare evento allo Zen di Palermo: i neomelodici per Falcone e Borsellino. Eppure le sue parole tradiscono ancora una certa nostalgia per “la mafia di una volta”. Intanto, assistendo alle celebrazioni dei martiri dell’antimafia, il disincanto di Maresco si confronta con la passione di Battaglia. [sinossi]
La mafia non è più quella di una volta, oltre a essere lo splendido titolo con cui Franco Maresco torna a Venezia a quattro anni di distanza da Gli uomini di questa città io non li conosco. Vita e teatro di Franco Scaldati (e per la prima volta in concorso), è anche la perifrasi della motivazione che spinse Tommaso Buscetta a pentirsi, come testimonia anche Il traditore di Marco Bellocchio. Tra le varie persone che nella Palermo del maggio 2017 mostrano il più totale disinteresse a partecipare alla commemorazione degli attentati in cui perirono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ce n’è anche uno che secondo Maresco somiglia proprio a don Masino: ma questi si schermisce, prediligendo semmai un accostamento con Diego Armando Maradona. La somiglianza, la similitudine, l’apparenza. In questi tre termini, a voler essere radicali, si può racchiudere il senso di un’opera comunque ricca e stratificata come La mafia non è più quella di una volta, quarta regia in solitaria per Maresco da quando si ruppe il sodalizio che lo legava a Daniele Ciprì. Il cinema è la prima tana dell’apparenza, e lo testimonia l’incipit del film, con Letizia Battaglia impegnata al trucco, che cerca di estorcere una promessa impossibile al regista: “nel tuo prossimo film voglio fare la vecchia bottana”. Ma se già l’idea di prossimo film per un autore fuori da ogni traiettoria sistemica come Maresco può sembrare un azzardo, il pensare che possa essere tradita la sua stessa concezione di cinema per ridurla a una messa in scena ex abrupto ha quasi del fantascientifico. Nessuno e nessuna potrà mai interpretare la “vecchia bottana” in un film di Maresco, perché ciò che prende corpo sullo schermo vola ad altezze impensabili per altri cineasti siciliani – viene in mente l’Aurelio Grimaldi di Rosa Funzeca. Non si tratta di stilare una classifica, ma di riconoscere a Maresco un’alterità che non si ferma al suo muoversi in territori in cui la concezione di realtà e finzione diventa un fatiscente vezzo borghese. Il cinema di Maresco per molti è inclassificabile – o classificabile nel peggiore dei modi possibili – perché la sua funzione sistematica è quella di squadernare i contorni ideali, di costringere l’occhio dello spettatore a diventare strabico, a divaricarsi, a perdere la centralità della visione. C’è una parata chiara e netta, su cui si apre il viaggio del nuovo film di Maresco. È il 23 maggio e come ogni anno Palermo viene “invasa” da giovani e meno giovani che da tutta Italia arrivano nel capoluogo siciliano per urlare il loro NO! perentorio alla mafia: la data scelta è quella della strage di Capaci, quando sul territorio di Isola delle Femmine il magistrato Giovanni Falcone, sua moglie e collega Francesca Morvillo e gli uomini della scorta perirono in un attentato al tritolo.
C’è un modo chiaro e netto di rappresentare quella giornata di commemorazione e di festa. E poi c’è il modo in cui la affronta Maresco. Con lo sguardo scettico di chi in quel giorno intravvede l’ipocrisia di un potere che “gattopardescamente” è mutato senza che nulla mutasse. E allora l’inquadratura non può più farsi netta e chiara, e va a rincorrere quei fantasmi umani che non hanno timore di negare quella festa, di bestemmiare di fronte allo Stato (che si pretende) democratico.
Ma Maresco non è un uomo dedito al pamphlet. La retorica è forse il nemico più ostinato da sconfiggere, e di fronte al quale svicolare se si mostra con troppa imponenza. E quindi deve entrare in campo l’elemento dialettico, la forma di discussione in cui anche ciò che riprende la videocamera può e deve diventare elemento di auto demitizzazione, di scardinamento del suo stesso schema. In Belluscone, una storia siciliana, che in qualche misura può essere considerato il capitolo primo di questo grande romanzo siciliano, Maresco trovava in Ciccio Mira, improbabile impresario e presentatore televisivo, il suo punto di contatto per discutere – e mettere in discussione – l’esterno, l’esistente, il passato e il presente di Palermo e della sua gente. Qui questo, per quanto centrale e fondamentale, non può più essere considerato sufficiente. Maresco trova dunque una nuova forma di dialettica, portando e in qualche modo costringendo in scena Letizia Battaglia, l’esempio più cristallino dell’assoluto e non compromissorio ripudio della mafia. In questo modo, nella faraonica messa in scena di una messa in scena di una messa in scena – perché il livello di finzione è triplice, come si scriverà più avanti – il regista separa La mafia non è più quella di una volta in due segmenti, in due duetti a loro modo indipendenti ma strettamente connessi. Entrambi i duetti pretendono l’accettazione da parte dello spettatore di un fantasma, quello della voce di Maresco, stiletto e contrappunto di ogni dichiarazione. La coppia Maresco/Battaglia si conforma come sguardo critico sulla Palermo “progressista”, la città istituzionale che predilige festeggiare invece che ricordare: lo scambio tra i due ha quasi i contorni di una screwball comedy sconnessa, lontana dal grottesco iper-reale di quella Maresco/Mira, che invece si muove come già nel film precedente, nella Palermo sottoproletaria, quella dello Zen 2, con la sua struttura architettonica a insulae.
Se il primo livello di finzione è quello voluto dallo stesso Comune, con la parata che assume i contorni del carro allegorico, della festa, della cordata umana tra scout e “buon” pensiero, il secondo livello di finzione è assai più deflagrante. È la finzione dell’essere avanspettacolo, la finzione dell’appartenere a un mondo (quello dello spettacolo) che guarda a distanza con malcelato disgusto. È la fiera campionaria dei freak che accompagnano le sortite di piazza di Mira, quell’universo quasi subumano che domina lo schermo, lo asservisce ai propri ritmi e ai propri desideri. Il palco in mezzo allo Zen 2, malvisto da alcuni cittadini locali che non gradiscono la commemorazione di chi combatté la mafia, è l’immagine più iconoclasta di tutta la settantaseiesima Mostra di Venezia, e dell’intera annata di cinema italiano – e non solo. È l’immagine di una profanazione, di un corpo malsano che si innesta su un territorio malsano cercando uno sposalizio impensabile. Un corpo a suo modo tenerissimo, ingenuo, quasi infantile come la demenza nello sguardo e nelle parole di Matteo Mannino, il produttore di Ciccio Mira che, a detta dell’organizzatore di eventi, ha avuto la meningite da bambino e per questo è rimasto un po’ indietro a livello mentale.
Ma sarà vero? Ed è vero che Cristian Miscel, l’assurdo enfant prodige della scuderia di Mira, cantante stonato/sovrappeso/fuori tempo (nel beat musicale quanto nella società), è andato in coma dopo un incidente stradale per fuoriuscirne solo a seguito dell’apparizione nel deliquio dell’immagine di Falcone e Borsellino? Falcone e Borsellino, nuovi santi e quindi nomi che si possono bestemmiare, e rendere immateriali: dopotutto la loro azione per Mira e Mannino è ridotta a ciò che è stato loro intitolato dopo il martirio: le scuole, i parchi pubblici, le piazze, e via discorrendo. La loro funzione sociale è nella morte, non prima, per chi vive in determinate zone della città. La consapevolezza di Mira di fronte alla videocamera, assai superiore a quella mostrata in Belluscone, è l’elemento dissonante di un film che trova direzioni sempre imprevedibili, distorte, solo all’apparenza secondarie. Maresco lavora nei contorni della farsa grottesca, continuando a giocare con Mira – anche in questo film ripreso solo ed esclusivamente in bianco e nero, anche quando è contornato da persone a cui è concessa la falsa verità del colore –, ma passo dopo passo traccia il percorso attraverso il quale ragionare in modo tragico e spassosissimo sull’antropologia palermitana. Un’antropologia che non può esulare dall’aforisma di Guy Debord: “Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso”. L’unica, intima verità, quella che un’opera come La mafia non è più quella di una volta sembra scacciare – solo a un occhio superficiale e privo di stratificazione, incapace di leggere attraverso i segni e i sensi –, esiste oramai solo nel falso dichiarato. Il tremendo posticcio dei balli country o dei gorgheggi neomelodici, quello spettacolo esibito che cerca di rifuggire dall’unica parola che terrorizza: mafia. Non si può pronunciare, quella parola, non esiste, non è parte del vocabolario di un’intera popolazione. Non si può gridare NO! alla mafia perché quel termine non c’è. Quel mondo non c’è. Anche quando lo si può ricordare nella memoria, come l’incredibile racconto di Mira che riporta a galla un avvenimento di cinquant’anni prima – e che ha a che fare anche con la famiglia Mattarella, dettaglio che ha scandalizzato troppe anime candide al Lido e ha costretto Maresco a ridurre quella sequenza in fase di montaggio, di fatto depotenziandola almeno in parte –, non si può pronunciare. La mafia non è più quella di una volta ma, per chi vi abita nel ventre caldo/opprimente/dolce/depravante, la mafia non è mai stata, sic et sempliciter.
C’è però un terzo e ultimo livello di finzione, nel film. Dopo quello “istituzionale” e quello “sottoproletario” esiste il livello “artistico”. È la finzione di Maresco, della sua scrittura, del suo essere sopra e sotto le cose che mette in scena, in ogni momento e contemporaneamente. In quel livello di falsità del vero, che attraverso la videocamera riesce a creare una dialettica e ad avvicinare mondi che tra loro non hanno nulla a che spartire – né vogliono averlo –, Maresco riesce a “salvare” l’umanità che riprende, e la città in cui quest’umanità vive. Il suo sguardo così dichiaratamente impuro, lontano dalle moine e dai merletti di trapunta del cinema italiano è in realtà l’unico modo per trovare un minimo di purezza. Non più sorridendo ai mentecatti (agio borghese che si “sporca” con i “meno fortunati”), ma mostrandone l’aspetto di sopravvissuti all’apocalisse, come già era dopotutto nei supremi Lo zio di Brooklyn e Totò che visse due volte. Non si può non ridere della fiera delle atrocità portata alla ribalta da Ciccio Mira, ma come afferma Battaglia “meglio loro dell’albero di Falcone”. È lì, nello scetticismo mai crudele – ma neanche mai complice – di Maresco, in quello sguardo che non vede l’oggi ma la maceria di ieri che è diventata apocalisse post-nucleare, fango d’altri pianeti, che si può ancora trovare un barlume di speranza, se non proprio di salvezza. Sempre consapevoli di quell’omertà che fa parte della cultura siciliana – e forse anche italiana – fin dai tempi di Omero. Chi è stato a fare questo? Nessuno.
Info
Il trailer de La mafia non è più quella di una volta.
- Genere: commedia, grottesco
- Titolo originale: La mafia non è più quella di una volta
- Paese/Anno: Italia | 2019
- Regia: Franco Maresco
- Sceneggiatura: Claudia Uzzo, Francesco Guttuso, Franco Maresco, Giuliano La Franca
- Fotografia: Tommaso Lusena De Sarmiento
- Montaggio: Edoardo Morabito, Francesco Guttuso
- Interpreti: Ciccio Mira, Letizia Battaglia
- Colonna sonora: Salvatore Bonafede
- Produzione: Dream Film, Ila Palma, Tramp Limited
- Distribuzione: Istituto Luce Cinecittà
- Durata: 107'
- Data di uscita: 12/09/2019

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