Mosul

Prodotto dai fratelli Russo e diretto con grande sicurezza dallo sceneggiatore Matthew Michael Carnahan, qui alla sua prima regia, Mosul è un film di guerra avvincente e commovente. Fuori concorso a Venezia 76.

Come vinsi la guerra

Dopo che l’ISIS ha preso le loro case, famiglie e città, un gruppo di uomini lotta per riconquistarle. Basata su eventi realmente accaduti, questa è la storia della squadra speciale di Ninive: un’unità di ex poliziotti che conduce un’operazione di guerriglia contro l’ISIS nel disperato tentativo di salvare la città di Mosul. [sinossi]

Con Mosul, fuori concorso a Venezia 76, si è compiuto un radicale spostamento di prospettiva. Finora i conflitti arabi di questi anni erano stati affrontati soprattutto con approccio documentaristico, basti pensare a Still Recording, vincitore della Settimana della Critica dello scorso anno. Oppure si era provato, da parte americana, a raccontare quel mondo con film in cui comunque il punto di vista principale sulla faccenda era sempre appannaggio di un esterno, di uno straniero, e dunque di un americano.

Ora, per l’appunto, Mosul cambia tutto e ci dice qualcosa di spiazzante, che forse non avremmo potuto credere possibile: la guerra potrà sempre essere ri-raccontata a prescindere dal contesto. Non importa, ad esempio, se i protagonisti non sono in Vietnam a combattere un’altra guerra e a parlare un’altra lingua in un altro tempo, perché quel che vediamo in Mosul è comunque il Vietnam. E, infatti, in più parti Mosul sembra richiamarsi figurativamente all’ultima parte di Full Metal Jacket, mentre dal punto di vista narrativo la segretezza della missione della squadra speciale protagonista non può non ricordare Apocalypse Now. E, poi, volendo, si possono trovare anche altri riferimenti, come ad esempio un certo sapore di 1997: Fuga da New York, soprattutto nella descrizione della città in disfacimento/già disfatta.

Tutti questi accostamenti possono sembrare la manifestazione di un esercizio ozioso, e invece ci paiono fondamentali, perché ci dicono che anche la guerra contro l’ISIS, nonostante l’insistenza da più parti sulla sua irrappresentabilità, può essere raccontabile, può essere filmata con gli strumenti tradizionali del cinema (la qual cosa, ovviamente, ci consola). Ed è quello che, per l’appunto, riesce a fare Mosul, prima regia dello sceneggiatore Matthew Michael Carnahan, già autore degli script di The Kingdom (dove per l’appunto vi era la prospettiva degli americani in guerra in terra araba), di State of Play, Leoni per agnelli e World War Z. Dunque una filmografia di tutto rispetto. E Carnahan dimostra con Mosul di essere non solo un ottimo narratore, ma anche un efficacissimo metteur en scène: lo si verifica in particolare nelle scene d’azione e nelle sparatorie dove tutto è coreografato, ogni momento dei personaggi è motivato, ogni sviluppo del conflitto a fuoco è fatto comprendere allo spettatore, grazie a un montaggio preciso e secco; mentre invece spesso capita al contrario che, per ovviare all’imprecisione in fase di regia, poi si decida di “risolvere” il montaggio con inquadrature brevi e confuse.

Siamo al cospetto, dunque, di un’opera ambiziosa e coraggiosa, e va dato merito ai fratelli Russo (i registi degli Avengers) di aver prodotto questo film in cui si parla solo arabo e non vi è neppure un divo hollywoodiano, ma solo attori iracheni, che magari poi, dopo questo film, verranno chiamati a Hollywood. Pensiamo in particolare al giovane protagonista, Adam Bessa, il cui volto asciutto e iconico – sempre improntato all’understatement – resta senz’altro impresso nella memoria. Ed è, d’altronde, l’understatement la chiave fondamentale non solo attoriale di Mosul, lo è anche dal punto di vista visivo, nella pressoché totale assenza di musica e nella ruvidezza della macchina a mano, come anche lo è sul piano narrativo-dialogico-comportamentale, con quei rari dialoghi, con quelle rarissime esplosioni d’affetto, con quella famiglia – che è la squadra speciale che combatte contro l’ISIS – che si disperde sotto gli occhi lucidi di chi ha la fortuna/sfortuna di sopravvivere. E in tutto questo ha un ruolo essenziale il leader, interpretato da Suhail Dabbach, ossessionato dalla necessità di cementare i rapporti umani, di ricostruire quanto si è distrutto, persino di raccogliere la spazzatura nei luoghi disfatti in cui si trova a passare; il suo voler compulsivamente pensare alla ricostruzione della città, immaginando che questo momento debba essere sempre imminente, è un tratto fortemente commovente di questo film, ed è l’unica nota di speranza possibile.

Info
La scheda di Mosul sul sito della Biennale di Venezia.

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