Fragment of an Empire
di Fridrikh Ermler
Sfarzosamente restaurato in 35mm restituendo l’iconica e censuratissima immagine del Cristo in maschera antigas e accompagnato dalla partitura originale di Deshevov eseguita dall’Orchestra San Marco di Pordenone, giunge alle 38esime Giornate del Cinema Muto Fragment of an Empire, complesso capolavoro di Fridrikh Ermler. Un ponte freudiano e politicissimo fra l’Espressionismo, l’Avanguardia Sovietica e il Realismo Socialista, manuale di linguaggio cinematografico che nel ’29 si poneva ambiguo, critico e lungimirante verso i primi anni di Stalin per tentare, con istanza ancor più rivoluzionaria, di spingere a favore della Rivoluzione Permanente e dell’Internazionalismo trotskista.
Proletari di tutti i Paesi, unitevi!
Filimonov, un sottufficiale che ha perduto la memoria in seguito ai traumi subiti durante la Prima Guerra Mondiale, si “risveglia” dieci anni dopo. Si ritrova in una città a lui sconosciuta (Leningrado anziché San Pietroburgo), in un nuovo Paese (l’URSS anziché la Russia) dove le fabbriche appartengono ora al “popolo” (qualunque cosa ciò significhi) e sua moglie si è ormai risposata. [sinossi]
Sono molto pochi, nella storia del cinema muto sovietico, i titoli nati direttamente con una partitura orchestrale d’accompagnamento. Tanto che quella che Vladimir Deshevov scrisse per Fragment of an Empire, conclamato capolavoro di Fridrikh Ermler considerato sin da subito un caposaldo della cinematografia da giganti con linguaggi quasi opposti come Pabst, Ėjzenštejn e Chaplin, fu eseguita molto di rado nel corso dei decenni. A causa, di certo, dei ripetuti rimontaggi subiti dal film nei primi anni Trenta, spinti un po’ dalla censura pronta a far sparire da quasi tutte le copie (non solo) l’iconica e potente ma anche espressamente vietata sequenza del Cristo in maschera antigas, e un po’ dall’effettiva difficoltà linguistica e narrativa del complesso lavoro di Ermler, non particolarmente capito dalle masse nel corso delle prime proiezioni e quindi semplificato dal regime in versioni più vicine al Realismo Socialista destinate alla ridistribuzione nelle campagne. Ma forse, a far sparire o quasi dalla memoria collettiva la sinfonia di sonorizzazione originale, hanno contribuito anche le sue insistite e cupe tonalità in minore, tese a sottolineare con spirito evidentemente ben più critico, parodistico e negativo di quello delle immagini le ambiguità della società bolscevica a dieci anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, e molto meno la contemporanea e fondamentale presa di coscienza politica del protagonista.
Tuttavia Ermler, convinto marxista e bolscevico della prima ora più volte torturato dai Bianchi, sin dal febbraio del 1917 combattente a fianco dei rivoluzionari di Lenin e pure negli anni successivi a Fragment of an Empire sempre fedele uomo del Partito Comunista, si dichiarò sempre entusiasta delle musiche realizzate da Deshevov, forse non cogliendo fino in fondo le loro sfumature controrivoluzionarie, o forse volendole ancor più intelligentemente sfruttare come componente dialettica all’interno del linguaggio cinematografico nel suo voler contribuire a rilanciare la Rivoluzione Permanente. È quindi un vero e proprio evento il loro ritorno in versione integrale per la prima volta dopo novant’anni, dirette dal maestro Günter Buchwald ed eseguite dall’Orchestra San Marco di Pordenone, per sonorizzare il nuovo e sfavillante restauro in 35mm del film realizzato dall’EYE Filmmuseum di Amsterdam, in collaborazione con Gosfilmofond of Russia e San Francisco Silent Film Festival con un fondamentale appoggio (e la copia dalla quale recuperare parte delle scene ormai ritenute invisibili e le didascalie originali) da parte della Cinémathèque Suisse. Un lavoro splendidamente filologico di ricostruzione, già presentato in Olanda con nuova sonorizzazione elettronica di Colin Benders, ma che solo a queste 38esime Giornate del Cinema Muto, fra lo schermo e la buca del Teatro Verdi, chiude finalmente il cerchio ricongiungendosi con la sua – rara fra le rare – partitura originale.
Eseguito con l’accortezza di segnalare visivamente gli intertitoli che è stato necessario ricostruire, identici per il resto a quelli originali, con la piccola indicazione «2018», il restauro di Fragment of an Empire riporta, lavorando su oltre venti copie per almeno nove differenti versioni del film e basandosi sui rigorosissimi documenti di censura sovietici che annotavano ogni singola inquadratura e ogni cartello, alla quasi integrità e alle condizioni della prima proiezione. Mostrando come, dal sostanziale Espressionismo della prima, notturna e folgorante sezione bellica fino alla pura Avanguardia sovietica che si declina in chiave narrativa e freudiana per mettere in scena il ritorno della memoria, dal Futurismo dell’arrivo impreparato e spaurito in una Leningrado radicalmente cambiata dalla Rivoluzione all’anticipazione di quello che dal ’34 diventerà il Realismo Sovietico, con il suo dramma mescolato con la commedia e una recitazione hollywoodiana dalla debordante espressività nei mille differenti stati d’animo del protagonista Fragment of an Empire sia, forse ancor prima che un film politico, uno fra i più preziosi trattati di storia e tecnica del linguaggio cinematografico.
Fatto di figure umane che emergono caravaggesche dall’assoluta oscurità e da un’impossibile profondità di campo di lame di luce a tentare di fendere la notte, fatto di cagne dalle quali abbeverarsi prima che il cinismo del soldato uccida l’umanità degli animali, fatto di un protagonista per molti versi cristologico nella sua assoluta innocenza mentre viene costantemente oppresso. Fatto di treni che ripartono e di brandelli subliminali e psicanalitici (Ermler fu grande ammiratore di Freud) di memoria, magari sfocati ma prima o poi destinati a ripresentarsi in un montaggio di attrazioni e cinepugni che rompono il tempo e lo spazio, il cosciente e il subliminale, l’esterno e l’interno. In un prisma che moltiplica e sfaccetta l’immagine della croce al valor militare come una sorta di madeleine proustiana, con la quale ritrovare le altre croci (la chiesa, il cimitero, il gigantesco e solo adesso reinserito crocifisso con la maschera antigas sradicato e distrutto dal passaggio di un carro armato sul campo di battaglia) e, attraverso il loro dolore psicologico, il tempo e l’identità. Passando magari dai paesaggi urbani che corrono dietro i vetri del tram, dagli incroci vertoviani delle linee percorse dai giganti di ferro, dalle carrellate a precedere il cammino, dalle panoramiche a schiaffo, persino dalla macchina a mano, e poi da un diaframma progressivamente chiuso a dissolvere in nero direttamente in macchina, come in un inoltrarsi visivo nella stessa oscurità in cui si ritrova un protagonista ancora alla disperata ricerca di un padrone. Per riaprire ancora al suo ricordo, alle sue libere associazioni di idee di morte e rovina, di mutilati e di orrori bellici, di oppressioni che forse avevano solo cambiato volto e classe sociale, e che si stavano in qualche modo iniziando a ripresentare anche in una società che, lucidamente vista in prospettiva all’inizio del primo Piano Quinquennale, alla dittatura del proletariato e alla reale collettivizzazione stava inesorabilmente iniziando a contrapporre un apparato sempre più di burocrati e di nomine dall’alto, con l’inizio del vero accentramento dittatoriale nel “socialismo in un solo Paese” di Stalin.
Fridrikh Ermler, come anticipato, gli sarebbe rimasto sempre fedele, e nell’ambito del Realismo Socialista avrebbe negli anni successivi realizzato anche opere celebrative dell’operato del governo staliniano. Ma nel 1929, cinque anni dopo la morte di Lenin e con Trotsky da poco espulso dal Partito e appena condannato (il 17 gennaio) all’esilio a causa della sua volontà, evidentemente condivisa da Ermler e direttamente marxista nell’unire i proletari di tutti i Paesi, di portare avanti la Rivoluzione Permanente continuando a lottare per espandere lo Stato socialista, probabilmente non era così folle sperare che ci fosse ancora un qualche spiraglio di dialettica non del tutto chiuso. Speranza evidentemente malriposta, visto che più o meno dall’anno successivo sarebbero iniziate le purghe e ogni scintilla anche solo presunta di opposizione sarebbe stata stroncata con la morte, ma non è certo un caso che più volte, nel corso del film, venga posta l’attenzione sulle statue di Lenin (e mai su immagini di Stalin) che sormontano basi con inciso il motto «Lunga vita nel mondo alla rivoluzione socialista». Come a ricordare, nell’ambito di quanto consentito dalle forbici censorie, la necessità di portare «nel mondo» la gloria comunista, abbracciando di fatto quell’internazionalismo per il quale Trotsky di lì a undici anni sarebbe stato raggiunto dal sicario mandato da Stalin fino a Città del Messico. Perché sarebbe in effetti semplice, ma superficiale e profondamente sbagliato, fraintendere Fragment of an Empire leggendolo come una mera critica alla rivoluzione bolscevica, quando è un qualcosa di molto più complesso e dolorosamente ambiguo, ed esattamente al contrario profondamente intriso di una straordinaria lungimiranza nel precorrere i tempi e di uno spirito ben più rivoluzionario rispetto a quello di ciò che stava diventando l’URSS staliniano. Certo, ci sono critiche ben precise e c’è un’ironia agrodolce che a tratti, anche e soprattutto per gli accenti musicali, si fa sfacciatamente comico-parodistica, ma non c’è nulla di controrivoluzionario e reazionario in questo, nemmeno nell’inaspettata e pietosa umanità degli ex-padroni ormai soli e malinconici in casa dopo aver perso tutto, e nemmeno nella prima apparizione di falce e martello su una moneta simbolo di quel capitalismo di Stato verso il quale il risultato della Rivoluzione stava inesorabilmente piombando.
Anzi, il mostrare la realtà per quello che era attraverso gli occhi e le emozioni di un protagonista che si “risveglia” dopo dieci anni di incoscienza in un’Unione Sovietica di cui ignora l’esistenza e non riesce a capire il funzionamento, senza tacerne le contraddizioni o indorare pillole ma anzi attaccando i burocrati nuovi oppressori in casa e in fabbrica (e non certo per caso proprio i colpevoli dell’aver sacrilegamente versato la minestra su una copia di “Rivoluzione e Cultura”) e le nuove piramidi sociali (emblematica l’inquadratura che presenta in fondo la mensa degli operai, sopraelevato al centro il tavolo da ping pong intorno al quale si riunisce il consiglio di fabbrica e ancora più in alto la scacchiera su cui chi nonostante tutto sta ancora sopra e gioca durante il lavoro delle maestranze) era per Ermler il necessario rimettere tutto in discussione per capire da zero la necessità e abbracciare ancora una volta i principi marxisti, per rendersi conto della gioia e della giustizia di quella collettivizzazione (già/ormai) minata dagli individualismi di una società (ancora/di nuovo) irriconoscibile.
Girato in parte a Leningrado e in parte a Kharkov, in Ucraina, a creare un ibrido costruttivista di città moderna spaventosa e agghiacciante per chi, dopo un decennio di sospensione da inconsapevole “scemo di guerra” nella sua sindrome post-traumatica, aveva lasciato i suoi ricordi e il suo mondo ai tempi della Russia zarista della Prima Guerra Mondiale, Fragment of an Empire passa in rassegna la modernizzazione di quegli anni, le strade, l’industrializzazione, le fabbriche e i macchinari dei quali il protagonista Filimonov non capisce nulla. Le inquadrature espressioniste slanciano i palazzoni dal basso verso l’obliquo, mentre le didascalie diventano parte integrante della narrazione, del linguaggio (o meglio, dei linguaggi) e delle geometrie della messa in scena, meravigliosamente dinamiche e al contempo narrative ed emozionali nei loro cambi di dimensione e posizione. Riportano, fra il dramma e la caricatura, le grida atterrite di un protagonista che confuso e sperduto si ritrova all’improvviso in un altro mondo, radicalmente cambiato nelle basi e in ogni concetto dalla Rivoluzione. Continua a cercare un padrone, ma non lo riesce a trovare. Continua a chiedersi dove sia “la sua” San Pietroburgo, ma ormai non esiste più, al suo posto c’è la Leningrado di fine anni Venti.
E non basteranno l’assunzione dal comitato di fabbrica e una doccia per lavare via i dubbi, le paure, le incomprensioni. Le oppressioni nei confronti di quell’uomo che, con la sua barba insaponata, ancora una volta ritorna a un parallelo con la censuratissima maschera antigas del Cristo in croce, esplicita citazione da un disegno di George Grosz esponente di punta dell’Espressionismo tedesco e della Nuova Oggettività. Gli servirà ascoltare, leggere, vedere, capire, analizzare la realtà. Gli servirà l’ennesima visione angosciosa e pudovkiniana che, quasi subliminale nel suo montaggio senza respiro, passa dalla macchina che fila la lana alla sega che taglia i tronchi, dalla cagna che ha nutrito i vivi alla barca che porta via i morti, dalla miniera con la sua fatica fisica al ritorno alla produzione in serie nella catena di montaggio, fatta di uomini spersonalizzati di fronte a una macchina che gira. Atterrente, così come è atterrente ogni forma più o meno palese o dissimulata di capitalismo. Fino a ritrovarsi, fra le visite della commissione sicurezza e le prese in giro di chi non è abbastanza, o forse non è mai stato davvero, compagno e ora si sente nuovo padrone, a rendersi conto di come i cambiamenti fossero straordinari eppure ancora, o forse sarebbe meglio dire nuovamente, insufficienti. Un po’ come la moglie Natasha che lo aveva creduto morto, trovata risposata con un grigio, noioso e crudelmente severo operatore culturale che la maltratta sfogando in casa la sua frustrazione per un lavoro e un’esistenza da piccolo ingranaggio di una macchina statale non ancora/più scevra di ipocrisia e angoscia, deriso persino dagli operai ai quali tiene comizi d’aggiornamento durante il pasto in mensa. Una moglie che, al momento dell’incontro, tirerà indecisa la maniglia della porta ma non avrà la forza di seguire il barbuto protagonista, di ricongiungersi a Filimonov finalmente consapevole degli ultimi dieci anni e forse unico vero rivoluzionario rimasto. Rimarrà lì, fra i «patetici frammenti di un impero» con il nuovo e altrettanto patetico marito mentre al di fuori, nel mondo, la vera lotta è appena iniziata. E lo sa benissimo Filimonov, che non è riuscito a riprendersi la moglie ma ha avuto modo di prendere, preziosa e lucida, una coscienza cristallina: «C’è ancora tanta strada da fare!».
La scheda di Fragment of an Empire sul sito de Le giornate del Cinema Muto.
- Genere: drammatico
- Titolo originale: Oblomok imperii
- Paese/Anno: URSS | 1929
- Regia: Fridrikh Ermler
- Sceneggiatura: Fridrikh Ermler, Katerina Vinogradskaya
- Fotografia: Yevgenii Shneider
- Interpreti: Boris Feodosiev, Emil Gal, Fiodor Nikitin, Lidia Ulman, Liudmila Semionova, Segei Ponachevnyi, Sergei Gerasimov, Ursula Krug, Valerii Solovtsov, Viacheslav Viskovskii, Viktor Portnov, Vladimir Stukachenko, Yakov Gudkin
- Colonna sonora: Vladimir Deshevov
- Produzione: Sovkino
- Durata: 109'