The Bull

The Bull

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Presentato nella sezione Best of Fest del 3° Pingyao International Film Festival, The Bull è il racconto della decadenza della società russa della fine degli anni Novanta, nel fallimento delle riforme di Eltsin, attraverso la degenerazione della formazione di gang giovanili dedite alla microcriminalità. Il regista Boris Akopov, al suo esordio nel lungometraggio, racconta con sguardo antropologico, senza prendere posizione.

Buon anno

Fine anni Novanta nei sobborghi di Mosca, in una Russia sempre più in un clima di instabilità economica, in preda alla criminalità, nella fase finale del dominio di Eltsin. Anton Bykov è il giovane leader di una gang, soprannominato “il toro”, è costretto a mantenere la sua famiglia con ogni possibile mezzo. Viene portato alla stazione di polizia dopo una rissa. Un boss della malavita lo aiuta a fuggire in cambio di un piccolo quanto pericoloso favore. [sinossi]

L’anziana madre spaventata che vede il figlio adolescente che torna a casa, inequivocabilmente vestito da picciotto mafioso rappresenta una delle tante scene madri di Quei bravi ragazzi. L’antropologia criminale, la genesi dell’aggregazione in gang, la lotta per il potere della vita di strada e il controllo della malavita in un contesto sociale ben definito, sono anche gli impulsi di The Bull (titolo originale Byk), esordio al lungometraggio di Boris Akopov, presentato tra i Best of Fest del 3° Pingyao International Film Festival, dopo l’anteprima, e il Grand Prix nella East of the West Competition, a Karlovy Vary. Lo svolgimento del filmmaker russo è tuttavia molto lontano da quello scorsesiano, così come dal cinema di genere gangsteristico, con un approccio sociale, senza mai uno sguardo giudicatorio sulla vita di un ragazzo che compie delle scelte ‘normali’, o non percepite come immorali, per necessità, per sbarcare il lunario e aiutare la famiglia, nel contesto in cui vive. Un ragazzo che è costretto ad assumersi il mantenimento dei familiari, accusato per questo dal fratello di atteggiarsi a padre.

Siamo di fronte a una storia reale di Mosca, come recita una scritta all’inizio del film. Momenti come la sorella minore che salta alla corda, un gioco infantile che tutti abbiamo fatto, o la domanda di matrimonio alla fidanzata, ci riportano a un contesto ordinario. Anche gli sgherri della malavita presentano connotazioni di realismo, vedi quello che porta l’apparecchio dentale. E la presa di distanza dal cinema dei generi di film di gangster e di rapina, avviene con il linguaggio, vedi il campo lunghissimo dall’alto in cui si vede la scena del furto d’automobile. Boris Akopov è anche capace di usare la musica classica, compreso un frammento del Va, pensiero, in un tentativo di citare, ma eludendoli, classici come Arancia meccanica. E la battuta di uno dei ragazzi: «Siamo come nel cinema» segna ancora un’ulteriore presa di distanza rispetto alle convenzioni, per un qualcosa che è percepito come altro, pur come un modello imitativo. La cultura della malavita si identifica con la scena underground, con le acconciature punk tinte di vari colori da un lato, e con la cultura fisica machista delle palestre. La Russia dei sobborghi raccontata dal film può contenere tanto le centrali nucleari sullo sfondo, quanto fatiscenti palazzi neoclassici. Boris Akopov mostra un’eccellente prova di regia, confezionando scene madri come il montaggio alternato di Anton ‘Byk’ che fa il pugile con la ragazza che brucia il suo passaporto, decidendo così di non scappare all’estero, oppure quella della devastazione del mercato all’aperto.

L’atto accusatorio del film è piuttosto verso quella nuova classe dirigente della Russia comandata da Boris Eltsin, che ha preso il potere portando la fine dell’Unione Sovietica, promettendo democrazia e benessere nel libero mercato, ma dando vita a un capitalismo selvaggio che ha generato sacche di povertà. Boris Akopov racconta di questa precisa situazione della Russia di fine anni Novanta, inserendo due momenti precisi da telegiornali visti dai personaggi del film. Nel primo di questi, Eltsin incontra il leader ceceno per un accordo e questi rifiuta di stringergli mano; il secondo è invece il discorso finale di dimissioni del primo presidente della Federazione Russa, ormai appesantito dall’alcol, nemmeno un pallido ricordo di colui che si ergeva sul carro armato ad arringare contro i golpisti. Alla fine del suo sermone di epitaffio, l’ormai ex-presidente augura il buon anno al popolo russo, il che echeggia in modo estremamente beffardo. Nella stessa banda di Anton, il boss viene eletto democraticamente, almeno nelle intenzioni, tutti sono uguali, scimmiottando forse quella sovranità popolare decantata nella Russia post-sovietica, che è in realtà coincisa con una giungla dove vige la sopravvivenza del più forte.

Info Il trailer di The Bull.

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