Intervista a Phil Tippett
Industrial Light&Magic, Dreamworks, poi il Tippett Studio in proprio: Phil Tippett ha attraversato, da protagonista assoluto, l’intera storia dell’effettistica cinematografica contemporanea. Due volte premio Oscar (per Il ritorno dello Jedi nel 1984, e per Jurassic Park dieci anni più tardi), Tippett è la più grande autorità vivente per quanto concerne la “stop motion”, altrimenti detta animazione a passo uno, l’allievo più illustre del maestro e pioniere Ray Harryhausen. Abbiamo avuto l’occasione di scambiare due chiacchiere con lui al Trieste Science+Fiction Festival 2019, dove ha ricevuto un meritatissimo riconoscimento alla carriera. Per l’occasione (oltre a rivedere Starship Troppers su grande schermo) è stato anche presentato un documentario a lui dedicato, Phil Tippett – Mad Dreams and Monsters, una produzione francese diretta da Alexandre Poncet e Gilles Penso.
Qual è il futuro dell’animazione stop motion? E, soprattutto, c’è ancora un futuro?
Phil Tippett: Ci sono tre progetti in giro nel mondo in questo momento, uno della Laika, uno di Guillermo Del Toro… C’è una sorta di rinascita, ma ormai la stop motion si usa solo per il cinema d’animazione. C’è Wes Anderson, ma ne fa un uso tutto suo, abbastanza “strano”. L’approccio della Laika è quello più canonico, loro usano come ispirazione il lavoro di Henry Selick per Nightmare Before Christmas, che è un po’ figlio di quello che abbiamo fatto noi con Star Wars, a partire dai movimenti di macchina, dal movimento fatto coi “segni” sul pavimento. Questo approccio rende gli animatori dei veri e propri attori. Le cose cambiano in base alla velocità che si sceglie, 24 o 16 frame al secondo, e così si riescono a organizzare, di conseguenza, i movimenti di macchina. Con la Laika non si riesce a percepire il movimento, a capire post quello che è stato fatto. La stop motion è un procedimento molto lento, ci vuole cura, bisogna iniziare e finire il movimento con la stessa inquadratura. A me piace lavorare da solo, a volte ho degli stagisti, giovani molto talentuosi, che non riescono a seguire il mio approccio. Mi piace anche un po’improvvisare le inquadrature, questo stagista mi chiedeva: “Qual è lo scopo di questa inquadratura?”. E io: “Non c’è scopo, lo scopo è l’inquadratura stessa. Posizioniamo la macchina, posizioniamo il tavolo, e poi tiriamo fuori i pupazzi”. Prima posizioniamo gli edifici, poi i pupazzi, e poi ci mettiamo dietro la macchina e cerchiamo di creare qualcosa. E di divertirci. Ho letto un’intervista a un artista di recente, ora non ricordo più il nome, che diceva che lui non cerca nulla con la sua arte, lui TROVA qualcosa. È la differenza tra un artista e un artigiano: l’artigiano sa già quale sarà il risultato finale, l’artista no.
Qui a Trieste viene proiettato Starship Troopers, per sua esplicita richiesta. Com’è stato, lavorativamente e umanamente, il suo rapporto con Paul Verhoeven?
Phil Tippett: Uno dei produttori di Starship Troopers, Jon Davison, era mio grande amico e grande fan della stop motion, sono stato fortunato. Ha dato a Paul la libertà di lavorare su paesaggi immensi, senza limiti. Paul è un regista della vecchia scuola, ha una formazione classica, è un hitchcockiano, pianifica tutti i dettagli, è molto meticoloso. Fa pochi movimenti di camera, studia molto le inquadrature, ci sono voluti mesi per preparare gli storyboard. Ai tempi i mezzi non erano quelli attuali, il rendering delle immagini era lunghissimo, bisognava lavorare moltissimo nella fase preparatoria. Se Ejzenstejn o Hitchcock potevano fare grandi film con le inquadrature fisse, forse avremmo potuto farlo anche noi.
Per la scena dell’assalto al fortino, ti faccio un esempio, la mia idea è stata da subito quella di usare il paesaggio per coreografare la scena. Guardando le foto di paesaggi desolati, avevo visto che si vedevano benissimo i segni dei corsi d’acqua ormai asciutti, dove l’acqua aveva scavato, gli insetti seguivano queste “tracce” dei corsi d’acqua prosciugati. Cerco sempre di ottenere il risultato nella maniera più semplice possibile.
La scena degli scacchi sul Millennium Falcon, dal primo Star Wars, è stata ripresa anche nella nuova trilogia. È stato coinvolto?
Phil Tippett: Sì, hanno richiamato me. Siamo partiti dalla scacchiera, e poi abbiamo posizionato sopra i personaggi. Abbiamo ripreso i pupazzi negli archivi, li abbiamo renderizzati di nuovo (erano fatti di materiale scadente) e poi ricostruiti con materiale migliore. Li ho portati ai ragazzi dello studio e gli ho detto: “Ora tocca a voi entrare a far parte di Star Wars, divertitevi, ci vediamo più tardi”: erano raggianti. Ai tempi, io avevo avuto voce in capitolo anche sull’aspetto delle creature della scacchiera, non solo sui loro movimenti. Quando è tutta computer grafica, tipo con Twilight, io mi limito ai movimenti (il lupo insegue il tal tizio nel bosco, fa due salti, qui e qui) e poi lascio fare ai ragazzi. Quando hanno finito, io torno, guardo il lavoro, e, se c’è da cambiare qualcosa, dico la mia.
L’ossessiva ricerca del realismo, anche nel fantasy, non sta un po’, secondo lei, comprimendo l’immaginario degli effettisti speciali?
Phil Tippett: Per gli attori è sempre meglio, naturalmente, interagire con paesaggi reali che con un green screen, ma si tratta sempre di fare il meglio possibile con quello che hai. Simulando si crea quello che si vuole, il problema, semmai, è nell’immaginazione del regista, se quella è scarsa, e sono scarsi anche i collaboratori, non c’è nulla da fare. Le aziende di effetti speciali oggi sono multinazionali quotate in borsa, e più è impressionante quello che si vede sullo schermo, più salgono le azioni, il pubblico è diventato secondario. Se un’azienda fa una cosa di successo, tutte le altre gli vanno appresso, ancora, ancora e ancora. Proporre progetti più caratterizzati e al di fuori di questo sistema è molto difficile, non vengono finanziati. Qualcuno, a volte, ci riesce: prendiamo la scena, ne Gli ultimi Jedi, dell’esplosione a velocità luce dell’incrociatore stellare. Normalmente sarebbe stata realizzata con effetti impressionanti, con un audio roboante; farla così invece, senza sonoro, in maniera così impressionista, è davvero raro. Starship Troopers è l’ultimo film a cui mi è capitato di lavorare in cui al mio reparto sono stati dati tanti milioni di dollari per un progetto puramente “artistico”.
Ha lavorato con i migliori (Spielberg, Lucas, Verhoeven), c’è qualcuno con cui invece avrebbe voluto lavorare?
Phil Tippett: John Ford, Murnau… Ormai sono vecchio, non ho più desideri lavorativi. Mi piace Robert Eggers tra i nuovi, ma non so se riuscirei ad armonizzare il mio metodo di lavoro con quello di un regista così giovane. Ora sono concentrato sul mio progetto “Mad God”, e sto sviluppando un software per i cinesi, realtà virtuale a scopo turistico. I cinesi non hanno soldi per visitare il loro grande Paese, e grazie alla realtà virtuale si riuscirà a farli viaggiare e a rivisitare la loro storia. Tutto dev’essere molto realistico nella ricostruzione, ma non riuscivamo a capire una cosa fondamentale: cosa rende cinese un’immagine? Un production designer cinese, a cui ci siamo rivolti, ci ha dato la soluzione: “Mettete stelle filanti dappertutto e avrete un’immagine cinese”. Mi sono chiesto perché si rivolgessero a me a non a qualcuno più specificamente del settore VR, e la risposta era che nel contratto c’era l’obbligo di assumere un vincitore di premio Oscar…