The Barefoot Emperor

The Barefoot Emperor

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The Barefoot Emperor è il sequel di Un re allo sbando, sempre diretto a quattro mani da Jessica Woodworth e Peter Brosens. Una farsa priva di mordente, del tutto incapace di raccontare il dramma dell’Europa contemporanea, ambiziosissima – ma senza costrutto – nel lavorare le immagini con vigore astrattista. Al Torino Film Festival nella sezione After Hours.

Le vacanze nelle isole Brioni

Nicola III, re del Belgio, cade vittima di uno sfortunato incidente a Sarajevo nel quale resta ferito a un orecchio da uno sparo. Al suo risveglio, si ritrova ospite in un sanatorio su un’isola croata, nota un tempo come la residenza estiva di Tito. Il suo entourage tenta invano di impedirgli di scoprire che la recente implosione del regno ha innescato il crollo dell’Unione Europea. Da Vienna giunge inoltre una delegazione guidata da Ilse von Stroheim, ideatrice della nazionalista Nova Europa: lei comunica a Nicola che sarà nominato primo Imperatore d’Europa. [sinossi]

The Barefoot Emperor inizia là dove finiva, sostanzialmente, Un re allo sbando: nella realtà sono passati tre anni, ma per la finzione scenica lo spazio temporale è di solo poche ore. E lo è anche per l’affastellamento visivo ordito da Peter Brosens e Jessica Woodworth, giunti oramai al quinto film diretto a quattro mani nell’arco di tredici anni (il primo fu Khadak, nel 2006, forse tutt’ora il loro lavoro più compiuto). L’unico scarto sensibile, almeno in parte, rispetto al film del 2016, sta nel fatto che il personaggio del documentarista non è più presente, e che quindi lo sguardo registico si fa necessariamente oggettivo, “superiore”. Peccato che anche questo dettaglio, che sulla carta avrebbe potuto aprire una lunga serie di riflessioni all’interno di un’opera che pretende di parlare del “potere”, si perda una volta entrato in contatto con l’estetica dei due registi – statunitense lei, belga lui. L’ambizione del film dopotutto è notevole, e palesata fin dalla primissima sequenza: l’ex re del Belgio che cerca disperatamente di rientrare nel suo paese dilaniato (Vallonia e Fiandre si sono divise) attorniato da tre dei suoi collaboratori più fidati, assiste a Sarajevo a una rappresentazione dell’omicidio di Francesco Ferdinando e Sofia di Hohenberg da parte di Gavrilo Princip. Per una serie di sfortunate circostanze lo stesso Nicola III si ritrova ferito a un orecchio, per di più per colpa del fuoco amico. Viene quindi trasportato d’urgenza sulle Isole Brioni, in un sanatorio vecchio stile diretto da un medico euroscettico che ha chiamato Duce il proprio merlo.
Già da questi brevi accenni si può comprendere sia il tenore di The Barefoot Emperor che l’anelito politico che anima Woodworth e Brosens. La farsa che si fa tragedia, o anche il contrario, per raccontare l’Europa a pochi centimetri dal baratro, quella divisa tra l’immobilismo della commissione e le spinte separatiste che arrivano dal cosiddetto Gruppo di Visegrád. Non uno scherzo, per quanto i registi facciano di tutto per dimostrare il contrario.

È lecito, si sa, prendere di petto la Storia per giocarvi, asservendola a un volere comico o quantomeno dissacrante: inutile anche solo far il nome di Charlie Chaplin e del suo Adenoide Hinkel, dirompente demitizzazione in fieri di Adolf Hitler. Eppure non si può fare a meno di ricordare come la Storia meriti rispetto, e non la si possa maneggiare senza la dovuta cura, anche quando si ha tutta l’intenzione di rivolgerla mostrandone le pubenda al pubblico. Pur guardando con insistenza alle posizioni più nobili della cronistoria cinematografica, Woodworth e Brosens sembrano avvicinarsi al massimo al retrivo Morto Stalin, se ne fa un altro di Armando Iannucci, visto anch’egli, come The Barefoot Emperor, sotto la Mole Antonelliana (ma nel 2017): un cinema che schernisce il potere ma solo a parole, come gli annunci deliranti che ascoltano dal megafono gli ospiti del sanatorio – per rispettare la privacy di chi è condotto sull’isola i pazienti vengono chiamati con il nome delle camere in cui soggiornano, occupate in passato da ospiti del maresciallo Tito, che l’aveva eletta a sua sede preferita per le vacanze: ad esempio il “nostro” Nicola III dorme nella stanza di Leonid Brežnev.
Amanti dell’astrattismo i due registi giocano con inquadrature costruite ad arte, e allo stesso tempo prive di qualsivoglia valore ulteriore rispetto al puro e semplice ghiribizzo scenografico. Giocano con il paradosso e con il surreale, ipotizzando corse in discesa a bordo di una sedia a rotelle, o macchine ingolfate dall’acqua nel serbatoio, o ancora storie di razze mescolate come il lama che si crede una zebra. Ma soprattutto, oltre ogni cosa, giocano. Vorrebbero elevare il loro The Barefoot Emperor a chissà quale speculazione sul destino dell’Europa, ma non sanno andare più in là di un bozzetto in cui gli austriaci (cattivi) vogliono ricreare un impero. Niente più di questo. Eppure, nella tensione di voler essere urgenti – aggettivo da guardare sempre con la dovuta circospezione quando si ha a che fare con l’arte – bombardano gli spettatori di citazioni, di corsi e ricorsi storici, di aneddoti. Ricorrendo, come già in Un re allo sbando, a una colonna sonora di composizioni classiche che assume i contorni di un UFO caduto casualmente dallo spazio.

Nel ghirigoro di un grottesco mai davvero cattivo o urticante, nella perenne e ludica costruzione d’immagini svuotate di un reale significato e atte solo a dimostrare la capacità pittorica dei due cineasti, si perdono anche le interpretazioni – tutte survoltante, esasperate, ai limiti della sostenibilità – di un cast così composito da meritare una sceneggiatura migliore. Invece qui, tra indiani che trafficano parmigiano su un sottomarino, esercizi plastici collettivi, un inno beota per una Nova Europa e via discorrendo non si può far altro che cercare di trovare condotti d’aria in grado di condurre fuori da questa corsa frenata – e al contempo statica – che si prende gioco della Storia senza aver neanche tentato di comprenderla, ma leggendone solo ed esclusivamente le scaturigini più evidenti e mediaticamente rilevanti. Un’operazione non solo debole (un film comico che non riesce a gestire le dinamiche del comico qualche evidente problema ce l’ha) ma anche furba e costruita a tavolino, priva di sincerità e di acume intellettuale. Eppure l’impressione è che quelle inquadrature così ricercate il loro obiettivo lo otterranno, distogliendo lo sguardo di parte degli spettatori dalle problematicità dell’insieme. Potere illusorio ma persistente della superficie. Lo stesso rimprovero che il film fa alla fascistoide Nova Europa, in fin dei conti.

Info
The Barefoot Emperor sul sito del Torino Film Festival.

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