El Hoyo

Premiato a Toronto, trionfatore a Sitges, presentato in concorso al Torino Film Festival 2019, El Hoyo è il promettente esordio al lungometraggio del basco Galder Gaztelu-Urrutia. Un buon esempio di fantascienza distopica, una geometrica e verticale metafora della nostra società. Ottimo cast e una gestione esemplare del claustrofobico spazio scenico.

Obvio

Un giorno Goreng si sveglia, con il futuro collega Trimagasi, al trentatreesimo piano di una prigione, attraversata da una piattaforma discendente che trasporta i resti dei pasti dei detenuti dei piani superiori. Trimagasi conosce le regole di questo luogo misterioso: due persone per piano e un numero sconosciuto di reclusi. Se sali di piano sopravvivi, ma se pensi troppo scenderai di nuovo. Se sei in fondo, dove il cibo arriva a malapena, non ti puoi fidare di nessun altro che del tuo istinto… [sinossi – TFF2019]

Il limite di pellicole come Cube – Il cubo (1997) e Snowpiercer (2013), ispirate o meno, è il rovescio della medaglia della loro sagace e geometrica struttura, base d’appoggio narrativa che sembra impedire qualsiasi via d’uscita. Insomma, a restare intrappolati tra stanze cubiche e letali vagoni non sono solo i malcapitati personaggi, ma gli stessi film, inevitabilmente privati di un finale all’altezza, di una chiusura capace di reggere le poderose e ponderose metafore distopiche, coi loro risvolti politici, sociologici, religiosi e via discorrendo. Un fardello che non risparmia nemmeno il più che interessante El Hoyo del regista basco Galder Gaztelu-Urrutia, al suo primo lungometraggio dopo i corti La casa del lago (2011) e 913 (2004).

Tra le visioni più stimolanti del concorso del Torino Film Festival 2019, già premiato a Toronto e Sitges, El Hoyo propone una possibile declinazione del connubio geometria & distopia, scegliendo una lineare ed efficace verticalità e ponendosi quasi come anello di congiunzione tra i suddetti Cube e Snowpiercer – la verticalità, ça va sans dire, ci porta direttamente alla struttura di Parasite e alla sua capacità di trovare una (più di una…) via d’uscita narrativa.
Le intuzioni di El Hoyo sono una variante di altre pellicole, obvio, ma non solo. Gaztelu-Urrutia e gli sceneggiatori David Desola e Pedro Rivero non si accontentano delle due direttrici naturali (salita e discesa), che comunque garantiscono buone dosi di suspense, ma dilatano con incubi e visioni il ridotto spazio scenico, caricando sulle spalle del bravo Ivan Massagué (Goreng) il peso di una performance fisica e psicologica. Nel passare da una cella all’altra, ovvero da un piano all’altro, i temi si accumulano, come gli interrogativi morali, i riflessi oscuri della lotta di classe, del fratricida scontro tra poveri. Quali sono i limiti dell’uomo nella lotta per la sopravvivenza? Come può essere efficace la lotta di classe? Come le azioni dei singoli possono incidere sulla massa e sul sistema?

Goreng diventa via via un personaggio sempre più complesso e tormentato, un idealista trascinato in un girone infernale. Un idealista privato di sicurezza, cibo, dignità. Gaztelu-Urrutia distilla con estrema puntualità azione, incubi, sangue, violenza, politica, facendo entrare o uscire con perfetto tempismo i pochi personaggi, tenendo alta la tensione e la nostra curiosità verso quello che ci attende nei piani alti e nei piani bassi – quanto bassi? All’interno del meccanismo geometrico e narrativo di El Hoyo si infila un po’ di tutto: dall’horror, con alcuni apprezzabili dettagli grandguignoleschi, alla deriva mistico-numerica, con un 333 che un po’ stona e che non aiuta il quadro generale – un po’ come tutta la questione del messaggio, che depotenzia la portata politica della pellicola, fin lì più rabbiosa, malata e a suo modo compatta.
In fin dei conti, torniamo al punto di partenza, al finale impossibile (o, per farla meno tragica, al finale in tono minore). Distopie come El Hoyo, Cube, Snowpiercer, ma anche produzioni mainstream ricche ma superficiali come Maze Runner – Il labirinto e i suoi sequel, guardano insistentemente da una sola parte, cercando sentieri che ci riportino in qualche modo a casa. Più che guardare verso il Kansas, alla ricerca di qualche fatata scarpetta rossa, a tutte queste distopie più o meno monche potrebbe servire un’altra prospettiva: ad esempio, facendo due passi dai Paesi Baschi di Gaztelu-Urrutia alla Cantabria di Nacho Vigalondo, ripeschiamo il misconosciuto e brillante Timecrimes (2007) che scardina narrativamente la sua prigione temporale grazie al principio di autoconsistenza di Novikov. La via d’uscita, a volte, (non) è un paradosso.

Info
El Hoyo sul sito del Torino Film Festival.
Il trailer di El Hoyo.

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