Il primo Natale

Il primo Natale

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Al loro esordio nel filone natalizio, Ficarra e Picone tentano ne Il primo Natale di mescolare commedia per famiglie e peplum biblico, recuperando il vecchio motivo del viaggio nel tempo: ma il risultato, pur a suo modo onesto, è esile e inconsistente.

Pregare o fregare?

Salvo, ladro di opere sacre e ateo convinto, riesce a impadronirsi di un’antica statuetta di Gesù nella chiesa del prete Valentino, che sta allestendo un presepe vivente. Scoperto, il ladro scappa nei boschi circostanti, inseguito dal prete; ma i due, entrati in un canneto, si ritrovano improvvisamente catapultati nell’anno 0, poco prima della nascita di Cristo… [sinossi]

Era in fondo immaginabile che una comicità come quella di Salvatore Ficarra e Valentino Picone, da sempre rivolta a un pubblico di famiglie a dispetto delle sue sporadiche aperture “sociali”, approdasse prima o poi al film natalizio. Questo Il primo Natale, in fondo, è lo sbocco abbastanza coerente di un percorso artistico riconoscibilissimo, che dal teatro e dal piccolo schermo è approdato al cinema senza subire grossi scossoni. E di scossoni ce ne sono molto pochi, invero, anche in questo nuovo lavoro, che vede la sicilianità (mitigata) del duo approdare nella Palestina del (presunto) Anno 0. Lo spunto è quello del viaggio casuale nel tempo, che nella sua versione comica, atta a esaltare i paradossi dello spaesamento spazio-temporale, ha una tradizione lunga e nobile: una tradizione che data almeno dal romanzo Uno yankee alla corte di Re Artù di Mark Twain per arrivare all’indimenticato cult movie Non ci resta che piangere, consegnatoci in tempi ben più recenti da Benigni e Troisi.

E la formula, ne Il primo Natale, si ripete in modo sostanzialmente fedele, andando a innestarsi sul filone del film natalizio e perdendo quindi (inevitabilmente) qualcosa in termini di potenziale corrosivo e satirico. Quello di Ficarra e Picone è un film che vola consapevolmente basso, evitando (quasi) completamente i sottotesti sociali a cui tanta commedia italiana recente ci ha abituato: coerente con le maschere dei due interpreti e la loro attitudine, lo scopo del film – che li vede tornare anche in cabina di regia – è essenzialmente quello di divertire. E a dire il vero, considerate le velleità spesso gratuite di spaccato sociale che tanta commedia italiana borghese ha espresso negli ultimi anni, crediamo che ciò non sia nemmeno un male. Il “male” di questo nuovo lavoro, semmai, sta nella sostanziale pochezza del suo materiale e nella generale, avvertibile stanchezza con cui il duo replica le sue gag, riportandole tal quali nel contesto del racconto biblico. Un contesto che, nella sua natura violenta e nel suo carattere in realtà ben poco edificante, fatica non poco ad adattarsi al modello di comicità per famiglie, dichiaratamente innocua, che il film vuole proporre.

Le contaminazioni tra cinema di genere (intendendo l’espressione nel suo senso più ampio) e commedia da grande pubblico non sono certo una novità nel nostro cinema, passato e presente: basti pensare al recente esperimento compiuto da Christian De Sica col suo Sono solo fantasmi. Qui, Ficarra e Picone prendono il peplum biblico e cercano blandamente di recuperarne le atmosfere, facendo collidere la società d’epoca (già di suo idealizzata) coi “tipi” incarnati dal duo, rispettivamente un ladro ateo e materialista, e un prete convinto del potere salvifico della preghiera. Via libera, quindi, alle sbruffonerie picaresche del personaggio di Ficarra, che mescola senza soluzioni di continuità i racconti dei Mille e di “Sce” Guevara davanti ai perplessi zeloti, via libera alle gag che incastrano alla bell’e meglio sacro e profano, via libera alle improbabili quanto prevedibilissime crisi mistiche del ladro, e all’altrettanto telefonata conversione del prete all’azione. Via libera a un’avventura che, al di là del dichiarato carattere esile, si sforza poco di contestualizzare o dare un minimo di “credibilità” a gag già viste, che, trasportate forzosamente nel nuovo setting, non sfruttano granché nemmeno le peculiarità dei personaggi (quello di Re Erode, col volto di Massimo Popolizio, resta sostanzialmente sprecato).

Scagliarsi a priori contro un’operazione come quella de Il primo Natale – che, vogliamo ripeterlo, è sostanzialmente onesta nelle sue premesse – avrebbe poco senso; tuttavia, non si può non rilevare come il film fatichi a trovare il giusto ritmo (comico in primis), come risulti spezzettato e pretestuoso in molti suoi passaggi, come inserisca a forza nella sua tessitura situazioni e personaggi privi di reale funzionalità narrativa: ne sono esempio evidente le due figure femminili, atte solo a richiamare un debole subplot sentimentale nel caso del personaggio di Ficarra, e un accenno “sessuale – con proverbiali richieste di perdono divino – in quello del suo partner. Ci si interroga – in un film che vede il suo limite principale in una sceneggiatura priva di compattezza – quanto abbia davvero messo di suo, nella scrittura, uno sceneggiatore come Nicola Guaglianone, da tempo adagiatosi nei territori della commedia ma in precedenza (anche) responsabile degli script di Indivisibili e Lo chiamavano Jeeg Robot. Domande oziose, unite a quelle sulla presenza in veste di direttore della fotografia di un Daniele Ciprì il cui tocco (pur “depurato” da quello del sodale Franco Maresco, da tempo emigrato in altri lidi) si avverte ben poco.

Nella sua conclusione, Il primo Natale non riesce a evitare di cadere nel tranello cui accennavamo sopra, quello di un qualche tentativo – pur blando – di dare una minima valenza “sociale” al tutto. Un tentativo che, per come è portato avanti e per il suo carattere appiccicaticcio, denuncia da subito tutta la sua pretestuosità; anche perché la consistenza resta quella di un sermone da vigilia di Natale (appunto), mentre si va invece a impattare un tema che meriterebbe altro e ben diverso approfondimento. Probabilmente, i buoni sentimenti evocati dalla (presunta) ricorrenza della Natività necessitavano di un qualche segnale in tal senso, di un “messaggio” che il pubblico di famiglie a cui il film è rivolto potesse facilmente decodificare. Lungi dal rappresentare il problema principale del film, questo elemento mette semplicemente un suggello negativo su un’opera che ha nella pochezza della sua scrittura, e nella stanchezza di due interpreti che non sembrano neanche crederci fino in fondo, i suoi limiti più evidenti.

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Il trailer de Il primo Natale

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