King-Size Canary
di Tex Avery
Nel 2020 ricorreranno i quarant’anni dalla morte di Tex Avery, e già nel 1980 la carriera cinematografica del genio dei cartoon era un lontano ricordo. Tra i suoi innumerevoli capolavori è sempre piacevole tornare a confrontarsi soprattutto con King-Size Canary, strepitoso disaster-movie con animali antropomorfi che rappresenta forse la summa del cinema inteso come anarchico istinto alla costruzione/distruzione.
Il gatto, il topo, il canarino
Grazie al mangime Jumbo Gro, un gatto e un canarino vedono progressivamente aumentare a dismisura le loro dimensioni e iniziano un frenetico inseguimento. Le cose si complicano quando all’inseguimento partecipano anche il cane Atom e un topo, anch’essi sotto l’effetto del mangime. [sinossi]
Tra tutte le scosse telluriche dell’eversione comica nelle dinamiche della storia del cinema quella prodotta da Tex Avery – al secolo Frederick Bean Avery – continua a essere relegata in un ruolo secondario. I motivi per i quali opere sublimi come King-Size Canary, The Cat That Hated People, Red Hot Riding Hood e A Wild Hare non sono prese in considerazione tanto nei volumi dedicati alla storia del cinema quanto negli svariati dizionari dati alle stampe nel corso degli anni sono fin troppo facili da rintracciare, e riguardano “dettagli” relativi ai concetti di tempo e di genere. Si parta dal secondo: Tex Avery è in tutto e per tutto un autore comico, quasi eretico nella sua completa devastazione di ogni norma, ma mentre gli unici punti di riferimento che si possono prendere per azzardare paragoni – vale a dire Buster Keaton, Charlie Chaplin, i fratelli Marx, Stanlio e Ollio – sono attori in carne e ossa, Avery cela la propria insubordinazione alle regole muovendosi nel campo dell’animazione. Un campo che, e non è certo una novità, è ben poco frequentato dalla stragrande maggioranza dei critici – non solo italiani. A questo aspetto, di per sé già rilevante, va aggiunto come non esista neanche un solo film firmato da Avery che superi la dimensione del cortometraggio. E questa rappresenta con ogni probabilità la pietra tombale nei rapporti tra chi ragiona (o dovrebbe ragionare) sul cinema e l’arte di Avery. Perché le regole vincono sempre, e la regola non scritta ma seguita con ossequiosa riverenza vuole che un film sia lungo: lo capì per primo, rimanendo nel mondo dei cartoon, Walt Disney quando decise di affiancare alle Silly Symphonies un’opera mastodontica come Biancaneve e i sette nani, di fatto creando un effetto domino che spiazzò il mercato del cartone animato.
Proprio sulla contrapposizione con l’ideale disneyano si forgia il cuore pulsante della poetica di Avery che, conscio dell’impossibilità di competere sullo stesso campo con una potenza come quella della Casa del Topo ragionò sulla possibilità di volgere lo sguardo verso il mondo adulto, o per lo meno adolescenziale. I suoi film, compresi tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, rappresentano un vero e proprio bombardamento satirico, riflessione teorica sullo sguardo che non dimentica le necessità cinematiche, in un accumulo che in King-Size Canary, forse il suo capolavoro maggiore, raggiunge dimensioni gargantuesche.
King-Size Canary è il cinema allo stato puro, prima che il contatto con la logica mentale umana irrompa e di fatto corrompa ogni cosa. È l’atto senza conseguenze se non la reiterazione coatta dell’atto stesso. Un gioco di prestigio, la magia che si mette a sovvertire la prassi nella sua globalità. Come qualsivoglia pulsionalità anarchica che si rispetti è eterno, eppure appartiene al proprio tempo, quel tempo che dilata e restringe a dismisura, esattamente alla stessa stregua delle forme che prendono corpo in scena. La sacra quadrimurti: il topo, il gatto, il canarino, il cane. La base portante dell’antropomorfismo – ecco un’altro topos disneyano ribaltato e restituito nel suo doppio speculare – che cerca, riuscendovi, di rappresentare l’umano senza recedere di fronte alla necessità di mescolare avanguardia e desideri popolari. Ancora di più: bambineschi. Non una regressione dalla maturità, ma la scopica goduria di assistere da una posizione privilegiata al disastro, alla catastrofe scoppiettante. La gioia tutta infantile di potersi sbellicare di fronte al fracasso puro e semplice. Puro, di nuovo il medesimo aggettivo, forse l’unico in grado di cogliere in profondità senso e valore di questa breve, brevissima gemma del cinema d’animazione e dello slapstick tutto. Scheggia impazzita di una produzione, quella dei cartoon di breve durata, che già di per sé è una scheggia impazzita.
La dinamica narrativa del cortometraggio è fin troppo facile da raccontare: c’è un mangime ultravitaminico per piante, dal nome Jumbo Gro, che un gatto e un canarino ingurgitano per cercare di raggiungere dimensioni tali da un lato da scoraggiare ogni tentativo di predazione e dall’altro di ghermire con più semplicità il volatile giallo. A loro due si aggiungono un cane e un topo – entrambi elementi di distrazione e pericolo solo per il gatto, come da tradizione: basti pensare che nel 1940 erano stati creati da Hanna e Barbera Tom e Jerry – che partecipano alla rocambolesca fuga.
La totale libertà donata dall’animazione permette ad Avery di scrollarsi di dosso tutti i limiti spaziali (ancor prima umani) dello slapstick dal vero. La progressione nell’inseguimento plurimo che è alla base di King-Size Canary assume dunque dimensioni inimmaginabili, grandiose e deliranti. I protagonisti diventano via via così enormi da essere più alti di grattacieli, da dominare il Grand Canyon, addirittura da non poter essere più neanche compresi e contenuti nel globo terracqueo. Un’escalation che non ha eguali nella storia dell’immagine in movimento – sia essa animata o meno – e che di fatto rappresenta in modo plastico il trionfo della dissacrazione assoluta, il peana distorto e dissonante non solo dell’immaginifico, ma del moderno. Laddove Disney (ma anche i geniali fratelli Fleischer) leggono l’animazione come la riscoperta dell’antico e del favolistico, Avery ne rivendica l’assoluta contemporaneità, attraverso la distruzione della prassi, la rivoluzione dello spazio e del tempo, la ridefinizione addirittura del corpo e delle sue potenzialità.
Clamoroso sovvertitore di ogni ordine, Avery è così fertile in ogni scelta registica – pur in una dimensione “povera” come quella della produzione sulla breve distanza, come si può desumere dal lavoro sui fondali, per esempio – da trasformare i suoi cortometraggi in un vero e proprio canone, dal quale attingeranno i registi più disparati, tanto nel campo dell’animazione (i Simpson di Matt Groening gli devono molto, a partire dal quasi plagio di alcune situazioni in cui vengono a trovarsi Grattachecca e Fichetto) quanto in quello del cinema dal vero. Si pensi a Joe Dante, e ancor più al sontuoso omaggio donatogli da Robert Zemeckis nel caposaldo del cinema “ibrido”, quel Chi ha incastrato Roger Rabbit che a oltre trent’anni dalla sua realizzazione continua a lasciare a bocca aperta per la stratificata finezza della sua riflessione sull’immaginario. Summa della produzione di Avery e del cinema inteso come anarchico istinto alla costruzione/distruzione, King-Size Canary potrebbe rappresentare l’occasione per riscoprire un artista fondamentale, e fondamentalmente sconosciuto. Nel 2020 ricorrerà il quarantennale della sua scomparsa, nel 1980, quando si era ritirato dalle scene da oltre un ventennio. Si faccia in modo di non far passare invano anche questa opportunità di tornare a guardare da vicino l’epicentro della catastrofe, per riderne fino a non poter trattenere le lacrime.
- Genere: animazione, commedia
- Titolo originale: King-Size Canary
- Paese/Anno: USA | 1947
- Regia: Tex Avery
- Sceneggiatura: Heck Allen
- Colonna sonora: Scott Bradley
- Produzione: MGM Cartoons
- Durata: 8'