A prova di morte

A prova di morte

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A prova di morte è il contributo di Quentin Tarantino a Grindhouse, il double bill firmato a quattro mani con l’amico di una vita Robert Rodriguez. Mentre Planet Terror si muove in territori carpenteriani, unendo l’orrore alla fantascienza di “serie B”, il segmento di Tarantino è una folle corsa sulle strade dell’America rurale, già tracciate dall’action sbrindellato degli anni Settanta. Dai più al momento della sua apparizione sulla Croisette venne visto come un film minore, un simpatico (e per taluni neanche questo) passatempo; in realtà A prova di morte racchiude al proprio interno l’ultima scaturigine della riflessione di Tarantino sul cinema come atto di ri-creazione, in cui il corpo dell’immaginario può essere impollinato contemporaneamente dagli insetti più dissimili e distanti tra loro. Con un sarcastico e inquietante Kurt Russell, omaggio una volta di più a Carpenter.

Stuntman Mike

Jungle Julia è una celebre dj di Austin, capitale del Texas. Con le amiche Shanna e Arlene passa le serate a bere nei locali, disquisendo di ragazzi mentre si fuma un po’ d’erba e si beve un margarita. Julia e le sue amiche però non sanno di essere finite nel mirino di Stuntman Mike, uno stuntman in pensione il cui volto è solcato da una strana e profonda cicatrice e che guida una Chevrolet Nova SS… [sinossi]
Hang up the chick habit
Hang it up, daddy,
Or you’ll be alone in a quick
Hang up the chick habit
Hang it up, daddy,
Or you’ll never get another fix.
April March, Chick Habit

A prova di morte esordì sul grande schermo a Cannes, presentato in concorso durante la sessantesima edizione del Festival. Nulla di particolarmente bizzarro all’interno della carriera di Quentin Tarantino, se ci considera che su dieci lungometraggi diretti – considerando distinte le due parti di cui si compone Kill Bill – ben sei hanno ottenuto un passaggio sulla Croisette. Eppure la proiezione stampa di Death Proof venne accolta senza particolare entusiasmo: anzi, si percepiva – anche nelle recensioni dei giorni successivi – un certo malcontento misto a scetticismo, e al recondito pensiero di essere stati presi sonoramente in giro. Si scrisse che Tarantino aveva diretto un divertissement senza reali velleità autoriali e che il film andasse preso per quello che era, niente più di un costoso gioco. Si sprecarono poi aggettivi quali inutile, sciocco, stupido, vacuo, minore. Soprattutto l’ultimo citato rimbalzò da una pagina all’altra, dal cartaceo alle versioni online. Minore. Agli occhi della maggior parte degli spettatori e dei critici A prova di morte è ancora oggi considerato un’opera minima, priva di un reale e precipuo interesse che esuli dalla catalogazione di un regista e della sua filmografia. Lo si snobba, si finisce per dimenticarlo quando si provvede a stilare la lista dei film del regista statunitense, si finge che non sia mai esistito. Un destino riservato a molti titoli di grandi autori che condividono il medesimo aggettivo: minore. Si pensi a un gioiellino noir come La congiura degli innocenti di Alfred Hitchcock, o a Il bacio dell’assassino di Stanley Kubrick, o ancora a E la nave va di Federico Fellini, Identificazione di una donna di Michelangelo Antonioni e Dodes’ka-den di Akira Kurosawa (solo per fare degli esempi pratici). La questione relativa ad A prova di morte è stata liquidata così in fretta e in modo così perentorio che anche coloro che hanno goduto della visione si sono convinti fin da subito di non dover dare troppo peso al film. Un passatempo leggero e divertente, nulla più. Che errore madornale!

Disperso nella metà degli anni Zero A prova di morte è un’opera-ponte, un punto di interconnessione tra due frangenti monolitici della filmografia di Tarantino: c’è di fatto un primo cinema tarantiniano, che i meno accorti semplificheranno riducendolo a mera esecuzione delle pulsioni “pulp”, e che invece propone una riflessione mai banale sulla cultura statunitense, sui suoi dogmi, sulle sue perversioni e sui temi ricorrenti di una nazione slabbrata, violenta – anche verbalmente –, affascinata dall’idea di possesso prima ancora del possesso stesso. In questa fase brillano come punti luce di un diamante Le iene, Pulp Fiction e Jackie Brown. Dopo A prova di morte irromperà sul proscenio la riflessione sul cinema come atto di rilettura e riscrittura della Storia, intesa non come narrazione ma come punto fermo cronologico, tutto da smentire e svilire ricorrendo alle armi – anche improprie – dell’immaginario: lì si trovano Bastardi senza gloria, Django Unchained, The Hateful Eight e il recente e a sua volta a tratti incompreso C’era una volta… A Hollywood. E nel mezzo? Nel mezzo del cammin del suo cinema Tarantino si ritrova nella selva oscura dell’immaginario, in quella cinefagia imperante e ossessiva che è uno degli aspetti che lo contraddistinguono – e che spesso viene confuso come unico attestato autoriale di un regista altresì profondamente complesso, stratificato, aperto alle interpretazioni plurime e il più possibile diversificate. Lì, sperso tra i grandi amori da spettatore – il noir hongkonghese, il film d’arti marziali, lo spaghetti western, il wuxiapian, il giallo all’italiana –, Tarantino pulisce i suoi versi nell’Arno virtuale e ritrova un proprio linguaggio libero dai legacci industriali del pulp. La sua fuga dall’asservimento al mercato e al prodotto seriale è psicogena, e trova coordinate nel sogno/utopia/incubo del cinema per il cinema, dell’arte come veicolo primigenio del pensiero. La memoria cinefila si sostituisce così alla visione del mondo, almeno parzialmente. È l’Olimpo in cui primeggia l’imperativo omoteleuto Kill Bill, suddiviso in due parti distinte, la prima ossequiante all’altare di King Hu, Chang Cheh, Bruce Lee, Kinji Fukasaku, la seconda che ripassa a mente – e nei suoni, e nelle focali – i tre Sergio del western nostrano: Leone, Corbucci, Sollima.
Il progetto Grindhouse, di cui A prova di morte è uno dei due segmenti – l’altro è Planet Terror diretto dall’amico fraterno Robert Rodriguez – permette a Tarantino di ribadire il concetto, espandendone i contenuti su una tavolozza sempre più ampia, e volutamente zozza. Non solo la riscoperta del cult-movie, dunque, ma la possibilità di lavorare su registri considerati dai più addirittura deteriori, squallidi, privi della benché minima dignità. Citare Zozza Mary, pazzo Gary di John Hough o Punto zero di Richard C. Sarafian scopre assai di più il fianco alle critiche piuttosto che rilavorare materiale pop “estero” come quello asiatico ed europeo. La coperta protettiva della cinefilia rischia di venir meno, come il sedile a fianco del guidatore che rende sì Chevrolet di Stuntman Mike “a prova di morte”, ma allo stesso tempo si tramuta in strumento di tortura per chiunque vi si sieda.

Tarantino, che già si era svincolato dal recinto sicuro – e asfissiante – del pulp, si smarca immediatamente anche dal gioco puramente cinefilo. A prova di morte racchiude al proprio interno l’ultima scaturigine della riflessione di Tarantino sul cinema come atto di ri-creazione, in cui il corpo dell’immaginario può essere impollinato contemporaneamente dagli insetti più dissimili e distanti tra loro. Oltre non sarà possibile andare. Una riflessione che negli anni Ottanta aveva già ricevuto un notevole contributo da John Carpenter, in quel Grosso guaio a Chinatown che prima di divenire un oggetto di culto fu a sua volta snobbato, incompreso e vilipeso. E proprio Carpenter è omaggiato, visto che Stuntman Mike ha il volto del suo attore feticcio, Kurt Russell: un volto solcato da una cicatrice misteriosa e inquietante. Russell interpreta il cattivo, una scelta che dimostra in modo chiaro e inequivocabile la volontà di Tarantino di lavorare non per sovrimpressione, ma per riflesso. A prova di morte non è la riproposizione dello schema dell’exploitation anni Settanta, ma ne rappresenta la sua opposizione, sincera e in ogni caso riconciliata con l’originale.
Tutto è duplice e speculare nel film di Tarantino, a partire dal doppio per eccellenza, visto che il suo è solo uno dei due segmenti di cui si compone in realtà Grindhouse e rappresenta il riflesso dell’ideale fantastico di Rodriguez: in Planet Terror domina l’immaginario, Death Proof si muove in territori realistici, per quanto survoltati essi possano sembrare. Il film è poi un florilegio di occhiali – quasi tutti da sole e rigorosamente a specchio –, e di volontarie ridondanze (Jungle Julia che si sdraia sul divano di casa replicando esattamente la posa di Brigitte Bardot nel poster appeso al muro sopra di lei e che ritrae la diva francese in una sequenza de Gli amanti del chiaro di luna di Roger Vadim). Ma, e qui sta forse l’intuizione più brillante, Tarantino rende il suo film specchio di se stesso, suddividendolo in due metà tra loro speculari: in entrambe ci sono quattro ragazze braccate dal crudele serial killer Stuntman Mike, che gode nell’atto dell’uccisione utilizzando come arma l’automobile. Ma se nel primo caso Julia, Arlene, Shanna e Lanna Frank (su questo nome si tornerà più in là, a mo’ di curiosità) rappresentano l’immagine standardizzata del femminile, e passano la serata di locale in locale parlando di ragazzi e ubriacandosi tra amiche, nel secondo caso Abernathy, Kim, Lee e Zoë rifuggono completamente da questa lettura pedissequa. Così se Julia e le sue amiche non possono essere altro che vittime della furia dello stuntman folle – la sequenza dell’incidente mortale, montata sul crescendo di Hold Tight! (tieni duro!, incitazione destinata a rimanere inevasa) di Dave Dee, Dozy, Beaky, Mick & Tich, è una delle punte di diamante dell’intera filmografia tarantiniana –, per le altre ragazze il ruolo può e deve invertirsi: sarà Mike a crollare sotto i colpi inferti dalle quattro. Non a caso due sono a loro volta stunt, sottolineando ulteriormente la volontà del regista di lavorare sul concetto di doppio (due donne contro un uomo) e di specchio.

Come d’abitudine nel cinema di Tarantino l’arte della ricreazione permette ai dogmi di essere rovesciati, e agli ultimi di vedere soddisfatta una vendetta così forte e imperiosa da superare i dettami sdruciti del senso, della logica, perfino della Storia stessa (concetto rafforzato anche dall’inserimento nei titoli di coda di fotogrammi di sconosciute “china girls”, le modelle che venivano utilizzate per impressionare la pellicola nelle parti da scartare: perfino ai ruoli meno nobili dell’arte cinematografica è concessa la rivincita). Il femminile in Tarantino mette in scacco la lurida brama di potere – sessuale, ma solo in una seconda fase, seminascosta: il sesso non è versante della psicologia che interessi particolarmente il regista, più affascinato semmai dal concetto di feticcio, come dimostra la predilezione per l’immagine dei piedi femminili, ancor meglio se sporchi: un totem che parte da Mia Wallace e arriva, per ora, a Pussycat – del maschile, così come è l’ex schiavo liberato a far piazza pulita dei razzisti e sono gli ebrei a massacrare Hitler e i suoi scherani. In qualche misura A prova di morte è già una rappresentazione della Shoah, della schiavitù, di tutte le forme di sopraffazione dell’uomo sull’uomo. Mike è il carnefice, il mattatore di donne – in questo rivestendo in pieno il ruolo attribuitogli dallo slasher, forse unico vero genere di riferimento del film -, e le altre sono tutte indistintamente vittime. Ma le vittime in Tarantino hanno diritto alla vendetta, e se le armi con le quali si gioca sono paritarie saranno loro a uscire vincitrici. Vittime consapevoli, a giudicare dal fatto che in casa di Jungle Julia troneggia un poster di Soldato blu, tra i primi western decisi a riscrivere la storia del rapporto di forza tra colonizzatori e nativi. Una delle sue amiche si chiama Shanna, contrazione di Shoshanna, la “bastarda senza gloria” del film successivo, e un’altra Lanna Frank, gioco di parole che rimanda alla mente la martire per eccellenza dell’orrore nazista. La macchina che le uccide è una Chevrolet Nova, chiamata anche “SS”. Ecco dunque il ponte, il collegamento tutt’altro che fittizio o involontario tra le diverse fasi attraversate dal cinema di Tarantino, che pure non ha mai smarrito un grammo della propria poetica espressiva. Ci si può divertire di fronte a Death Proof, lasciarsi dominare dal godimento dell’immagine – storpiata, riscritta, malridotta come dovrebbe essere per un “grindhouse” che si rispetti, il famoso “at the late night, double feature, picture show” cantato nel musical di Richard O’Brien The Rocky Horror Picture Show –, ma non si pensi in nessuna occasione di avere a che fare con un’opera insipida, velleitaria, minore. Pena una corsa nell’auto di Mike, sul sedile a fianco del guidatore.

Info
Il trailer di A prova di morte.

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