La Coquille et le Clergyman
di Germaine Dulac
La Coquille et le Clergyman è la rappresentazione più vivida, potente, a suo modo quasi disgustosa, di un’incubo che è anche (soprattutto) ossessione erotica. Scritto da Antonin Artaud, che venne però tenuto a debita distanza dal set dalla regista Germaine Dulac, è un lavoro oscuro e affascinante, che non cede alle lusinghe dell’espressionismo preferendo direttamente il delirio onirico.
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Germaine Dulac è morta quasi ottant’anni fa, quando la discussione sull’apporto del mondo femminile alla regia cinematografica non era certo all’ordine del giorno: eppure è paradossale che anche in un’epoca storica come quella attuale in cui si pone fortemente l’accento sulla parità di genere – battaglia doverosa, ovviamente – il nome della regista francese sia quasi del tutto dimenticato, così come il ruolo svolto nelle rivendicazioni femministe (si pensi al suo contributo nella redazione de La Française). Per di più quando la sua esperienza registica viene citata è solo per rinverdire i fasti – per così dire – della diatriba intercorsa tra Dulac e Antonin Artaud per via de La Coquille et le Clergyman. Nel 1928, sul numero 8 dei Cahiers de Belgique, Artaud scrive: «La conchiglia e il clergyman, prima di essere un film, è uno sforzo o un’idea. Scrivendo la sceneggiatura di La conchiglia e il clergyman ho pensato che il cinema possedesse un elemento proprio, veramente magico, veramente cinematografico, che nessuno finora aveva pensato a isolare. Tale elemento, distinto da qualsiasi specie di rappresentazione legata alle immagini, partecipa della vibrazione stessa e della nascita inconscia, profonda del pensiero. Esso sgorga sotterraneamente dalle immagini e discende non dal loro senso logico e coerente, ma dalla loro miscela, dalla loro vibrazione e dal loro scontro. Ho pensato che si potesse scrivere una sceneggiatura che non tenesse conto della conoscenza e del legame logico dei fatti, ma che, più profondamente, andasse a ricercare nella nascita occulta e nelle erranze del sentimento e del pensiero le ragioni profonde, gli slanci attivi e velati dei nostri atti cosiddetti lucidi, mantenendo le loro evoluzioni nella sfera delle nascite e delle apparizioni. Ciò dimostra fino a che punto, ad esempio, questa sceneggiatura può accostarsi e assomigliare alla meccanica di un sogno senza essere veramente un sogno di per sé; fino a che punto essa restituisce il lavoro puro del pensiero. Così la mente, abbandonata a se stessa e alle immagini, infinitamente sensibilizzata, attenta a non perdere niente delle ispirazioni del pensiero sottile, è pronta a riacquistare le sue funzioni originarie, le sue antenne rivolte verso l’invisibile, a ricominciare una resurrezione della morte. Questo almeno è il pensiero ambizioso che ha ispirato questa sceneggiatura, la quale ad ogni modo trascende i limiti di una semplice narrazione o problemi di musica, di ritmo o di estetica tipici del cinema, per porre il problema dell’espressione in tutti i suoi campi e in tutta la sua estensione».
Questo entusiasmo sarà destinato a risolversi, per Artaud, in una profonda delusione. Nel 1933 il suo rapporto con il cinema può già definirsi completamente demitizzato, al punto che porta a termine un intervento dal titolo emblematico La vecchiaia precoce del cinema. Artaud, che ha profondamente disprezzato il lavoro di Dulac sulla sua sceneggiatura, al punto da insultarla pubblicamente (si riporta che l’avrebbe apostrofata come “vacca”), si è illuso che il cinema potesse rappresentare, attraverso lo scavo del derma della realtà, una nuova spinta per l’umanità, la possibilità concreta di evolversi, di trovare nuove vie di rappresentazione per superare la propria endemica mediocrità. La sua delusione è enorme, totale, mentre la psiche si fa sempre più labile. Scrive ancora il folle e geniale intellettuale francese: «Non si rifà la vita. Onde viventi, inscritte in un numero di vibrazioni fissate per sempre, sono onde ormai morte. Il mondo del cinema è un mondo chiuso, senza relazione con l’esistenza. […] Il cinema è solo una presa di possesso parziale, ”stratificata e congelata”, dell’esistenza; niente di più lontano dall’acuta, sofferta vitalità del teatro della crudeltà, espressione di un ”appetito di vita, di rigore cosmico, di necessità implacabile, nel significato gnostico di turbine di vita che squarcia le tenebre, nel senso di quel dolore senza la cui ineluttabile necessità la vita non potrebbe sussistere».
Ecco dunque che l’intera carriera di Germaine Dulac, che conta almeno una trentina di film diretti nel corso di un ventennio, viene ridotta con forza a uno screzio dovuto a differenti visioni, sia del cinema che – probabilmente – della vita. Dulac ha una sferzante ironia anti-borghese da mettere in scena (lo dimostra l’altro suo capolavoro, La Souriante madame Beudet, diretto nel 1922), ma non possiede la radicalità dello sguardo e della teoria di Artaud, che quindi le rimprovera di aver smussato gli angoli della sua sceneggiatura.
Quale che sia la posizione che si decide di voler prendere, è indubbio che anche a distanza di oltre novant’anni La Coquille et le Clergyman dimostri un potere misterico insondabile. Anche se il surrealismo troverà il suo nume tutelare un anno più tardi in Un chien andalou di Luis Buñuel (a sua volta al lavoro con un uomo che poca relazione diretta ha con il cinema, Salvador Dalí), nel film di Dulac sono presenti già molti degli elementi e delle tecniche sperimentate dal regista spagnolo di stanza a Parigi. Lungo e contorto incubo carico di repressione della sessualità, del desiderio e della propria indole più profonda – non è certo un caso che il protagonista sia un “clergyman”, vale a dire un ecclesiastico – il film scritto da Artaud e trasformato in immagini in movimento da Dulac è uno scavo continuo e inesausto della superficie delle cose, con l’intento di creare una voragine nel senso per poterlo svuotare e riempire a proprio piacimento. Per far questo Dulac ricorre a tutti i trucchi ottici a disposizione, dimostrando un’inventiva straripante e rendendo di fatto La Coquille et le Clergyman un’opera onirica impossibile da catalogare o da ridurre a una categoria specifica dell’avanguardia. Cinema per il cinema, assoluto e per questo incapace di invecchiare – eccezion fatta per la resa pura dell’immagine, la cui caducità però è anche perfettamente intessuta nell’impossibilità di esaudire le proprie brame che è alla base del senso del film – e soprattutto ben più stratificato di quanto possa apparire a una prima vista. Se molti dei surrealisti e degli avanguardisti in generale operavano un gioco sul senso compiuto per svilirlo o ridurne la portata, Dulac e in fase di scrittura Artaud minano al contrario il senso puntando a una strage scientifica della prassi, della logica borghese, della semplificazione della matassa. Molti dei trucchi inscenati lasciano ancora oggi a bocca aperta non solo per la tecnica, ma per la capacità di far dialogare le immagini più impensabili creando un senso, un filo di Arianna che sta allo spettatore riavvolgere. Un istinto alla dialettica che è quasi stordente se messo in relazione a un’opera così volutamente sbilenca, scorbutica, inafferrabile. Un gesto di rinnovamento dell’immaginario troppo estremo perché qualcuno potesse pensare di replicarlo. Estremo come il pensiero di Dulac e Artaud, in lotta perenne tra loro. Lei morirà nel 1942, a neanche sessant’anni; lui, dopo essere stato internato e trattato con criminali dosi di elettroshock, la seguirà nel 1948. Aveva appena cinquant’anni.
Info
La Coquille et le Clergyman su Youtube.
- Genere: sperimentale
- Titolo originale: La Coquille et le Clergyman
- Paese/Anno: Francia | 1928
- Regia: Germaine Dulac
- Sceneggiatura: Antonin Artaud
- Fotografia: Paul Guichard, Paul Parguel
- Interpreti: Alex Allin, Genica Athanasiou, Lucien Bataille
- Produzione: Germaine Dulac
- Durata: 42'