Richard Jewell
di Clint Eastwood
Clint Eastwood firma la sua trentanovesima regia mettendo in scena la vera storia di Richard Jewell, guardia di sicurezza che sventò un attentato dinamitardo durante le Olimpiadi di Atlanta nel 1996 ma divenne per questo il primo sospettato. Una nuova ricognizione sul concetto di “eroe” e sulla difficoltà del singolo a trovare un rispecchiamento nell’istituzione dello Stato. Con un eccellente Paul Walter Hauser nella parte del protagonista.
Sbatti il mostro in prima pagina
Atlanta, Georgia. Richard Jewell è un trentenne sovrappeso che vive ancora con la mamma e si considera un tutore della legge, ma in realtà svolge per lo più lavoretti di sorveglianza. Richard considera sua missione proteggere gli altri ad ogni costo: dunque, durante gli eventi che precedono le Olimpiadi del 1996, è il primo a dare l’allarme quando vede uno zaino sospetto abbandonato sotto una panchina. Questo fa sì che l’attentato dinamitardo del 27 luglio al Centennial Olympic Park abbia esiti po’ meno tragici di quelli previsti dall’attentatore, e Richard diventa l’eroe che aveva sempre sognato di essere: ma la sua celebrità istantanea non tarderà a rivoltarglisi contro e a farlo precipitare dal sogno all’incubo. [sinossi]
Dale a tu cuerpo alegría Macarena
Que tu cuerpo es pa’ darle alegría cosa buena
Dale a tu cuerpo alegría, Macarena
Hey Macarena
Los del Río, Macarena
Gli Stati Uniti contro Richard Jewell, questo sarebbe potuto essere un altro titolo per la trentanovesima regia di Clint Eastwood. Ma Richard Jewell mai e poi mai si metterebbe contro gli Stati Uniti d’America, lui che passa le serate a leggere il codice penale, che conosce a memoria ogni singola istruzione del protocollo di sicurezza da attivare in caso di pericolo, che è così ossequioso nei confronti della legge da non essere in grado di rifiutare una richiesta degli agenti del Federal Bureau anche se sa benissimo che questa gli si ritorcerà contro, e che nessuno a livello istituzionale si sta preoccupando di lui, di ciò che prova, di quello che gli potrebbe accadere. In molti si sono sorpresi di non vedere il film tra i titoli candidati nelle varie categorie dei Golden Globe e degli Oscar – in entrambi i casi la nomination è andata alla sola Kathy Bates, bravissima nel ruolo della madre di Jewell –, ma a ben vedere non c’è molto di cui stupirsi. A quasi novant’anni (li compirà il prossimo maggio) Eastwood non cambia traiettoria al proprio cinema, e non modifica di un’oncia lo sguardo con cui attraversa il corpo vivo dell’America; in questo modo si pone automaticamente in una posizione laterale, distante dall’epicentro della rappresentazione che Hollywood vuole dare del Paese. Come i suoi protagonisti anche Eastwood è fuori dalla stanza dei bottoni, non gestisce il potere, non si accoda al flusso dominante. In questo senso non può essere accettato fino in fondo da un’industria al contrario granitica, monolitica nelle proprie posizioni, siano esse culturali o strettamente politiche. Si può storcere il naso di fronte alle dichiarazioni di voto del regista e attore verso l’attuale presidente Donald Trump – ma sarebbe anche utile ricordare come nel settembre del 2016, a un paio di mesi dal voto, abbia rilasciato un’intervista in cui paragonava Trump e Hillary Clinton a Gianni e Pinotto, ponendoli sullo stesso piatto della bilancia –, ma poche sono le filmografie che hanno cercato di scendere maggiormente in profondità nella vita quotidiana di quel popolo di cui molti si riempiono la bocca senza provare mai a interpellarlo veramente. Richard Jewell è un uomo del popolo, non appartiene di certo a nessuna élite culturale, non ha una grande preparazione politica, non è socialmente una persona invidiabile. Al contrario è grasso fino all’obesità, vive ancora con la madre in un piccolo appartamento, e spesso è stato licenziato dai lavori che svolgeva – tutti nel campo dell’ordine pubblico, che è la sua unica e grande passione – in quanto zelante oltre i limiti accettati dalle istituzioni stesse. Bianco, dallo sguardo un po’ beota, grassoccio, con un unico amico con il quale si diverte a sparare al poligono e che da ragazzo in West Virginia costruiva piccoli ordigni per far saltare in aria i tombini, Richard è il soggetto perfetto da indagare per un attentato dinamitardo. E il fatto che sia stato proprio lui l’unico a preoccuparsi di uno zaino incustodito nel bel mezzo di un concerto (a Centennial Park, durante le Olimpiadi di Atlanta del 1996) è un’aggravante, non certo un alibi.
Torna sul concetto di “eroe”, Clint Eastwood, un tema già affrontato in tempi recenti in American Sniper, Sully, e Ore 15:17 – Attacco al treno. Un tema così centrale nella produzione attuale del regista da arrivare a considerare questi titoli i segmenti di una tetralogia – in fase di svolgimento, magari. Mentre American Sniper si concentrava sulla percezione pubblica dell’eroe, attraverso la storia del cecchino Chris Kyle, e Ore 15:17 – Attacco al treno metteva in scena l’eroismo nella sua accezione più pura e priva di infingimenti (i tre giovanotti Spencer Stone, Anthony Sadler e Alek Skarlatos che sventarono l’attacco terroristico al treno Thalys in viaggio da Amsterdam a Parigi), sia Sully che Richard Jewell ribaltano il discorso, narrando di uomini inizialmente assurti al ruolo di eroi e quindi messi in discussione. Chesley ‘Sully’ Sullenberg dovrà testimoniare di fronte alle accuse dell’ente aeronautico prima di veder riabilitato il proprio nome. Molto peggio però andò a Jewell, preso di mira dall’FBI, che lo ritenne l’unico sospettabile e azzannato anche dalla stampa, che ne fece un vero e proprio caso mediatico; anche dopo la chiusura delle indagini con la sua totale eliminazione dal registro degli inquisiti il suo nome non venne riabilitato agli occhi dell’opinione pubblica, e cadde semplicemente nell’oblio. Dimenticato, come molti semplici cittadini che per un motivo o per l’altro si trovano invischiati nei due grandi poteri che gestiscono il mondo occidentale (così come li intende in una sequenza del film l’avvocato di Richard, interpretato da Sam Rockwell), quello governativo e quello mediatico.
Il Richard Jewell raccontato per immagini da Eastwood – che si è basato sulla sceneggiatura di Billy Ray – è vittima dello Stato, e di una corsa alla notizia che non può fermarsi di fronte all’umanità, ma deve sempre osare di più, stringere il cappio attorno al sospettato ben prima che qualcuno si prenda la briga di condannarlo realmente. In un’aperta posizione anarcoide, che vede nell’istituzione in quanto tale le fondamenta di una potenziale ingiustizia perpetrata ai danni del singolo (“ho più paura del governo che dei terroristi” è la frase che campeggia su un poster nell’ufficio dell’avvocato: inquadrarla con cotanta cura in un’epoca in cui si fa a gara a chi scopre più terroristi possibili con cui agitare le notti dei cittadini è a suo modo una netta scelta politica), Eastwood sembra indossare la pelle di un Sam Peckinpah o di un Samuel Fuller. Nulla di nuovo, si potrà obiettare, ma in ogni caso la conferma di una scelta di campo che posiziona il regista di Un mondo perfetto e Gli spietati lontano dagli attuali fasti hollywoodiani.
Non è certo la prima volta che l’FBI e in generale le forze dell’ordine ricoprono un ruolo ambiguo, quando non apertamente negativo, all’interno della poetica eastwoodiana: si pensi per esempio a Un mondo perfetto – è il federale Bobby Lee a far aprire il fuoco contro Kevin Costner –, a Changeling e ovviamente a J. Edgar. Anche se Richard Jewell, così profondamente convinto della giustizia insita nelle divise create per controllare la legalità, non può distaccarsi fino in fondo da ciò in cui crede – e finirà la sua vita da poliziotto, come in fin dei conti ha sempre desiderato –, Eastwood certifica il modo in cui la gente comune può arrivare a perdere qualsiasi tipo di fiducia nello Stato. Quando il suo protagonista finisce nell’occhio del ciclone alla Casa Bianca c’è Bill Clinton, primo presidente Democratico dopo tre reggenze repubblicane: è a lui che si rivolge direttamente la madre di Richard, in un accorato appello destinato ovviamente a rimanere inascoltato. Non è casuale il riferimento a Clinton: quale tradimento più alto ci può essere se non quello che proviene dalla parte di chi politicamente si dichiara a parole dalla parte degli ultimi salvo poi smentire tale asserzione nella realtà dei fatti? Quando Nadja, l’assistente e compagna di Sam Rockwell, ribatte al suo capo che nel suo Paese (la Russia, probabilmente) se il sistema dichiara colpevole qualcuno si può legittimamente pensare che sia innocente, termina la frase con un sibillino “qui da voi non è così?”. Ovvio che è così, sottolinea costantemente Eastwood nel corso del film. E se alcuni passaggi risultano un po’ farraginosi e anche vagamente fuori fuoco – che senso ha mostrare il “pentimento” con tanto di lacrimuccia spontanea della giornalista-sanguisuga interpretata da Olivia Wilde, senza dubbio il personaggio reso con maggiore difficoltà e confusione –, Richard Jewell ha la capacità di arrivare con grande naturalezza al centro del discorso. Oramai prossimo alla morte Eastwood, definitivamente disilluso per quel che concerne le possibilità di una nazione perduta (lontani sono i tempi in cui ragionava dall’interno sul sistema della giustizia e sulla sua applicazione: Debito di sangue è vecchio di diciotto anni), concentra le sue attenzioni sugli affetti personali. Tutto ciò che esula dal massacro mediatico, e dai voltafaccia di un popolo che si accontenta del ballo di gruppo – la sequenza dominata dalle note della Macarena, che anticipano la tragedia, è in tal senso emblematica –, lo si può trovare solo nella famiglia, nelle amicizie durature, negli amori sinceri: un concetto che fa deflagrare alcune delle sequenze più potenti del film e che si ritrova anche nel post-scriptum/epitaffio prima dei titoli di coda. Imbolsita da una narrazione di sé che si è fatta sempre più astratta – non è casuale che la fascinazione di Eastwood vada sempre verso il western, il genere che narra un’America giovane, magari violenta ma ancora in costruzione –, la nazione avrebbe un gran bisogno di eroi, ma preferisce mandarli al massacro mediatico, politico, istituzionale.
Info
Il trailer di Richard Jewell.
- Genere: drammatico, storico
- Titolo originale: Richard Jewell
- Paese/Anno: USA | 2019
- Regia: Clint Eastwood
- Sceneggiatura: Billy Ray
- Fotografia: Yves Bélanger
- Montaggio: Joel Cox
- Interpreti: Alex Collins, Andrea Laing, Billy Slaughter, Brandon Morris, Charles Green, Christine A. Jordan, Dani Deetté, David Lengel, David Moretti, Deja Dee, Desmond Phillips, Dylan Kussman, Elizabeth Keener, Ian Gomez, James H Keating, Jill-Michele Melean, John Gettier, Jon Hamm, Kathy Bates, Kendrick Cross, Kevin Kedgley, Marc Farley, Matthew Atchley, Matthew Byrge, Melinda Russell, Mike Pniewski, Mitchell Hoog, Niko Nicotera, Nina Arianda, Olivia Wilde, Paul Walter Hauser, Philip Fornah, Randall P. Havens, Robert Tinsley, Sam Rockwell, Shawn Weston Thacker, Shiquita James, Victoria Paige Watkins, Wayne Duvall
- Colonna sonora: Arturo Sandoval
- Produzione: 75 Year Plan Productions, Appian Way, Malpaso Productions, Misher Films
- Distribuzione: Warner Bros.
- Durata: 129'
- Data di uscita: 16/01/2020

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