Gli anni più belli

Gli anni più belli

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Rifacendosi allo Scola di C’eravamo tanto amati, Muccino ne Gli anni più belli declina il pessimismo storico di quel film in pessimismo esistenziale, in ciclicità del tradimento, anche se poi non arriva fino in fondo e finisce per perdonare tutti.

C’eravamo tanto illusi

La storia di quattro amici – Giulio, Gemma, Paolo, Riccardo – raccontata nell’arco di quarant’anni, dal 1980 a oggi, dall’adolescenza all’età adulta. [sinossi]

Il tempo non perdona, ma Muccino sì. Nel rifarsi e nel rielaborare C’eravamo tanto amati, con Gli anni più belli Muccino sceglie di rifuggere di fronte al pessimismo storico del capolavoro di Scola e “salva” i suoi personaggi, decidendo dunque di venire meno in ultimo anche al suo pessimismo esistenziale, ottimamente dispiegato nel precedente A casa tutti bene. Volendo poi sottolineare un’altra macro-differenza, è curioso che, rispetto a quanto avveniva proprio in A casa tutti bene tutto concentrato in un tempo quasi aristotelico, Muccino nel suo nuovo film abbia deciso di dilatare il racconto a dismisura, nell’arco di quarant’anni. Certo, all’origine vi era proprio l’intenzione di fare una sorta di remake del film di Scola, ma la scelta era evidentemente ragionata, autoriale, motivata da un qualcosa di profondo, che premeva al regista.

Come risulta chiaro vedendo Gli anni più belli, a Muccino però non interessa la Storia, e anzi questa gli serve come semplice elemento sostitutivo delle più comuni didascalie: si pensi all’uso che fa della famigerata tele-discesa in campo di Berlusconi, in cui una tv viene mostrata per pochi secondi attraverso un articolato movimento di macchina, evento che però non tange la vita dei personaggi.
D’altronde Muccino declina il tutto in chiave autobiografica, visto che decide di cominciare il film all’inizio degli anni Ottanta, invece che con la Resistenza dello Scola di C’eravamo tanto amati, perché lui stesso ha avuto la sua fase adolescenziale nel decennio del riflusso. E, dunque, la contestualizzazione storica serve solo come gancio biografico-narrativo, serve giusto a far partire il racconto, visto che l’amicizia tra i tre protagonisti nasce – tra l’altro, in maniera maldestra – con il casuale ferimento di uno di loro in una manifestazione di piazza in cui i tre si trovano per caso, uscendo – e questo non è un caso – da una discoteca. Si tratta, tra l’altro, di una manifestazione messa in scena in modo esagitato e convulso, con scontri tra poliziotti e militanti non meglio identificati, losco fatto di piazza che sembra rimandare piuttosto a epoche precedenti, magari sessantottine o almeno settantasettine. Comunque, quella è l’irruzione spaventosa della Storia, che poi non si riaffaccerà più con tale veemenza in nessun altro momento di Gli anni più belli.
È l’evento scatenante, prima di potersi permettere di ripiegarsi completamente nel privato dei protagonisti, che è quello che davvero interessa a Muccino. Vi è, in questo, qualche rara eccezione, qualche semplice allusione, dalla “berlusconizzazione” del personaggio dell’avvocato interpretato da Favino (e che rappresenta l’attualizzazione del personaggio di Gassman in C’eravamo tanto amati), alla “grillizzazione” momentanea del personaggio di Santamaria (discutibile “fuga in avanti” ideologica dell’intellettuale comunista interpretato nel film di Scola da Stefano Satta Flores).

Ma si tratta, per l’appunto, di brevi parentesi, di spiragli, di piccole e ininfluenti finestre aperte sul discorso politico, ben lungi dal diventare discorso cinematografico, come invece avveniva in maniera strutturale per Scola, il cui pessimismo era per l’appunto storico, perché rifletteva sulle speranze deluse delle promesse resistenziali (per ragionare, al contempo, anche sulla fine del neorealismo e del grande cinema italiano). Muccino invece utilizza la Storia come escamotage per dispiegare la sua idea dell’eterno ritorno sentimentale, del tradimento come coazione a ripetere, del filo inter-generazionale che ricasca inevitabilmente negli stessi errori; e questo concetto potrebbe essere ipoteticamente traslato in qualsiasi epoca storica, nel passato come nel futuro.
Dunque ciò che veniva evocato nel finale di A casa tutti bene (ed è qui che si trova il legame più profondo con questo film), con la coppia di ragazzini che si formava ma che era già pronta in nuce a fallire, viene ne Gli anni più belli eretto a sistema: la delusione esistenziale è sempre di natura sentimentale ed è destinata a riproporsi ciclicamente, in maniera sempre uguale a se stessa.

La ciclicità della storia (e non della Storia) sostanzialmente si dispiega perché, agli occhi di Muccino, chi esce dal gruppo finisce invariabilmente per tradire, vuoi perché è costretto ad allontanarsi spazialmente (il personaggio della Ramazzotti che si ritrova a Napoli contro la sua volontà), vuoi perché ci si ritrova ad allontanarsi economicamente (il personaggio di Favino che si arricchisce e dunque non frequenta più lo stesso ambiente). Si tradisce, per certi aspetti, anche contro la propria volontà, perché ci si è marchiati per il fatto stesso di essersi allontanati, e dunque non si è più in grado di percepire l’esistenza come prima, quando tutto era comprensibile, accettabile, funzionale e funzionante. Perciò, nel momento stesso in cui si rompe l’endogamia, nasce il racconto nel cinema di Muccino; e questo fatto sembra particolarmente evidente ne Gli anni più belli.

Tutto ciò, però, sembra rimandare proprio a quel pessimismo esistenziale tanto apprezzato in A casa tutti bene e che connota per lunga parte anche Gli anni più belli. E invece, al di là di ogni confronto con il film di Scola, che sarebbe ingeneroso e ingiusto, Muccino viene ad un certo punto meno anche alla fedeltà con se stesso, perché alla fine non se la sente di condannare tutti (il personaggio di Favino in primis) e decide in maniera improvvida di dirazzare verso il “volemose bene”, verso il “c’eravamo tanto amati ma in fin dei conti ci amiamo ancora”, che risulta ben poco coerente con premesse e svolgimento del racconto. E allora è qui che tornano alla memoria anche tutte le grossolanità su cui fino a quel punto si era chiuso un occhio, tutte quelle forzature narrative che avevano spinto i personaggi ora da una parte ora dall’altra, debolezze che per larga parte si era deciso di perdonare sia per l’istintiva foga con cui venivano messe in scena, sia per una recitazione decisamente convincente e tutt’altro che facile; infatti gli attori – dalla Ramazzotti a Favino, a Santamaria a Kim Rossi Stuart – danno tutto, giocando continuamente sui sovratoni e muovendosi in miracoloso equilibrio tra il sublime e il grottesco. Tutte queste perplessità finiscono allora per riemergere inevitabilmente di fronte alla raggiunta maturità dei personaggi, dove il racconto si fa più posato, più malinconico, più tenero, più affettuoso, più ciondolante e sussiegoso, e dunque meno convincente e meno adatto alla macchina-cinema mucciniana, che vuole per sua consustanziale necessità il sopra le righe, l’urlo lo schiamazzo e il pianto, e che senza questi elementi appare in fin dei conti poco interessante, e anche trascurabile.

Info
Il trailer di Gli anni più belli

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