Volevo nascondermi

Volevo nascondermi

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Giorgio Diritti torna alla regia di un lungometraggio di finzione a ben sette anni di distanza da Un giorno devi andare. L’occasione gliela dà Volevo nascondermi, narrazione biografica – ma in vena di libertà – della vita e dell’arte di Antonio Ligabue. Un lavoro ambizioso che è però indeciso sulla strada da intraprendere, e resta sospeso tra lirismo e cruda realtà, metafora (ovviamente animale) e rappresentazione del vero. Elio Germano dimostra tutte le sue qualità in un ruolo rischiosissimo. In concorso alla Berlinale.

D’anime e d’animali

Toni, figlio di una emigrante italiana, respinto in Italia dalla Svizzera dove ha trascorso un’infanzia e un’adolescenza difficili, vive per anni in una capanna sul fiume senza mai cedere alla solitudine, al freddo e alla fame. L’incontro con lo scultore Renato Marino Mazzacurati è l’occasione per riavvicinarsi alla pittura, è l’inizio di un riscatto in cui sente che l’arte è l’unico tramite per costruire la sua identità, la vera possibilità di farsi riconoscere e amare dal mondo. “El Tudesc,” come lo chiama la gente è un uomo solo, rachitico, brutto, sovente deriso e umiliato, diventa il pittore immaginifico che dipinge il suo mondo fantastico di tigri, gorilla e giaguari, stando sulla sponda del Po. [sinossi]

Per quanto sia ovviamente solo frutto del caso, non si può evitare di accompagnare la visione di Volevo nascondermi – primo dei tre film italiani presenti in concorso alla Berlinale: sarà poi la volta dei fratelli D’Innocenzo e di Abel Ferrara, che ha forse definitivamente trovato adozione, e patria, a Roma – al dolore per la perdita di Flavio Bucci, scomparso il 18 febbraio. Bucci, che le giovani generazioni cinefile hanno pressoché dimenticato, se non direttamente ignorato, fu un eccellente Antonio Ligabue, nella miniserie Rai diretta da Salvatore Nocita e trasmessa in tre puntate nel tardo autunno del 1977. Bucci trasportava su di sé tutte le angosce, le miserie e le schizofrenie del geniale pittore italo-svizzero, in un film televisivo teso a svelare il dramma di un uomo assurto agli onori delle cronache critiche ma rimasto inevitabilmente solo, privo del reale conforto dei suoi simili. Nel suo schematismo e nella sua tensione mélo il lavoro di Nocita riusciva a cogliere con una chiarezza estrema ciò che interessava della strana e inimitabile figura di questo artista ricoverato sovente in ospedali psichiatrici, umbratile, quasi privo della capacità minima di comunicare con l’esterno. Impossibile dunque non prendere il Ligabue televisivo come pietra di paragone per Volevo nascondermi, quarto lungometraggio di finzione diretto da Giorgio Diritti in oltre un decennio di carriera. Erano sette anni, dai tempi di Un giorno devi andare, che il regista emiliano non orchestrava una propria narrazione per immagini. Il progetto dedicato a Ligabue è stato lungo e anche travagliato, se si considera che la stragrande maggioranza delle riprese sono state terminate entro il luglio del 2018 (che è anche l’anno di produzione del film, stando a ciò che viene scritto nei titoli di coda). L’impressione è che il travaglio sia stato così complesso da aver partorito un’opera fragile, che al contrario di quella di Nocita manca a conti fatti di chiarezza d’intenti. Durante la visione ci si sofferma in più di un’occasione a riflettere su quel che Diritti volesse esprimere nel mettere mano alla biografia del pittore. Anche perché di realtà storica ce n’è solo in parte, visto che Diritti – anche autore della sceneggiatura insieme a Tania Pedroni, sua fedele sodale dai tempi de L’uomo che verrà – ne approfitta per prendersi le dovute libertà.

Il film si apre su una delle molte reclusioni ospedaliere che contrappuntarono la vita di Ligabue: in attesa di parlare con il dottore il pittore si nasconde sotto una coperta, lasciando libero solo lo spazio per uno degli occhi. L’utopia di non esser visto ma di poter vedere gli altri, e il mondo che lo circonda, forse deriva da quell’infanzia così turbolenta che lo vide strappato alla madre naturale e costretto a vivere con una famiglia d’adozione in Svizzera. O forse deriva dalle risate di scherno dei suoi compagni di classe, che lo deridono con rara crudeltà mentre lui viene sottoposto a terribili punizioni dal maestro (lo si vede chiuso in un sacco di iuta). O forse ancora deriva da quell’improvvisa espulsione dalla Svizzera, che lo rispedisce in terra emiliana, nella pianura Padana attraversata dal Po: lui, che non parla una parola di italiano, continua a esprimersi nel dialetto tedesco appreso al di là delle Alpi. In questa ostentata reiterazione di forse si annida il pericolo principale di un’operazione culturale come quella portata a termine da Diritti: se lo svolazzare agevolmente da una memoria d’infanzia all’altra sembra in qualche misura rincorrere la mente rapsodica di un essere umano che non ha mai ragionato come i suoi simili, allo stesso tempo è il modo migliore per muoversi a volo d’uccello senza scendere mai davvero in profondità. Il lirismo come arma di distrazione di massa, in qualche misura, un rischio che Diritti aveva corso anche con il precedente Un giorno devi andare, ma perfino con l’ultra-premiato L’uomo che verrà (solo l’esordio Il vento fa il suo giro sembra resistere all’usura del tempo); dopotutto quel realismo magico contadino della piana emiliana il regista lo conosce a menadito, e non è certo un caso che anche gli aspetti più interessanti e riusciti di Volevo nascondermi siano rintracciabili nella scelta accurata delle location, nella capacità di riprendere e fotografare i campi, la mietitura, le aie delle grandi case contadine, le piazze di cittadine come Guastalla o Gualtieri. Lì, nella pura rappresentazione dello spazio, Diritti sa cogliere una verità intima, senza mai fermarsi al paesaggismo.

A sfuggire però tra le dita è il senso del dover raccontare Antonio Ligabue, proprio per la natura così peculiare e unica dell’artista. Diritti, impossibilitato a venir meno alla rappresentazione della follia, dell’anarchismo, della brutalità anche del personaggio si limita alla metafora animale, perdendosi dietro qualche cielo di troppo alla ricerca di una natura che dovrebbe rappresentare l’antitesi della società. Ma dell’intimità di Ligabue vien fuori un groviglio di pensieri senza una reale forza, se non quella di rinverdire le sue ossessioni (le motociclette e le automobili): tutto rischia di perdersi dunque dietro l’ennesimo racconto di un geniale disperato che vorrebbe ritrovare la carezza perduta della madre. Un po’ poco, ma soprattutto un po’ stucchevole. A salvare parzialmente il tutto è l’interpretazione di Elio Germano, che pur costretto a muoversi gobbo, a farfugliare, a nascondersi, riesce a restituire una (dis)armonia non priva di dolcezze, e ad apparire credibile e umano anche nelle sequenze che lo spingono con più forza verso la macchietta – che è però sempre in grado in maniera quasi miracolosa di evitare.

Info
Il trailer di Volevo nascondermi.

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