The Woman Who Ran

The Woman Who Ran

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Presentato in concorso alla 70 Berlinale, The Woman Who Ran è l’ultima opera di Hong Sangsoo, interprete di un cinema sempre più rarefatto e minimalista, un cinema femminile dove il punto di vista maschile del regista fa più di un passo indietro e la donna si è lasciata l’uomo alle spalle.

Il futuro della donna senza l’uomo

Mentre suo marito è in viaggio d’affari, Gamhee incontra tre sue amiche. Visita le prime due nelle loro case e incontra la terza per caso, negli uffici di una società di produzione cinematografica, dove si reca a visionare un film in una saletta. [sinossi]

Non potrebbe cominciare un anno di festival cinematografici senza Hong Sangsoo che presenta alla 70 Berlinale, in concorso, il suo primo film del 2020, The Woman Who Ran, incentrato ancora una volta su quella che è, o è stata, la sua musa, l’attrice Kim Minhee, con una nuova pettinatura con messa in piega che la rende più giovane, come nota la prima amica del film. Gamhee, questo è il nome del suo personaggio, rappresenta il filo conduttore di storie, tutte femminili. Il cinema dell’autore sudcoreano è spesso binario, fatto di due storie in un film; qui invece le storie sono tre, con alcuni accenni di sottotrame, con elementi che, come sempre per l’autore, si ripetono due volte. Torna, dopo gli ultimi film, prepotentemente la natura a fare da sfondo, una natura di colori autunnali nel contesto di un piccolo centro urbano immerso nella campagna, con tanto verde e con le case con gli orti e il pollaio, il tutto dominato da un monte. La natura torna anche nella sensibilità animalista in alcuni discorsi, seppur con contraddizioni. Per esempio Youngji è scioccata dalla crudeltà con cui il gallo del pollaio becca le galline e dà da mangiare ai gatti che considera come dei bambini, litigando per questo con un vicino. Ciò non impedisce alla donna di amare la carne alla griglia, così come la sua amica ragiona sulla possibilità di diventare vegetariana, pensando a quanto siano simpatiche le mucche e belli i loro occhi. Immagini della natura servono anche a raccordare tra loro le tre parti del film, attraverso la visione della montagna.

Gamhee va a trovare, o incontra per caso come succede nell’ultima situazione, delle amiche con le quali, pare di capire, non si vedeva da tempo, e chiacchiera con loro, ognuna racconta degli ultimi anni della propria esistenza. È la prima volta in cinque anni che Gamhee passa del tempo lontana dal marito, con cui comunque pare le cose vadano bene, almeno lei dice così. Alle storie delle amiche si delineano accenni di ulteriori storie, come quella della figlia del vicino la cui madre se n’è andata. Più facile incrociarsi in quella cittadina di provincia che non nella metropoli di Seoul, dicono. Ma i rapporti di vicinato sono contraddittori e ambigui. La prima amica, Youngsoon, sembra intima con una vicina che ha problemi, mentre la sua coinquilina litiga con quell’altro vicino che detesta i gatti. La seconda amica trovata, Suyoung, trova molto piacevole quel clima di vicinato ma frequenta un uomo conosciuto in un bar (situazione tipica da Hong Sangsoo) scoprendo solo successivamente che è un inquilino del piano sopra il suo. Quest’ultima situazione segnala una grande separazione con il cinema precedente del regista sudcoreano, dove la narrazione si snoda tra tavolini di bar e ristoranti, mangiando e sorseggiando soju. Qui invece tutto si svolge in casa, in contesti conviviali e informali domestici. Solo il terzo incontro non è in un’abitazione privata, ma in quello che sembra un open space di una compagnia cinematografica, ma si tratta comunque di un ambiente amichevole e famigliare. Non si beve alcol nel film e lo stato di ubriachezza è solo evocato, un paio di volte. I bar e l’alcol sono lontani, appartengono ai ricordi, e agli altri film del regista, come pure il mondo degli uomini. I maschi si vedono poco, uno per ognuna delle tre parti, e perlopiù di spalle. Il vicino che odia i gatti, il giovane poeta che assilla Suyoung, l’uomo che incontra Gamhee alla fine, con il quale c’è stato un burrascoso trascorso, probabilmente è un regista, probabilmente l’alter ego di Hong Sangsoo, anche perché interpretato da Kwon Hae-hyo che già in On the Beach at Night Alone rappresenta una delle manifestazioni del regista. E forse l’ultima amica che incontra c’entra nella fine di quella storia, lei che si deve scusare con Gamhee per un imprecisato episodio del passato. L’ultima parte del film è quella dove, come spessissimo nelle opere del cineasta sudcoreano, l’ambiente è quello a lui famigliare del cinema. Ma la figura del regista potrebbe rispecchiarsi anche nello scrittore, mai visto, marito di Gamhee, di una figura pubblica che acquisisce notorietà. Non abbiamo nuovi gossip su quale sia l’attuale situazione sentimentale del regista con Kim Minhee. Quello che è certo è che The Woman Who Ran è un film su una donna che vuole riprendersi il suo tempo e i suoi spazi, che tiene lontano il mondo degli uomini, dove la visione maschile fa un passo indietro. Il mondo maschile è il pollaio con cui il film si apre, dove il gallo becca sadicamente le galline, che non hanno più le piume sul collo.

Sempre più rarefatto il cinema di Hong Sangsoo, fatto di movimenti di macchina minimi, zoom, costruito con una fittissima rete di specularità e di elementi che si ripetono due volte: una ragazza che deve fare un’intervista, la situazione spiata da un videocitofono, il riferimento all’inquilino del terzo e del secondo piano, il piatto di mele, i riferimenti a stati di ubriachezza, la cucina. E poi, come si è detto, la lunga serie di tavolini dove si pranza. Specularità e richiami sono ancora tra un film e l’altro e The Woman Who Ran appare fortemente in risonanza con On the Beach at Night Alone, il primo film peraltro della serie sulla tormentata relazione con Kim Minhee. Una storia in cui il momento catartico, di rivendicazione femminile, è rappresentato proprio in uno stato di ubriachezza che manca in quest’ultimo film, pure essendovi richiamato. E in quel film l’immagine del mare e della spiaggia rappresenta l’interfaccia verso un mondo onirico. Quello che ora cerca Gamhee, allontanandosi dagli uomini e trovandolo nel cinema. In quel film che vede in una saletta privata, dove c’è anche il critico Darcy Paquet. Non c’è più un paesaggio diviso a metà, la spiaggia e il mare, come i due generi, maschile e femminile. C’è solo il mare con un piccolo lembo di terra che emerge. È un film dove si vede quasi solo il mare, che lei trova carico di pace. Il mare che offre spiragli verso nuovi orizzonti, il futuro della donna, il futuro del cinema?

Info:
La scheda di The Woman Who Ran sul sito della Berlinale 2020.

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