Vacanze in America
di Carlo Vanzina
Nato sulla scia di un modello di successo ormai collaudato, Vacanze in America di Carlo Vanzina tenta di riproporre la formula delle sue precedenti commedie vacanziere alzando il tiro verso l’ambientazione internazionale. Il risultato è solo una pallida copia di opere ben più riuscite, e si caratterizza per una scrittura meno attenta, per un racconto più sfilacciato, appoggiato a un cast d’attori poco in vena rispetto ad altre occasioni.
Due più due che a volte fa tre
Una scuola cattolica di Roma organizza un viaggio in America per i diplomati dell’anno. La comitiva è guidata da don Buro, sacerdote ciociaro, e da un anziano prete un po’ rimbambito. Al gruppo di giovani viaggiatori si aggregano Peo Colombo, ex-allievo della scuola giunto al settimo anno fuori corso di Scienze Politiche, e Françoise De Romanis, signora francese e madre apprensiva di uno dei diplomati. Il leader del gruppo di compagni di scuola è Alessio Liberatore, giovane di estrazione popolare che sull’aereo verso New York conosce Antonella, fidanzata a un aspirante filmmaker. Tra buffe avventure, scherzi goliardici e qualche flirt che nasce, il viaggio si sposta da New York verso l’Ovest… [sinossi]
Il Natale italiano del 1984 fu caratterizzato dallo scontro fra Non ci resta che piangere, diretto e interpretato dal nuovo duo Roberto Benigni-Massimo Troisi, e Vacanze in America di Carlo Vanzina. Stavolta Vanzina ne uscì sconfitto, segnando una battuta d’arresto in un modello piuttosto collaudato che aveva raccolto trionfi con i due precedenti Sapore di mare (1983) e Vacanze di Natale (1983). Il brand si costituiva ormai di precisi elementi: un orizzonte di brillante commedia, un cast corale di nuovi mattatori, belle presenze femminili, qualche giovane in rampa di lancio, sapiente mescolanza di comicità e romanticismo facile facile, e un approccio al racconto che muovendosi dalle nostalgie anni Sessanta del capostipite si era poi spostato verso la contemporaneità per una radiografia di vizi, costumi e status symbol di inizio anni Ottanta. Con Vacanze in America si tentò un salto ulteriore, uscendo dal perimetro italiano per tentare una piccola avventura oltreoceano, in cui mettere a confronto il provincialismo di casa nostra con il mito della Terra dell’Abbondanza. Cambia il produttore, e forse il passaggio di mano tra la Filmauro e la famiglia Cecchi Gori (che avvenne solo e soltanto per questa occasione) ebbe un certo ruolo nel mutato passo del film. Rispetto ai brillanti intrecci di una corale pochade natalizia realizzata nello spirito dell’instant movie e percorsa pure da qualche malinconia a carattere psico-sociale, qui i Vanzina sembrerebbero infatti in cerca di uno spirito più sottile, di un passo narrativo ben più allentato e in certi brani addirittura contemplativo – dove per contemplativo, sia chiaro, s’intende la mera capacità di soffermarsi sui paesaggi statunitensi in cerca di qualche brivido generazionale, magari con il bel commento di Take Me Home, Country Roads di John Denver. Almeno sulle premesse, con l’introduzione al racconto tramite la voce narrante di uno dei protagonisti, l’Alessio Liberatore impersonato da Claudio Amendola, si tenta qualche strada di malinconia da età di passaggio alla vita adulta, tramite un viaggio dopo l’esame di maturità che vorrebbe segnare una sorta di superamento della linea d’ombra. In tale direzione interviene anche la didascalia iniziale, dove si dedica il film «ai nostri compagni di scuola da cui la vita ci ha separati…».
A ben vedere, la struttura principale dei due illustri precedenti è ripercorsa anche qui con il ricorso a precise scelte di proporzioni tra i personaggi e di relativa scelta degli attori: una prima fascia di protagonisti brillanti chiamati a incarnare personaggi un po’ più adulti e a garantire il lato più scopertamente comico (Jerry Calà, Christian De Sica), una fascia intermedia composta di giovani volti che alternino umori generazionali a tenui risvolti da fotoromanzo (Claudio Amendola, Antonella Interlenghi, Fabio Ferrari, Giacomo Rosselli, Gianmarco Tognazzi…), e una più matura guest star femminile di grande fascino – qui Edwige Fenech, Virna Lisi in Sapore di mare, Stefania Sandrelli in Vacanze di Natale. Sembra di percepire in Vacanze in America l’emersione di una più sostenuta consapevolezza della formula, che irrigidisce la sua riproposizione rispetto alla fresca fluidità delle due opere precedenti in cui le figure evocate si componevano in un quadro corale senza lasciare l’impressione di un’ingessata giustapposizione di volti. Tale rigidità si verifica con notevole enfasi fin dall’esordio del racconto, fortemente meccanico e faticoso fin dall’innesco narrativo abbastanza improbabile – una gita in America organizzata da una scuola cattolica, in cui due buffi sacerdoti accompagnano gli studenti oltreoceano permettendo pure a ex-studenti adulti e a madri apprensive di aggregarsi alla combriccola, purissimo pretesto per coinvolgere nella comitiva Jerry Calà, studente universitario al settimo anno fuori corso, e la fascinosa Edwige Fenech, qui forse l’elemento più estraneo all’intera operazione commerciale. In più, mettiamoci pure che i volti convocati come freschi diplomati non sono esattamente diciotto-ventenni, ma salvo qualche eccezione si tratta di attori abbondantemente sopra i vent’anni, che in parte andranno a comporre di lì a qualche anno, con la medesima cifra di improbabilità, il gruppo scolastico del televisivo I ragazzi della 3a C (Claudio Risi, 1987-89) riprendendo oltretutto la classe a cui appartengono i protagonisti del film di Vanzina (la terza C) tanto da far pensare che il telefilm sia in qualche modo uno spin-off di Vacanze in America.
Come è decisamente forzato l’innesco narrativo del film, così risultano sorprendentemente rigide le entrate in scena dei singoli personaggi: quell’ «Eccomi!» di Jerry Calà sembra una vera e propria entrata a puro uso e consumo extradiegetico delle platee, l’entrée di un volto atteso e molto amato in quegli anni, l’elemento necessario per il pubblico perché la macchina funzioni e non si affidi solo allo scialbo volto di giovani più o meno ignoti. Sembra pure che si giochi in qualche modo con la consapevolezza dei modelli precedenti, richiamando in scena una comitiva in buona parte già proposta dodici mesi prima, e qui governata da un De Sica che convoca uno dopo l’altro all’appello tutti i necessari partecipanti delle passate avventure. Tale rigidità, purtroppo, si conferma per tutto il racconto, composto di pure e semplici avventure episodiche che vanno ben oltre la connaturata frammentarietà del film on the road. Vacanze in America sconta una sostanziale e strana freddezza delle situazioni, una capacità ridotta quasi a zero di comporre battute davvero divertenti – si ride pochissimo, talvolta perché le freddure cadono a vuoto, altrove perché i Vanzina non sembrano cercare nemmeno più di tanto la risata ma non mostrano invero altri obiettivi ben definiti. Forse si tratta, almeno sulla carta, di un tentativo di alzata di tiro, un desiderio di sdoganamento dalla commedia tout court che però resta a metà, da un lato troppo ancorato alla barzelletta italica, dall’altro privo di qualsiasi identità più marcata nell’ordine della malinconia o riflessione generazionale. Tutta la prima parte ambientata a New York si perde dietro minuscoli bozzetti comici, perlopiù affidati a Jerry Calà e ai suoi deboli alleati di avventure, Fabio Ferrari e Fabio Camilli. I personaggi sembrano muoversi in una New York fatta di due strade e due quartieri, così come gli incontri più o meno casuali tra Amendola e la Interlenghi in tutto il territorio statunitense hanno del miracoloso – e non basta mettere in bocca una battuta di consapevolezza a uno dei due personaggi per giustificare una tale forzatura narrativa. Del resto, il flirt Amendola-Interlenghi è davvero il lato più debole, ridotto all’osso, inficiato dalla macchietta esagerata del fidanzato Rocky interpretato da Gianfranco Agus. Si sorride appena per l’avventura nel night club di Calà e compagni che finisce con una partita a carte all’alba presso una famiglia di italoamericani, dove troneggia un buffo sosia di Sylvester Stallone, ma per il resto le occasioni di divertimento sono davvero poche, e il personaggio di don Buro, inventato da De Sica e qui all’esordio, non è particolarmente ispirato né si coagula efficacemente con il contorno, trattandosi di un’unica macchietta iperbolica collocata in un contesto generale dai toni comici decisamente smussati. Soprattutto resta assai poco apprezzabile la composizione del racconto, sfilacciato, disperso tra più vicende parallele che quasi mai si compongono in un vero quadro d’insieme.
Va dato atto ai Vanzina che il film acquista una maggiore ispirazione una volta abbandonata New York, con quel torpedone che vaga da un punto all’altro degli Stati Uniti raccogliendo qualche sincero brivido di emozione, sempre un gradino al di sopra della mera cartolina – pensiamo in particolare alla sosta nella Death Valley con relativa partita di pallone contro una squadra di avversari juventini. Si direbbe insomma che aumenta il budget, si allarga l’orizzonte produttivo (non più la Versilia o Cortina d’Ampezzo, ma gli Stati Uniti) ma diminuiscono le idee. Dopo l’allestimento di un modello produttivo e il suo consolidamento giunge inevitabilmente il suo momento di crisi, in cui le idee si esauriscono e/o ci si siede sugli allori dei successi passati, vivendo un po’ di rendita. Del resto, tranne il macchiettone esagerato di De Sica, pure gli attori convocati sembrano un po’ tutti tirare al risparmio. La Fenech, che per una delle poche volte recita con la propria voce, ha spazi narrativi molto limitati, Amendola ripete il solito profilo di giovane proletario dal cuore tenero, ma il più in difficoltà risulta Jerry Calà, che fors’anche per sopraggiunti limiti anagrafici si muove qui decisamente a disagio nel ruolo dell’eterno fanciullo a caccia di gonne. È un Calà depotenziato che si allinea a un più globale depotenziamento e allentamento di un modello cinematografico di successo.
Dal canto loro, i Vanzina qui sembrano avere smarrito lo smalto delle loro opere migliori, insieme alla capacità di narrare amarezze e stati d’animo che pure emergevano con chiara evidenza in film spesso sbrigativamente archiviati come banali e superficiali – non solo i precedenti film vacanzieri, ma anche un’operina di corto respiro eppure garbata e piacevole, piuttosto ben scritta, come Amarsi un po’ (1984). Emerge semmai, in brevi frammenti, la capacità di spogliare il proprio sguardo davanti a una mera esposizione dell’oggetto, operazione che troverà evidenza più forte e conclamata in Sotto il vestito niente (1985). In Vacanze in Americaciò emerge in brevi frammenti sparsi, dalla spiaggia di Venice ai casinò di Las Vegas, fino alla bella parentesi in un locale notturno di Los Angeles dove Vanzina registra con sguardo impassibile le evoluzioni danzanti di vari ballerini di colore. Non vi è certo intenzione di fare documento etnografico, ma non si tratta nemmeno di mere cartoline esotiche. È una registrazione del reale, particolarmente attratta da ciò che costituisce tipicità anni Ottanta, senza alcun brivido di provinciale stupore.
Più in generale, e molto probabilmente fuori dalle proprie intenzioni, Vacanze in America finisce per tramutarsi in racconto di un vuoto, che purtroppo nel film si accompagna spesso a un reale e inaspettato vuoto di idee. La crisi conclamata di un modello produttivo di successo, che per trovare altre fonti di sicuro incasso dovrà riscoprirsi sotto tutt’altre forme, procedendo verso la comicità più sbrindellata e demenziale, prima di un’ultima sosta gradevole con Yuppies – I giovani di successo (1986), in cui però l’apertura verso la coeva comicità televisiva inizia a farsi già più evidente – processo, del resto, già avviato in Vacanze di Natale e anche in Vacanze in America, entrambi punteggiati di rapidi riferimenti all’attualità televisiva, alla nuova realtà degli spot pubblicitari e al graduale imporsi delle reti berlusconiane con annessi nuovi modelli espressivi e culturali.
A Vacanze in America manca infine, un po’ inaspettatamente, uno degli elementi che aveva reso così forte e vincente il modello di Vacanze di Natale. Vige infatti un’assenza pressoché totale di coevi grandi successi musicali in colonna audio, ridotti qui alla presenza, in testa e in coda al racconto, di Terra promessa di Eros Ramazzotti e Ci vorrebbe un amico di Antonello Venditti – mentre Sapore di mare adottava la stessa struttura riempiendo le campiture sonore con successi anni Sessanta. L’intero corpo centrale del racconto è qui invece affidato quasi esclusivamente a qualche tenue brano originale di musica di servizio a opera di Manuel De Sica. La sovrabbondanza musicale di Vacanze di Natale non è certo un elemento imprescindibile, ma d’altra parte il dominante silenzio musicale di Vacanze in America non fa che accentuarne le debolezze, soprattutto il ritmo lasco e allentato delle battute e dei botta-e-risposta. Per cui, malgrado l’esilità e la brevità dell’insieme, si arriva pure un po’ a fatica alla fine del film, e intanto proviamo nostalgia per Moonlight Shadow. Ché di Vacanze di Natale, del resto, ce n’è soltanto uno. Certi equilibri, nell’arco di un’intera filmografia, forse si trovano una sola volta.
Info
Vacanze in America, il trailer.
- Genere: commedia
- Titolo originale: Vacanze in America
- Paese/Anno: Italia | 1984
- Regia: Carlo Vanzina
- Sceneggiatura: Carlo Vanzina, Enrico Vanzina
- Fotografia: Claudio Cirillo
- Montaggio: Raimondo Crociani
- Interpreti: Antonella Interlenghi, Antonio Spinnato, Christian De Sica, Claudio Amendola, Edwige Fenech, Fabio Camilli, Fabio Ferrari, Giacomo Rosselli, Gianfranco Agus, Gianmarco Tognazzi, Isaac George, Jerry Calà, Jolanda Egger, Luigi Uzzo, Marco Urbinati, Paolo Baroni, Renato Moretti
- Colonna sonora: Manuel De Sica
- Produzione: CG Silver Film
- Durata: 89'

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