I mostri

I mostri

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I mostri è il film più sadico, lo sberleffo più crudele mai messo in pratica da Dino Risi (coadiuvato in fase di scrittura da Age, Scarpelli, Maccari, Scola e Petri); nell’Italia placida e grassoccia del boom economico questi venti episodi, tutti di durata diversa tra loro – dal micrometraggio al medio – irrompevano come una bomba a mano, la deflagrazione in grado di mettere a soqquadro il palchetto borghese, e le sue infinite ipocrisie.

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Venti episodi, tutti di durata diversa, tesi a raccontare i vizi e le ben poche virtù dell’italiano medio nel pieno del boom economico, tra genitori che educano i figli al crimine, falsi invalidi, pugili rintronati e una borghesia ipocrita e mediocre. [sinossi]
Il mondo è tondo
e chi non sa stare a galla
va a fondo
Ugo Tognazzi al figlioletto, I mostri

Nel 1963, anno di realizzazione de I mostri, esce nelle sale anche Ro.Go.Pa.G., film collettaneo a episodi che vede Pier Paolo Pasolini (la Pa. Dell’acronimo) alle prese con La ricotta: sul set del film nel film viene intervistato Orson Welles – per l’occasione con la voce di Giorgio Bassani –, che interpellato da un fantomatico cronista del Tegliesera su cosa ne pensi della società italiana risponde senza indugi: «Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa». Poi, a intervista terminata rincara la dose: «Ma lei non sa cos’è un uomo medio? È un mostro. Un pericoloso delinquente. Conformista! Colonialista! Razzista! Schiavista! Qualunquista!». L’uomo medio è un mostro. E di uomini – e donne – medi e medie s’è riscoperta stracolma l’Italia: potere del potere, quello economico in particolare, e del boom che tanti soldi e certezze per l’indomani ha portato al popolo. Sulle vestigia di un’archeologia proletaria della Terra si è installata in fretta e furia una borghesia feroce, rampante e di fatto inconsistente (tanto che franerà al primo soffio di vento contrario dell’economia, un paio di decenni più tardi), tutta dedita al culto della velocità, del progresso tecnologico ma mai davvero sociale. La dolce vita aveva già scoperchiato il nido di vermi che si contorcevano sotto la faccia linda e pinta del Capitale, e dell’Italia come potenza mondiale – a solo un quindicennio dal conflitto che aveva mandato a morire migliaia di soldati con equipaggiamenti inadeguati allo sforzo bellico –, ma serviva lo scossone decisivo, e non poteva venire dall’auteur. Chi non comprese il ruolo della commedia all’italiana, la sua accezione forzatamente politica, si perse anche dietro l’affermazione di Welles/Bassani/Pasolini. Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante. Non erano atti d’accusa contro il popolo, ma contro la società. E la commedia all’italiana si erse a paladino di una battaglia mai contro il popolo, ma contro quella società che aveva così ridotto il popolo, così indirizzato la borghesia. L’uomo medio è un mostro, si sa, e i mostri bisogna saperli combattere. Ma l’uomo medio non è un’incarnazione precisa, è una figura astratta, una semplificazione. Quando I mostri trova distribuzione nelle sale, alla fine di ottobre del 1963, sta per arrivare a conclusione il governo monocolore democristiano di Giovanni Leone e l’Italia sta per entrare nell’era Aldo Moro che terminerà, nei modi tragici che tutti ben conoscono, quindici anni più tardi: il cosiddetto “miracolo economico” sembra inarrestabile, eppure proprio nel 1963 si verifica il primo shock salariale dal dopoguerra, a presagire anni tutt’altro che semplici, e che muteranno in modo determinante la faccia – sulle viscere, come già scritto, sarebbe da raccontare tutt’altra storia – del Paese.

Dino Risi è con ogni probabilità il cantore più profondo, sincero e traumatico del boom economico. La sua speranza nelle magnifiche sorti e progressive dell’umana gente e del sistema-Italia s’è arenata due anni prima su uno schiaffo e una caduta in piscina, preludio al riscatto conclusivo di Una vita difficile. Lì, nella rivendicazione di Silvio Magnozzi, non più disposto a subire qualsivoglia angheria per mera ricerca del profitto personale, cade anche l’ottimismo democratico e progressista di Risi, anche se ovviamente nessuno può ancora saperlo. Gli anni Sessanta, già tumultuosi prima ancora di cadere nel vortice del tumulto di piazza, Risi li racconta come un mito della velocità fine a se stessa, dove un Ferragosto può tramutarsi in una caduta nel burrone (Il sorpasso) o più semplicemente nella finzione del matrimonio borghese, della liceità della propria depressione, dell’insoddisfazione perenne (L’ombrellone): Risi non vuole ridicolizzare il panorama antropologico che va ad analizzare, mettendolo magari alla berlina o comunque scoperchiandone i nervi, non è quello l’obiettivo. La risata non è il raggiungimento dello scopo, ma il mezzo grazie al quale anche al più refrattario degli spettatori può divenire chiara la visione di un mondo distonico, auto-defraudatosi del bello, a vantaggio di un profitto illusorio, sia esso legato ad accrescimento del patrimonio, a un raggiro verso qualcheduno o anche alla più borghese delle menzogne, l’adulterio. Per Risi solo nella evidente falsità congenita del fotoromanzo, così spudoratamente messa in immagini in movimento in Straziami ma di baci saziami, si può ancora pensare di articolare una narrazione che si muova in direzione del “lieto fine”. Il resto può essere dominato solo dal ghigno beffardo e sardonico della crudeltà.

I mostri è in tal senso un’operazione perfino teorica, oltre che devastante sotto il profilo strettamente cinematografico: nessuno in seno all’industria nazional-popolare ha mai sposato in modo così estremo i connotati del grottesco, del laido, del viscido. Mai il cinema italiano ha eretto statue a baluardi dell’ignominia come la galleria di personaggi che il film mette in fila, quasi si trattasse di una mostra d’arte contemporanea, un’installazione da padiglione della Biennale. Il ricorso sistemico al micro-metraggio (non dura neanche venti minuti il segmento più lungo del film, lo strepitoso La nobile arte in cui Ugo Tognazzi interpreta lo squattrinato organizzatore di incontri pugilistici che tenta di riportare sul ring Artemio Altidori, boxeur ultra-suonato che ripete incessantemente “Bordignon mena”, riferendosi al campione del momento che dovrebbe affrontare in uno scontro evidentemente impari) permette di bombardare il pubblico con un campionario di bestialità pressoché infinito: c’è quello che impartisce lezioni di evasione delle leggi al figlioletto – e si troverà ucciso e derubato dal pargolo appena questi crescerà –, il tizio che sfrutta la cecità del fratello, il padre di famiglia numerosissima che scippa di fatto i soldi che servirebbero a comprare il latte per una delle creature con la febbre per andare allo stadio a tifare sguaiatamente la Roma, la presidentessa di un importante premio letterario (palese ironia sullo Strega) che smuove i voti a uso e consumo del libro del ragazzotto illetterato che si sta portando a letto. Solo per fare degli esempi. Dall’alta borghesia alle forze dell’ordine, dal sottoproletariato al piccolo-borghese che compra l’automobile a suon di cambiali solo per poter andare a rimorchiare prostitute, I mostri è un fermo immagine impietoso, che non salva nessuno e non difende aprioristicamente nessuna categoria. Lo stesso mondo del cinema, come insegna il segmento Presa dalla vita (dove una povera vecchietta è rapita dai responsabili del casting di un film solo per poter essere gettata in una piscina nel bel mezzo di una sequenza, senza che il regista si preoccupi minimamente di chi sia o delle sue volontà), è attaccato con il solito risolino amaro, fragoroso e dirompente, ma amaro.

Ciò detto I mostri è una delle commedie più divertenti che sia possibile rintracciare non solo all’interno della cinematografia italiana. Costruito interamente sulla mattanza attoriale di Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman – che, in barba alle discussioni odierne su blackface, rispetto dell’origine e rappresentazione del genere – interpretano tutto e il contrario di tutto, impegnati ciascuno in una ventina di ruoli differenti, I mostri è il film più sadico, lo sberleffo più crudele mai messo in pratica da Dino Risi; nell’Italia placida e grassoccia del boom economico questi venti episodi irrompevano come una bomba a mano, la deflagrazione in grado di mettere a soqquadro il palchetto borghese, e le sue infinite ipocrisie. Oggi raffigurano la libertà concettuale e politica di un cinema mai ammansito, né alla ricerca del facile consenso, ma sempre pronto a rischiare la propria credibilità, e a bacchettare in forma mai moralista i vizi e le ben poche virtù dell’Italia moderna. Non è un caso che alla sceneggiatura abbiano collaborato tanto Age e Scarpelli quanto Maccari e Scola (coppie inossidabili, che agiranno dallo spaghetti-western al cinema di Antonio Pietrangeli), per arrivare addirittura a Elio Petri, che sempre nel 1963 diresse Il maestro di Vigevano, acuta e amarissima riflessione sulle classi, sul ceto, sull’appartenenza al salotto intellettuale, e sulla mediocrità borghese.

Info
Presa dalla vita, uno degli episodi de I mostri.

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