C’est Paris aussi
di Lech Kowalski
Presentato nel concorso francese del 31° FID Marseille, C’est Paris aussi è l’ultima opera di Lech Kowalski, radicale come nel suo stile, che si fonda sul confronto di marginalità di personaggi apolidi, un nativo americano che incontra gli immigrati dei sobborghi parigini. La rielaborazione del regista di un classico cinematografico come Un americano a Parigi.
Un nativo americano a Parigi
Ken Metoxen è un nativo americano, di 55 anni, che vive in una riserva indiana nel nord degli Stati Uniti; porta un berretto da baseball con la scritta “Native pride”. Esaudisce il suo sogno di visitare Parigi, la ville-lumière, ma si trova di fronte a qualcosa di diverso. Passeggia nei sobborghi poveri della capitale francese, dove incontra migranti da tutto il mondo, persone senza fissa dimora che dormono in materassi ammassati sotto i ponti. Profughi dall’Afghanistan che raccontano torture e sevizie dei Talebani a un uomo che discende da un’etnia che è stata vittima di un genocidio. [sinossi]
Un cinema rigoroso, militante, dalla parte degli ultimi, come quello di Lech Kowalski, un cinema dove possiamo trovare una lucida e chiara rispondenza al noto principio godardiano sulla posizione della macchina da presa come atto morale, e politico. Ne è un esempio quella celebre scena del suo penultimo film, On va tout péter, della soggettiva di quando viene trascinato via dalle forze dell’ordine. E il punto di vista è fondamentale anche in C’est Paris aussi, l’ultimo lavoro del filmmaker, presentato nel concorso francese del 31° FID Marseille. Protagonista è Ken, un nativo americano a Parigi che viene in contatto con le persone più marginali della capitale francese, gli immigranti da paesi di grande sofferenza, come l’Afghanistan, che non hanno fissa dimora, dormono in materassi accatastati sotto i ponti dei cavalcavia, esistenze fragili e precarie che possono evaporare da un giorno all’altro, sparire senza lasciare traccia. La macchina da presa di Kowalski in questo film è sempre con il fiato sul collo di Ken, non lo lascia mai, esplora lo spazio, il territorio insieme a lui, si muove compulsivamente con macchina a mano, a volte scrutando a trecentosessanta gradi, a volte posizionandosi in basso, rispetto ai personaggi. Quello che l’occhio di Kowalski ci fa vedere è solo quello che vede Ken. Ciononostante lo sguardo non è mai una soggettiva, in questo Kowalski è preciso e rigoroso, la figura di Ken compare sempre nel quadro e, anzi, c’è un momento verso la fine in cui il regista sembra voler fare una soggettiva, del protagonista che sta salendo su un autobus, ma smentendosi appena questi entra nel quadro. Kowalski accompagna Ken, come un aletr ego, prova per lui la stessa empatia che lui instaura con gli immigrati che incontra, quella linea comune che riguarda la condizione di apolide. E alla fine la ricerca del pugile afghano, scomparso senza lasciare traccia come può succedere a queste personalità tendenti all’evanescenza, genera anche un movimento a vuoto, a briglie sciolte, compulsivo, della mdp.
La Parigi di C’est Paris aussi è la periferia anonima, degradata, non c’è niente di riconoscibile a parte il Sacré-Cœur che si vede sullo sfondo ma lontano, molto lontano. I personaggi marginali che Ken vede sono spesso intenti a scavalcare, oltrepassare muri, transenne, cancelli, elementi divisori. Sono quelle barriere imposte da una società ordinata e perbenista, che incanalano i flussi delle persone. Barriere che questi personaggi, che non sono riconosciuti, non hanno spazi, non possono a loro volta riconoscere muovendosi nella città. La boxe torna spesso, accomuna alcuni dei personaggi incontrati e lo stesso Ken rivela che il padre l’aveva praticata. Lo sport che rappresenta un riscatto, anche per la comunità afroamericana, che nasce dall’energia interna di lottare da parte di persone marginalizzate, come una sublimazione istituzionalizzata di ciò che queste fanno nella vita,, un canale per uscire dalla posizione di subalternità. Ken scopre la loro generosità istintiva, quando si aiutano tra di loro come si vede nella scena della distribuzione delle baguette. Kowalski non lesina a restituire immagini crude come quella che esibisce il profugo afghano dal suo cellulare. Mostra il cugino torturato a morte dai Talebani, che un altro immigrato definiva come totalmente estranei al vero Islam. Vediamo questa scena della tortura come in loop, nel riquadro interno dello schermo del cellulare, che quasi coincide con l’inquadratura. Kowalski torna ancora una volta alle sofferenze di quel popolo, dopo Camera Gun e Charlie Chaplin in Kabul. Ed è la chiusura del cerchio per Ken, il cui popolo è stato oggetto di genocidio, Ken che si ostina a rimarcare la differenza tra America e Stati Uniti. Ken che viene presentato all’inizio, senza alcun didascalismo, dal suo berretto, che indossa sempre, raffigurante un aquila e con la scritta “Native pride”. Ken che appartiene anche a un’altra categoria spesso discriminata, quella delle persone omosessuali, come viene rivelato nell’ultima scena di C’est Paris aussi, che funziona come un momento di cinema musicale, stridendo con tutto il resto del film, e il suo coming out, l’altro suo ‘pride’.
Info
La scheda di C’est Paris aussi sul sito del FID Marseille
- Genere: documentario
- Titolo originale: C’est Paris aussi
- Paese/Anno: Francia | 2020
- Regia: Lech Kowalski
- Montaggio: Lech Kowalski
- Interpreti: Ken Metoxen
- Produzione: Revolt Cinema
- Durata: 58'