Venezia 2020 – Minuto per minuto
La Mostra di Venezia 2020 non assomiglierà a nessun’altra, anche se avremmo fatto volentieri a meno di questa unicità. Come che sia non è un buon motivo per rinunciare al Minuto per minuto, cronaca festivaliera dal Lido con aggiornamenti quotidiani, a qualsiasi ora del giorno. Più o meno… Dal primo all’ultimo giorno, tra proiezioni stampa, prenotazione dei biglietti, film, mascherine, distanziamento sociale, colpi di fulmine e delusioni lancinanti.
Concorso, Fuori Concorso, Orizzonti, Settimana della Critica, Giornate degli Autori. Anche in quest’anno così particolare cercheremo di raccontarvi le giornate alla Mostra del Cinema di Venezia 2020, in corso dal 2 al 12 settembre. Buona lettura.
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Sabato 12 settembre 2020
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22.20
Ecco il palmares di Venezia 2020, anno uno dell’era Covid, ha detto qualcuno, ma anche se sembra che tutto sia andato per il meglio, ci auguriamo che quest’era non abbia seguito.
Leone d’oro: Nomadland di Chloe Zhao
Gran Premio della Giuria: Michel Franco per Nuevo orden
Leone d’argento per la miglior regia: Kiyoshi Kurosawa per Wife of a Spy
Coppa Volpi per la miglior attrice: Vanessa Kirby per Pieces of a woman di Kornél Mundruczó
Coppa Volpi per il miglior attore: Piefrancesco Favino per Padrenostro di Claudio Noce
Premio migliore sceneggiatura: The Disciple di Chaitanya Taimane
Premio Speciale della Giuria: Dear Comrades! Di Andrej Končalovskij
Premio Marcello Mastroianni: Rohuholla Zhamani per Sun Children di Majid Majidi
Premio Orizzonti per il miglior film: The Wasteland di Ahmad Bahrami
Premio Orizzonti per la migliore regia: Lav Diaz per Genus Pan
Premio Speciale della Giuria Orizzonti: Listen di Ana Rocha de Sousa
Premio Orizzonti per la migliore attrice: Khansa Batma per Zanka Contact di Ismaël El Iraki
Premio Orizzonti per il miglior attore: Yahya Mahayni per The Man Who Sold His Skin di Kaouther Ben Hania
Premio Orizzonti per la miglior sceneggiatura: Pietro Castellitto per I Predatori
Premio Orizzonti per il miglior cortometraggio: Entre tú y milagros di Mariana Saffon
Premio Venezia Opera Prima Luigi De Laurentiis: Listen di Ana Rocha de Sousa
Gran Premio della Giuria per la Migliore Opera VR Immersiva: The Hangman at Home – An Immersive Single User Experience di Michelle e Uri Kranot
Premio Migliore Esperienza VR Immersiva: Finding Pandora X di Kiira Benzing
Premio Migliore Storia VR Immersiva: Sha si da Ming Xing (Killing a Superstar) di Fan Fan
Si chiude così il Minuto per minuto 2020 di Quinlan.it, alla prossima edizione, rigorosamente e auspicabilmente in presenza, della Mostra del Cinema di Venezia. [d.p.]
21.02
Nel 2018 era passato sostanzialmente sotto silenzio Il testimone invisibile, un thriller di Stefano Mordini con non pochi difetti, ma con una struttura narrativa molto interessante, capace di ribaltare continuamente la prospettiva. Mordini prova a replicare un po’ quel gioco nel suo nuovo film, Lasciami andare, spostando la dinamica su di un piano affettivo e melodrammatico. Ma il risultato è disastroso per questo film scelto come evento di chiusura della 77esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Gli attori in scena, da Stefano Accorsi a Maya Sansa a Serena Rossi a Valeria Golino, sono costretti a stare dentro a personaggi confusi, schizofrenici, malamente caratterizzati, e forse per la prima volta la Golino stessa ci è parsa veramente in difficoltà a recitare una parte poco sostenibile. Questa vicenda di un bambino morto che forse è tornato, muovendosi tra i riflessi dall’acqua della laguna – il film è totalmente ambientato a Venezia e dunque la selezione qui al Lido deve essere parsa inevitabile -, non diventa mai credibile, nemmeno nelle faccende più elementari, come ad esempio quando si ricostruisce in flashback il tragico incidente in cui incorse il piccolo, una dinamica tanto assurda da cadere – purtroppo – nel ridicolo involontario. Peccato perché poteva essere l’occasione per rinverdire le atmosfere inquiete di Venezia… un dicembre rosso shocking. [a.a.]
15.22
Dopo aver presentato i suoi due primi lungometraggi a Cannes (Songs My Brothers Taught Me e The Rider), la regista cinese Chloé Zhao, ormai da tempo naturalizzata americana, si affaccia con Nomadland per la prima volta al Lido, direttamente nel concorso principale, dove viene data per favorita per il Leone d’Oro, forte anche di una produzione decisamente più strutturata rispetto ai suoi precedenti film e grazie alla magnifica presenza come protagonista di Frances McDormand. Ma non basta, perché Zhao ricade nei suoi – ormai – consueti pregi e limiti: trova un argomento sempre interessante (quegli americani che non hanno più una casa e, come delle tartarughe, si spostano e vivono nei loro van), un argomento che è sempre legato alla mitologica classica statunitense (con la Grande Depressione molti americani vivevano nelle loro macchine, riscoprendo il nomadismo dei pionieri), mischia la realtà con la finzione (attori non professionisti, davvero nomadi, accanto alla McDormand), ma poi disperde tutto non sapendo gestire narrazione e montaggio del suo film. Stavolta va anche peggio di The Rider, dove almeno c’era un potente elemento di fisicità, qui invece seguiamo la protagonista che incontra persone come lei, scambia dialoghi inutili e non vive mai davvero la solitudine esistenziale, se non con soluzioni ovvie e da cartolina, come quella in cui la vediamo abbracciare alberi millenari, opposti a lei per la loro connaturata stanzialità. [a.a.]
12.30
Il documentario Paolo Conte, via con me – diretto da Giorgio Verdelli e presentato fuori concorso – va annoverato tra le cose più brutte che si siano viste a questa edizione della Mostra. Sia chiaro, amiamo visceralmente Paolo Conte ed è apprezzabile tutto il repertorio messo nel film, dai concerti ai siparietti d’epoca con Benigni, e così via; ma quello che è veramente insostenibile è la sciatteria con cui Giorgio Verdelli approccia il materiale girato da lui: quel drone che parte da Asti e volteggia incerto grida vendetta, oltre ad essere totalmente ingiustificato; quelle ricostruzioni finzionali sono incredibilmente grossolane, a partire dalle immagini di una vera topolino amaranto che ricorre per tutto il film e serve a celebrare in maniera elementare una delle canzoni più note di Conte. Le stesse interviste realizzate per l’occasione risultano stucchevoli, a partire da quella a Benigni che a tratti sproloquia incontrollato senza dire nulla, a tratti addirittura legge il testo da un gobbo fuori campo; si salva in tale contesto solo l’intervista concessa proprio da Conte. E persino le riprese di due dei concerti più recenti del Nostro, uno nel 2019 e uno nel 2020, riprese fatte espressamente per il film, sono fatte male, con un montaggio continuamente maldestro. Poi, all’improvviso uno dei brani di repertorio ci dà l’illuminazione: Celentano che canta Azzurro con una coreografia meravigliosa, con pochi elementi in scena ma tutti geniali. Che fine ha fatto quella competenza e genialità che avevamo un tempo, che avevano i registi e gli scenografi e gli autori di testi di un tempo? Perché Verdelli non ha imparato nulla, vedendo questi brani di repertorio? L’abisso che corre tra il nostro presente e il nostro passato, qui involontariamente persino incarnato da quel che era Benigni un tempo e quel che è diventato ora, ci dovrebbe far riflettere sul fatto che nel nostro paese qualcosa negli ultimi trent’anni non è andato per il verso giusto. [a.a.]
Venerdì 11 settembre 2020
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17.05
Selezionato fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2020, Run Hide Fight è uno school shooting drama che guarda esclusivamente al lato spettacolare e mainstream, sovraccarica storia e personaggi di un’inutile sovrastruttura narrativa e si affida a una retorica politico-morale circolare e reazionaria. Un prodottino medio, anzi mediocre, alle prese con un tema fin troppo delicato. Incomprensibile la presenza al Lido. [e.a.]
16.47
Ieri sera in concorso è stato presentato Nuevo orden, film del messicano Michel Franco che racconta la possibile scaturigine di una ditturatura militare. Il film parte bene, con una sequenza di matrimonio costruita ad arte e che ben racconta il concetto di diseguaglianza sociale, ma poi si perde in una confusione politica, ideologica e strutturale forse anche cercata ma che non agevola una visione che si fa sempre più faticosa, per arrivare a soluzioni forse fin troppo facili. In ogni caso apprezzabile la qualità della messa in scena di Franco. Potrebbe piacere alla giuria. [r.m.]
16.38
Lav Diaz torna al Lido e porta con sé un’opera che per i solito buontemponi che non “perdonano” al regista filippino le sue digressioni fluviali è considerato un “cortometraggio”. In due ore e mezza o poco più Genus Pan regala una volta di più la poetica critallina di Diaz, con una riflessione sul contrasto tra morale e istinto belluino che si allarga a letture teoriche sul punto di vista e sul potere del racconto. In concorso in Orizzonti, sezione che Diaz vinse nel 2008 – sotto l’egida di Marco Müller – con Melancholia. [r.m.]
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Giovedì 10 settembre 2020
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22.30
Ci sono gli sport estremi e poi c’è la cinefilia estrema, noi presenti al Festival di Venezia 2020 non ne siamo del tutto esenti, ma quella che caratterizza il protagonista di Yellow Cat (Zhltaya koshka) di Adilkhan Yerzhanov, è tutt’altra cosa. Kermek, questo è il nome dell’eroe del film, è appena uscito di prigione e ha un sogno: costruire un cinema nella steppa kazaka, per omaggiare il suo mito, l’Alain Delon/Frank Costello del film di Melville Le samouraï (Frank Costello faccia d’angelo, in italiano). Ma un gangster locale ha ben altri piani per lui. Tra citazioni cinematografiche (oltre al film di Melville sono omaggiati anche Casinò e Taxi Driver di Scorsese), malavita grottesca e una storia d’amore on the road (tra Kermek e la prostituta borderline Eva), Yellow Cat racconta di un’umanità ai margini in un contesto natural-paesaggistico mozzafiato, consegnandoci un tenero e romantico idillio, prevalentemente devoto alla settima arte. In Orizzonti a Venezia 2020. [d.p.]
11.42
Dissepolto dagli archivi della Cineteca di Bologna, e perfetto omaggio per il centenario della nascita di Tonino Guerra e Federico Fellini, Il lungo viaggio di Andreij Khrzhanovskij è stato proiettato questo pomeriggio in Sala Giardino. Commovente, onirico, davvero una piccola sorpresa. A precedere la proiezione erano stati annunciati i videomessaggi di due dei registi ancora in vita che avevano collaborato con Guerra: quello di Giuseppe Tornatore è arrivato, quello di Wim Wenders, tra un po’ d’imbarazzo generale, no… [d.d.e.]
11.38
Film storico e spy story per Kurosawa Kiyoshi che con Wife of a Spy mette il dito nella piaga in uno dei momenti più ignobili della storia del Giappone, gli anni ’40, parlando dei crimini contro l’umanità dell’esercito imperiale in Manciuria, un argomento ancora tabù. Ma rievoca anche la bellezza del cinema di quegli anni, citando Kenji Mizoguchi e Sadao Ymanaka che perse la vita proprio in Manciuria. Il cinema horror di Kurosawa contempla l’orrore vero della storia, ma con il ruolo salvifico della settima arte. [g.r.]
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Mercoledì 9 settembre 2020
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17.17
Ann Hui con Love After Love racconta una storia di passioni e relazioni pericolose in una società aristocratica nella Hong Kong negli anni precedenti la Seconda guerra mondiale. Tra vasi di porcellana e partite di majong tornano i temi della regista, il meticciato, il cosmopolitismo, ma il tutto si riduce a un calligrafismo di maniera cui la regista sembra ormai essersi consegnata. Da un romanzo di Eileen Chang, scrittrice da cui è facile realizzare storie torbide in un contesto storico (come Lussuria – Seduzione e tradimento di Ang Lee), fotografia di Christopher Doyle, musica di Ryuichi Sakamoto, ma poter radunare i più grandi talenti non basta. [g.r.]
16.02
In un mondo a sé stante rutilante e ossessivo come quello della Mostra si finisce sempre per dimenticarsi di citare i cortometraggi selezionati all’interno di SIC@SIC, la sezione della Settimana della Critica dedicata ai lavori sulla breve distanza. Per cercare di tappare parzialmente questo buco è giusto soffermarsi su J’ador, il film breve con cui torna alla Mostra (e sempre alla SIC) il ventiseienne abbruzzese Simone Bozzelli, già in concorso nella sezione un anno fa con l’ottimo Amateur. J’ador in questo senso è una brillante conferma del talento di Bozzelli, che in quindici minuti riesce a condensare le ansie e i desideri repressi di un’adolescenza affascinata dal culto del potere fascistoide senza perdersi in alcun modo in stereotipi. Grande capacità nello gestire gli spazi e i tempi della narrazione, e un protagonista – Claudio Segaluscio – particolarmente azzeccato. [r.m.]
15.53
In una Mostra finora dominata dal bel tempo, con giornate che accompagnano dolcemente le persone alla fine dell’estate, non è comunque mancato il giorno di pioggia, ovviamente trasformatosi in un diluvio vero e proprio. Al di là dell’umidità, e di qualche colpo di tosse in più in sala – che nell’epoca Covid fa lanciare occhiatacce a destra e a manca – il risultato più plateale è stata la constatazione che nel palazzo del Casinò, come oramai capita da almeno vent’anni a questa parte, l’acqua filtra dal soffitto. Quindi no, quella che trovate qui sotto non è un’installazione artistica della Biennale. [r.m.]
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Martedì 8 settembre 2020
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19.05
HOPPER/WELLES non è tecnicamente un film, quanto un preziosissimo documento che ci svela altri dettagli della lavorazione di The Other Side of the Wind e ci dà degli indizi sul metodo di lavorazione usato da Welles per quel film, in buona parte basato sull’improvvisazione, in particolare nella lunga sequenza della festa di compleanno di Jake Hannaford, il personaggio del vecchio regista interpretato da John Huston in The Other Side. In pratica, Welles – sempre fuoricampo, fingendo di essere proprio Hannaford – interpella Dennis Hopper – sempre in campo – per circa due ore, cercando di farlo arrabbiare e alla fine attaccandolo per le sue ritrosie e per ciò che rappresenta in quanto alfiere della New Hollywood (Hopper veniva dal successo clamoroso di Easy Rider). Dunque HOPPER/WELLES ci permette di approfondire il discorso, già centrale in The Other Side of the Wind, del confronto tra la vecchia generazione di registi americani e la nuova, dove quest’ultima esce totalmente perdente. [a.a.]
18.05
Tra le mille parole e gli snodi narrativi di Dorogie Tovarischi! (Cari compagni!) si apre un abisso incolmabile, annichilente, tragico: è la distanza siderale tra gli ideali di milioni di persone, che per la Patria e il Partito hanno sacrificato tutto, e il sanguinoso fallimento del comunismo sovietico, il tradimento degli uomini di potere, dei vertici. In un bianco e nero che trova una struggente sublimazione nella sequenza finale, Končalovskij torna sui fatti oscuri di Novocherkassk e riesce a districarsi con estrema sagacia dalle pastoie della pellicola governativa, facendoci (quasi) dimenticare le concessioni di Paradise. Tributo alla generazione dei suoi genitori e a una purezza perduta, Dorogie Tovarischi! è anche una possibile chiave di lettura del suo cinema, di una carriera ha attraversato più di una tempesta. [e.a.]
17.08
Recuperi del concorso: Śniegu już nigdy nie będzie, vale a dire Never Gonna Snow Again, è l’ottavo lungometraggio diretto in vent’anni di carriera dalla quarantasettenne polacca Małgorzata Szumowska, qui coadiuvata dietro la macchina da presa dal fedele sodale Michał Englert, suo direttore della fotografia e sovente co-sceneggiatore. Il film è il ritratto, tra il metaforico e il fantastico, del crollo che attende la Polonia, prossima alla crescita allo zero per cento del PIL. La crisi è narrata attraverso il personaggio di un giovane massaggiatore nativo di Pryp”jat’, la città oramai fantasma che sorgeva alle porte della centrale nucleare di Chernobyl, che arriva in una zona residenziale e benestante di Varsavia per prestare i suoi servigi. Forse Szumowska ed Englert guardavano a Teorema, o forse a Edward mani di forbice: fatto sta che il film, nonostante la potenza delle immagini, non sa trovare una propria strada solida, e finisce per perdersi dietro reiterazioni eccessive. Bravissimo, in ogni caso, il protagonista Oleh Yutgof, che forse qualcuno ricorderà nella terza stagione di Stranger Things. [r.m.]
16.50
Shahram Mokri, quarantaduenne cineasta iraniano, torna alla Mostra di Venezia con il suo quarto lungometraggio a sette anni di distanza da Fish & Cat (con cui vinse un premio speciale della giuria di Orizzonti). Sempre in Orizzonti è Careless Crime, vertiginoso avvitamento del tempo su se stesso, riflessione sul cinema come momento senza tempo, in cui tutto è un circuito chiuso dal quale non si può mai veramente uscire. Ma Careless Crime è anche un viaggio nelle similitudini tra l’Iran odierno e quello della Enqelāb, la rivoluzione islamica del 1979 che cacciò lo scià sostituendolo con la Repubblica capitanata dall’ayatollah Ruhollah Khomeyni. Careless Crime è mille film in un film, un gioco di prestigio, un trucco che lascia sbalorditi e che conferma il talento cristallino di Mokri. [r.m.]
15.20
Torna in concorso a Venezia (il precedente film, A Tramway in Jerusalem, era fuori competizione) l’israeliano Amos Gitai con Laila in Haifa, nuovo tassello di una filmografia dedicata alle contraddizioni, ingiustizie, violenze, inquietudini del proprio paese. Questa volta i conflitti implodono/esplodono all’interno di un locale con annessa galleria d’arte sito in Haifa e animato da una varia umanità. Composto prevalentemente da scene di dialogo – se si eccettua il piano sequenza iniziale – Laila in Haifa disserta di arte e politica (e di arte politica), di convivenza, di storia, di amori infelici, di reciproco sfruttamento. Il tutto è declinato in una coralità di personaggi, i cui discorsi però non sempre riescono a dare il giusto respiro alle roventi questioni in gioco. [d.p.]
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Lunedì 7 settembre 2020
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18.15
È Vanessa Kirby una delle notizie liete di Venezia 2020 – non una sorpresa, semmai una felice conferma. Dopo la performance fisica in Pieces of a Woman di Kornél Mundruczó, la ritroviamo in The World to Come di Mona Fastvold. Due film in concorso, magari un premio ci casca. Perfetta per illuminare l’opera seconda della Fastvold, l’attrice britannica è l’usignolo in gabbia di un racconto che guarda al passato per fissare più di un punto fermo sul presente. The World to Come è una pellicola sussurrata, ambiziosa, idealmente legata ad altri fertili percorsi al femminile come Miss Marx e Ghosts. Quasi un trittico. [e.a.]
14.15
A otto anni da Bellas mariposas torna finalmente a riuscire a dirigere un lungometraggio Salvatore Mereu, figura appartata ma preziosa del nostro cinema. Assandira, che avrebbe meritato il concorso principale e invece è stato presentato fuori concorso, è la storia di un uomo – interpretato da un magnifico Gavino Ledda, quello stesso di Padre padrone -, un uomo roso dai sensi di colpa per come ha tradito le sue origini e la sua natura, quella di pastore che si è messo al servizio del figlio e della sua compagna tedesca per fare una sorta di reenactment dell’antica vita sarda a favore di turisti stranieri. Giocato come un noir di campagna, dagli echi sciasciani, con flashback che rivelano man mano la realtà dei fatti, Assandira soffre forse di un’eccessiva lunghezza, ma comunque ha una forza visiva invidiabile, oltre a proporre un discorso dolente e azzeccato su come il consumismo snatura tutto. Non è certo un discorso nuovo, ma è un nuovo e diverso sguardo che si inserisce in un solco tracciato a suo tempo da Pasolini, un solco su cui si muoveva lo stesso Padre padrone dei Taviani o, in tempi più recenti, Lazzaro felice della Rohrwacher e in quella descrizione crudele del finto mondo contadino. [a.a.]
14.01
Al Lido per ricevere il premio Jaeger-LeCoultre “Glory to the Filmaker”, Abel Ferrara ha presentato il suo nuovo film Sportin’ Life, un compendio ragionato sul suo essere “filmaker”, per l’appunto, ma anche musicista, compagno di vita, padre, interprete del nostro tempo. Rigorosamente low fi e girato in buona parte con lo smartphone, il film accorpa riprese realizzate durante la Berlinale 2020 – l’ultimo festival cinematografico prima della pandemia – in occasione della presentazione del suo film Siberia a spezzoni di suoi film precedenti, riprese di concerti, vita domestica, immagini di Roma e New York durante il lockdown. Meno coeso di altre sue recenti opere di stampo autobiografico/autoriflessivo (Alive in France su tutte), Sportin’ Life è in ogni caso il compendio ragionato e naturalmente disordinato di una mente brillante che pensa, esclusivamente e appassionatamente, attraverso il (suo) cinema. [d.p.]
13.54
Presentato al pubblico delle Giornate degli Autori questa mattina Conference, il quarto lungometraggio del trentaduenne moscovita Ivan I. Tverdovsky: un’opera che si confronta con la ferita ancora sanguinante – a quasi diciotto anni di distanza – della strage nel teatro della zona Dubrovka. Nonostante il regista scelga un percorso periglioso nel quale traballa in più di un’occasione, riesce a rimanere sempre in piedi. E, vista la materia, è già tanto. [e.b.]
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Domenica 6 settembre 2020
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18.52
In concorso alla Settimana della Critica era il giorno del film italiano, Non odiare di Mauro Mancini. Girato a Trieste, Non odiare è il racconto di un chirurgo ebreo che dopo un incidente automobilistico di cui è testimone oculare non soccorre il moribondo perché pieno di tatuaggi con svastiche o inneggianti alle SS. Il senso di colpa lo porta però ad avvicinarsi ai tre figli del defunto, al punto da assumere come domestica la più grande. Mancini gira con ispirazione a corrente alternata, ma dimostra di saper fare cinema e di essere interessato a un racconto non necessariamente edulcorato o semplificato. Dispiace che il finale sia depotenziato rispetto al crescendo, e alcune soluzioni lasciano dei dubbi, ma nel complesso si tratta di un’opera prima non priva di alcuni pregi. Interessante il corto Where the Leaves Fall del sino-italiano Xin Alessandro Zheng, storia di una ricomposizione familiare tra un ragazzo italiano che non vede la Cina come una sua patria e il nonno che ancora vive nella cittadina d’origine: il cortometraggio sembra in tutto e per tutto prodromico a un lavoro sulla lunga distanza. [r.m.]
18.41
Viene naturale chiedersi come sia possibile che un film come Khōrshīd (Sun Children) sia stato presentato in concorso alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Majid Majidi, oramai lontanissimo dagli esordi – e questo film sarebbe da mettere a paragone con I ragazzi del paradiso, che il regista girò nel 1997 -, firma senza ispirazione un racconto sul valore della scuola, sul disvalore della criminalità e sulla disillusione del crescere. Il tutto con un ricorso alla retorica dell’infanzia davvero insopportabile, e con uno stile che vorrebbe essere d’impatto (il primissimo piano del protagonista Ali in metropolitana) e al contempo occhieggia tanto a Dickens quanto ai Goonies, fallendo in tutte le direzioni. Film dell’Iran istituzionale, Sun Children è un racconto edulcorato per bambini e adolescenti che sarebbe stato accettabile in concorso al Giffoni, e non certo al Lido. [r.m.]
17.09
Strizzando l’occhio alle atmosfere del poliziesco francese anni ’90 (il 36 di Marchal) e al cinema hongkongese del medesimo decennio (il PTU di Johnny To), La troisiéme guerre di Giovanni Aloi pur non raggiungendo i livelli dei modelli di partenza, precipita lo spettatore in un’esplorazione delle tensioni umane e lavorative di una squadra di soldati, professionisti del controllo anti-terrorismo per le vie di Parigi. Al di là di qualche schematismo nella costruzione del côté familiare dei vari personaggi (il tenente è incinta, il giovane Leo ha i genitori alcolisti e beve a sua volta, il collega è un bullo) il film di Aloi trova gradualmente la sua strada, soprattutto quando volge verso il suo climax (un’azione dell’esercito durante una manifestazione), diretto e sceneggiato con mano ferma. Nulla di nuovo, ma comunque un solido e coinvolgente prodotto di genere. A Venezia 2020 in Orizzonti. [d.p.]
16.51
Presentato come evento speciale alle Giornate degli Autori, Das Neue Evangelium è la nuova opera per lo schermo dello scandaloso regista teatrale svizzero Milo Rau che usa il suo approccio detto di reenactment per contestualizzare ai giorni nostri la parabola di Cristo, che rinasce nel ruolo del sindacalista e scrittore camerunense Yvan Sagnet, fautore della ribellione dei braccianti contro l’abominevole pratica del caporalato. In un film che omaggia chiaramente Pasolini, tornando sui celebri sassi di Matera, e che ritrova nel cast proprio il Cristo de Il vangelo secondo Matteo, Enrique Irazoqui. [g.r.]
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Sabato 5 settembre 2020
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19.33
Il privato è politico nella Miss Marx di Susanna Nicchiarelli, presentato in Concorso alla Mostra di Venezia: seppellito l’importante padre, la figlia minore di Karl è una militante appassionata e intelligente che sceglie l’uomo sbagliato come compagno di vita. Un mélo puro su di una questione di cuore? Ovviamente no perché la vicenda privata di Eleanor Marx riflette sia il nuovo fronte di lotta contro l’oppressione maschile sulle donne sia e soprattutto la difficoltà di essere presenti a se stessi, coscienti e vigili, per poter compiere i cambiamenti e le rivoluzioni desiderate. Vivido, vivace, vitale, un po’ compilativo nel restituire lo “scenario” storico, Miss Marx è una scommessa ambiziosa anche a livello produttivo.
19.20
Una singolare storia vera, lo scontro tra popolo e potere virato in commedia, la consueta confezione inglese impreziosita da un cast eccellente – brilla fin troppo facilmente Jim Broadbent, mentre Helen Mirren serve per dare spessore alla moglie lasciata inevitabilmente in secondo piano, tra mugugni e silenzi. Andrebbe tutto benissimo, se non fosse che The Duke è il disarmante emblema del trentennale stallo di buona parte del cinema anglosassone, con variazioni sul tema a volte più che apprezzabili, a volte rapidamente dimenticabili. Cinema inerte, da pomeriggio domenicale. [e.a.]
19.01
Si stenta davvero a credere che possa esistere un film come Mainstream di Gia Coppola, nipote di Francis Ford ed ennesima erede della dinastia. Si stenta anche a credere che lo si sia preso in considerazione per una collocazione all’interno della Mostra: perché dal nonno al massimo la trentatreenne Coppola eredita una lettura (comunque spaesata) della società e delle sue distonie. Per il resto questo racconto di neo-idoli sociali è un accumulo di banalità, allestite le une accanto alle altre con uno stile sciatto, che fa ampio uso della meccanica dell’immagine su app e piattaforme (Facebook, Youtube ecc.), senza però comprenderne il senso, e senza mai saper scavare in profondità. E il finale con Andrew Garfield nei panni di uno pseudo-Joker lascia ancora più interdetti. [r.m.]
18.50
Diretto da Roderick MacKay e sostenuto da un cast impeccabile, The Furnace è un western dai riflessi storico-politici immerso nell’Outback. Stratificato e coinvolgente, il film di MacKay riporta a galla storie dimenticate dagli aussie e si prefigge il dichiarato obbiettivo di stimolare l’inclusività del popolo autraliano – in questo eastern gli eroi sono afghani, persiani, indù, sikh, aborigeni… Insomma, un’opera prima con parecchia carne al fuoco e la conferma che l’Australia è terreno fertile per il (morente, ma mai defunto) cinema western. [e.a.]
18.00
Non sarà impeccabile Shorta, opera prima di Anders Ølholm e Frederik Louis Hviid, ma intrattiene corposamente e offre più spunti di riflessione sulle forze dell’ordine, sul loro rapporto coi civili, col territorio, col dovere. Ritmo serrato, ottimi interpreti e un tema caldissimo. Presentato in concorso alla Settimana della Critica (SIC), speriamo di (ri)vederlo nelle sale italiane. [e.a.]
17.10
Nasce da un testo teatrale della compagna Kata Wéber, il primo film in terra americana dell’ungherese Kornél Mundruczó, già autore dei deprecabili White God e Una luna chiamata Europa. In concorso qui al Lido, Pieces of a Woman, questo il titolo del film, non cade in quelle assurdità che connotavano assiduamente i lavori di Mundruczó, ma risulta comunque ben poco convincente, tutto teso a dimostrare come vada a rotoli l’esistenza di una donna a pezzi dopo la perdita della figlia appena nata, una dimostrazione che però non diventa mai concreta e resta piuttosto sempre sul filo dell’inconsistenza, tanto che la protagonista esiste ben poco come personaggio, chiusa nei suoi silenzi e nei suoi dolori, incapace di parlare alle persone che le sono vicine come al pubblico. Ben più interessante è invece il personaggio del compagno di lei, un sempre meraviglioso Shia LaBeouf, anche lui però alla lunga tarpato dalla superficiale sceneggiatura di Kata Wéber, infarcita di monologhi mai veramente ficcanti. [a.a.]
15.40
Sonore risate e applausi a scena aperta hanno accompagnato la proiezione mattutina di Mandibules, nuova commedia surreale di Quentin Dupieux. Protagonisti sono due amici di vecchia data dall’intelletto poco convenzionale che trovano una mosca gigante nel portabagagli di un’auto rubata e decidono di addestrarla con l’obiettivo di diventare ricchissimi. Scateneranno una serie di esilaranti, demenziali, fantasiosi eventi, in grado di sovvertire ogni logica e dare un senso nuovo – se di senso si può parlare – al rapporto causa-effetto. Corroborante. [d.p.]
13.50
Presentato nella sezione Orizzonti, Milestone di Ivan Ayr è la storia di un maturo camionista tormentato dal maldischiena e dal rimorso legato al suicidio della moglie. Nel corso del suo percorso di elaborazione del lutto, affrontato per buona parte on the road, l’uomo dovrà risolvere una serie di pressanti questioni, tra le quali spicca il dover proporre un adeguato risarcimento ai familiari della defunta. Dolente e ben costruito dal punto di vista narrativo, Milestone riesce a declinare nei vari incontri umani in cui incorre il suo protagonista, la graduale presa di coscienza di un uomo ossessionato dal proprio lavoro e dal relativo guadagno, troppo distratto per prendersi cura sia degli altri che di se stesso. [d.p.]
10.46
A sei anni dal disastroso La foresta di ghiaccio, Claudio Noce torna al cinema con PADRENOSTRO, primo dei film italiani in concorso a questa edizione della Mostra. Rielaborando un doloroso fatto autobiografico, il ferimento del padre Alfonso da parte dei NAP (Nuclei Armati Proletari), avvenuto nel ’76, Noce mette in scena un lungo inseguimento/adorazione/preghiera/estasi di un figlio nei confronti del padre, interpretato da Favino, ma confonde molto i toni e le modalità di scrittura, spezzando il film in una prima parte romana fatta di fantasmi-non-fantasmi e di vedo-non-vedo e una seconda, ambientata in Calabria, più mitica e più solida, più concreta visivamente. Un film nettamente imperfetto, ma almeno Noce si è ripreso dal buco nero de La foresta di ghiaccio. E non era facile. [a.a.]
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Venerdì 4 settembre 2020
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17.53
La reazione di buona parte della stampa a The Disciple, presentato in concorso, è stata fredda, distante, un po’ annoiata e ben poco interessata. Peccato, e non solo perché il film di Chaitanya Tamhane è il primo indiano in concorso dai tempi di Monsoon Wedding di Mira Nair – che vinse un Leone d’Oro sicuramente immeritato -; Tamhane riesce nel difficile compito di raccontare un fallimento, e allo stesso tempo una musica arcaica, dalla struttura impercettibile eppur rigorosa come la classica indiana. I raga, tanto per essere chiari. Un’opera intima, avvolgente, che si muove su un tracciato volutamente ripetitivo per rendere ancora più forte la crisi del protagonista, un vero appassionato privo però del talento necessario per emergere. Una scelta coraggiosa, che riporta alla mente i concorsi dell’era mülleriana e che rischia, a quanto pare, di non essere compresa o apprezzata fino in fondo. [r.m.]
17.36
Il clima in sala, anche nelle proiezioni con ospiti presenti, è sempre molto anomalo quest’anno. Alla sala Perla, alle proiezioni della Settimana Internazionale della Critica, è facile ricordare in tempi recenti – che sembrano già lontanissimi, purtroppo – manifestazioni di giubilo da parte di crew e amici vari soprattutto per i corti italiani che ormai da tempo, sotto la guida di Giona A. Nazzaro, precedono i lunghi del concorso. E invece oggi la presentazione di Gas Station, diretto e interpretato da Olga Torrico (con una buona idea, ma in buona parte deludente), è stata molto sobria, quasi a bassa voce, nonostante il microfono. E ciò è dovuto senza dubbio a quest’atmosfera vagamente fredda e distante, anche se non davvero tesa. Ed è sicuramente difficile presentare un film, un qualsiasi film, per chi ha scelto di venire quest’anno al Lido, perché non si riesce a percepire con nettezza la reazione della sala. Anche una risata resta comunque attufata dentro alla mascherina. Ma l’applauso è poi esploso, vero e vigoroso, alla fine di Bad Roads, il film del concorso della Settimana della Critica, che ha seguito proprio il corto di Olga Torrico. Esordio della regista ucraina Natalya Vorozhbit, Bad Roads è un film che non si pone apertamente come condanna della guerra in corso nel Donbass, si prefigge piuttosto di mostrare la miseria dell’esistenza durante questa guerra. I quattro racconti che compongono il film – e in cui ciascun racconto rimanda all’altro grazie a una scrittura sapiente e abile – sono dotati di una lucidità graffiante, che diventa quasi sanguinante man mano che si va avanti. Sicuramente Bad Roads va già segnalato come uno dei migliori esordi dell’anno. [a.a.]
17.10
Il titolo fa esplicito riferimento all’epocale Hiroshima mon amour di Resnais, solo che in Gaza mon amour dei fratelli Nasser non c’è l’atomica, ma comunque una disastrata situazione politico-economica, quella di Gaza per l’appunto. I fratelli Nasser raccontano il loro paese-non-paese, che ha ormai solo cinque chilometri di mare navigabile, attraverso la vicenda di un pescatore innamorato che si ritrova a pescare una statua greca del dio Apollo, ispirandosi a una storia realmente accaduta nel 2013. Presentato in Orizzonti, Gaza mon amour è molto esile, piatto dal punto di vista registico e sconnesso da quello narrativo. Ma un po’ gli si vuole bene comunque, soprattutto per un finale iper-romantico che lascia sgorgare qualche lacrimuccia. Sempre ben nascosta dalle mascherine, però. [a.a.]
12.00
Che l’annata sia particolare lo si avverte quando, la mattina, si evita una delle proiezioni principali (quelle che si svolgono in Darsena e Sala Grande) e ci si avventura nell’area degli stand dove si trovano caffè – cattivi – e panini – costosi – o si sale in sala stampa. L’umanità in questi luoghi si fa davvero sporadica, e il brulicare di gente a cui si era abituati è sostituito da un silenzio pacificante e inquientante a un tempo. Per rendere ancora più desertica l’impressione la sala stampa è stata poi svuotata di qualsiasi oggetto, eccezion fatta per tavoli e sedie. Quando ieri, dopo i computer fissi, gli schermi che rimandavano le immagini delle conferenze stampa, l’acqua (assenza però fissa da anni, purtroppo), è venuto meno perfino il wifi il senso di apocalisse – ancora rimandata – si è fatto palpabile. Per fortuna ci sono ancora i film in sala. [r.m.]
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Giovedì 3 settembre 2020
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19.55
In concorso a Venezia 77, Amants è il nuovo melodramma al femminile di Nicole Garcia che, dopo il decisamente poco riuscito Mal di pietre, abbandona le ambientazioni storiche in costume per trasportare il suo abituale intreccio di amori e tradimenti ai tempi moderni, con risultati meno risibili, ma comunque poco convincenti. E il problema risiede forse qui anche nel tratteggio della sua protagonista, una giovane donna (Stacy Martin) senza arte né parte, ma di grande bellezza. Per lei, oggi come un tempo, il destino è deciso dagli uomini con cui divide il letto. Priva di autodeterminazione, questa eroina di stampo romanzesco si accompagna dapprima a uno spacciatore poi, quando questi l’abbandona, a un ricco assicuratore. Ma mentre è in Oceania, ritrova lo spacciatore, riprende la relazione, quindi si sposta a Ginevra, mantiene l’amante, vuole eliminare l’ingombrante marito. Nulla di nuovo dunque e Amants magari scorre anche rapido, al seguito di questa sorta di globetrotter dell’amor carnale, ma di fatto non riesce a interessarci mai veramente e quando volge verso il finale diventa palese che non ha (più) nulla da dire. [d.p.]
17.33
È il carrello laterale, declinato in un notevole ventaglio di possibilità espressive, l’elemento linguistico prescelto dall’iraniano Ahmad Bahrami per lasciarci gradualmente entrare nel paesaggio desertico e polveroso di The Wasteland (Dashte Khamoush) e nel microcosmo umano che lo abita. Girato in bianco e nero e in 4:3, il film, presentato oggi in Orizzonti, è completamente ambientato in una fabbrica di mattoni in procinto di chiudere i battenti e dove convivono e lavorano famiglie di etnie diverse. Ognuno ha qualcosa da chiedere (prevalentemente denaro) al “munifico” padrone, il quale, ascolta richieste e pettegolezzi, promettendo costantemente di risolvere i problemi grazie alle sue “amicizie importanti” di città. Amori contrastati, abitudini etniche divergenti, desideri inespressi, tutto viene continuamente ricondotto al fatidico momento del discorso di chiusura della fabbrica, punto di non ritorno o forse di ripartenza per personaggi sospesi tra l’inquietudine e la rassegnazione. [d.p.]
17.12
Il primo film presentato ufficialmente in concorso è stato Quo Vadis, Aida?, con cui la bosniaca Jasmila Žbanic torna alla regia di un lungometraggio a distanza di sei anni dalla commedia amorosa Love Island. Qui il tono si fa decisamente più cupo, e non potrebbe essere altrimenti visto che l’argomento attorno al quale ruota il film è la strage di Srebrenica, dove oltre ottomila civili vennero massacrati dall’esercito serbo. Un lavoro rischioso, ma nel quale la regista riesce a dimostrare tutte le sue qualità, sia nella tenuta del racconto che nella capacità di evitare tutte le trappole della retorica, e della spettacolarizzazione della tragedia. Splendida protagonista è Jasna Đuričić. Un film che può senza dubbio competere nella corsa al Leone d’Oro. [e.b.]
16.45
Non si è mai posto limiti il cinema scritto e/o diretto da Park Hoon-jung, autore mainstream che modella action/noir/thriller fin dai tempi degli script di I Saw the Devil (2010) e The Unjust (2010). Con Night in Paradise, fuori concorso a Venezia 2020, Park mescola gangster movie e melodramma, in un crescendo coinvolgente di coltellate e piombo – si spara parecchio, senza misura, cosa insolita nella filmografia sudcoreana, più propensa alle armi bianche. Ottimi i due protagonisti Tae-gu (Uhm Tae-goo) e Jae-yeon (Jeon Yeo-been), affascinante l’isola di Jeju, paesaggio/personaggio in bilico tra paradiso e inferno. Non siamo ai livelli di New World, ma merita un pronto recupero. [e.a.]
16.08
A inaugurare la Settimana della Critica è stato The Book of Vision, il primo lungometraggio di finzione diretto da Carlo S. Hintermann; presentato fuori concorso il film, prodotto da Terrence Malick (Hintermann con la sua Citrullo International collabora con lui dai tempi di The Tree of Life, di cui curò l’unità italiana di riprese), è la storia di una donna e del suo doppio. La prima vive nel contemporaneo, è una ricercatrice universitaria, incinta e allo stesso tempo con una grave malformazione cardiaca. La seconda visse nel Diciottesimo Secolo, nel momento in cui medicina e umanesimo si scissero, lasciando la prima solo nel campo scientifico. Ambiziosissima ricognizione sul concetto di “naturale”, sull’impossibilità dell’uomo a comprendere fino in fondo il mistero della vita e sul ruolo della donna – costretta, in ogni epoca, a trovare da sola le proprie risposte in una società ostile – The Book of Vision punta tutte le sue carte su una resa scenica sfolgorante, visivamente ricchissima, forse persino troppo. Peccato che al di sotto della superficie, di per sé scintillante ma non sempre ispirata, ci sia ben poco da poter rintracciare: nelle mani di Malick Hintermann diventa una sua creatura, e replica schemi che non riesce completamente a maneggiare, né ovviamente a fare mai propri.
Prima di lui è stato presentato anche Les aigles de Carthage, cortometraggio di Adriano Valerio che documenta la vittoria della Coppa d’Africa di calcio da parte della Tunisia nel 2004, collegando quella gioia collettiva alla sollevazione popolare del 2011. Didascalico, politicamente semplificato, appassionante sotto il versante strettamente sportivo. [r.m.]
15.59
Ci si addentra nella zona del festival superando file su file e diversi checkpoint, ma tutto per ora con grande calma e rilassatezza, anche con ironia. E poi si cammina con le mascherine, guardandosi attorno e sperando/temendo di vedere facce conosciute. Anzi occhi conosciuti, o forse – persino – capelli conosciuti. Qualcuno ci riconosce a distanza abissale, qualcun altro non ci riconosce nemmeno a due passi. La fisiognomica non conta più, ci si riconosce per qualcos’altro, per via forse di vecchie sensazioni che tornano alla memoria. E così la giostra degli accreditati torna a fare un nuovo giro, il più anomalo sicuramente, ma forse anche il più importante, nella speranza che torni a stare in piedi la baracca-cinema. E non si poteva che ricominciare la vita festivaliera proprio nella città delle maschere carnevalesche. [a.a.]
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Mercoledì 2 settembre 2020
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19.42
Possono i lacci delle scarpe elevarsi a metafora filosofica del vivere? Per Daniele Luchetti, e prima di lui Domenico Starnone, pare di sì. Peccato che Lacci, scelto addirittura come apertura della Mostra, non possieda una particolare brillantezza espressiva, rintracciabile quasi esclusivamente nel finale. Il cast, con Alba Rohrwacher che invecchiando diventa Laura Morante, rischia lo scult. [r.m.]
18.38
Prime impressioni, ovviamente ultra-parziali, di questa Mostra in odor di pandemia: poca gente, poco struscio (dovuto anche all’innalzamento del muro davanti al tappeto rosso d’ingresso alla Sala Grande), un bel po’ di spaesamento e qualche stilla di depressione diffusa. Solo una cosa non viene mai meno: l’aria condizionata. In Sala Perla, ad esempio, le temperature si approssimano all’era glaciale. Un’idea non proprio brillante se poi si ha il diktat di lasciar fuori dall’area della Mostra chiunque abbia più di 37.5 di temperatura. [r.m.]
18.26
Orizzonti, secondo concorso per prestigio della Mostra, si è aperto con Mila (Apples), con cui esordisce al lungometraggio il greco Christos Nikou. Già assistente di Yorgos Lanthimos sul set di Kynodontas (in ritardo di 11 anni nelle sale italiane in questi giorni con il titolo internazionale Dogtooth) e perfino di Richard Linklater per la sua trasferta ellenica ai tempi di Before Midnight, Nikou prende in realtà le distanze dal rigore crudele che contraddistingue la “nuova onda” greca dell’ultimo decennio. Il suo film ha un’ambizione alta, vale a dire parlare a mo’ di metafora della perdita di identità di una nazione e dei suoi abitanti. Peccato che questo concetto, ben sintetizzato nella scelta di narrare una misteriosa amnesia che fa strage tra gli ateniesi, si perda in un racconto che tolta la fascinazione iniziale non sembra davvero avere un granché da dire. [r.m.]
18.00
In attesa di poter iniziare a parlare dei film (tra pochissimo, ma come oramai accade da un paio di anni dobbiamo attenerci alle disposizioni riguardanti l’embargo), un aneddoto gustoso e a suo modo esemplificativo dei tempi che corrono e delle personalità che si aggirano per i festival. In Sala Perla si tiene la proiezione ufficiale di Cigare au miel, apertura delle Giornate degli Autori ed esordio alla regia della parigina – ma di genitori algerini – Kamir Aïnouz. Sul palco a presentare la proiezione c’è Gaia Furrer, da quest’anno direttrice artistica della sezione, che si dice felice di aver scelto per la prima volta il film diretto da una donna per l’apertura ufficiale delle Giornate. Dalla platea si leva la voce di un vecchio critico italiano, conosciuto a tutti i frequentatori di festival, che urla “è un uomo!”. L’equivoco è ovviamente legato al fatto che Kamir Aïnouz è la sorella e quasi omonima di Karim Aïnouz, il regista brasiliano-algerino autore tra gli altri de La vita invisibile di Eurídice Gusmão. Gaia Furrer, senza scomporsi nonostante la sgradevole uscita dell’accreditato, si è limitata a far notare la cosa, e per corroborare le sue parole la regista ha preferito alzarsi in piedi per farsi vedere, accogliendo l’applauso della sala. Di certo questo fatterello renderà più croccante il cicaleccio della stampa da qui a fine Mostra, magari sorseggiando un spritz. [r.m.]
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Martedì 1 settembre 2020
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08.45
Non siamo ancora neanche partiti alla volta di Venezia, eppure c’è già la possibilità di inaugurare questa rubrica divenuta con gli anni un appuntamento fisso. Mai come in questo 2020, così carico di paure e perdita di certezze, la Mostra è stata anticipata da discussioni di ogni tipo, ultima (solo per questioni temporali) quella relativa alle difficoltà riscontrate nella prenotazione dei posti in sala, indispensabile per venire incontro ai tracciamenti necessari per contrastare l’eventuale presenza del Covid-19 al Lido. Boxol, il sito che ha preso in carico per conto della Mostra questo aspetto, è già entrato a far parte della mitologia festivaliera, sorta di incrocio tra Pazuzu e Godzilla, demone distruttore di ogni illusoria speranza degli accreditati di vedere un film in sala nei prossimi giorni. Come si dice, chi ben comincia è a metà dell’opera. [r.m.]