The Book of Vision

The Book of Vision

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A quasi dieci anni di distanza dal documentario (con squarci d’animazione) The Side of the Sun, che venne programmato in molti festival in giro per il mondo, Carlo Shalom Hintermann esordisce alla regia di un lungometraggio di finzione dirigendo The Book of Vision, scelto come titolo d’apertura fuori concorso della Settimana Internazionale della Critica di Venezia. Colmo di ambizioni e prodotto da Terrence Malick, The Book of Vision da un lato mette in mostra l’immaginario vivido di Hintermann, ma dall’altro dimostra di non saper mai scendere davvero al di sotto della superficie levigata, perdendosi dietro facili metafore sul senso “naturale” della vita.

L’albero della vita

Eva, una dottoressa e ricercatrice di Storia della Medicina, scopre un manoscritto di Johan Anmuth, un medico del 18° secolo. Nel suo Book of Vision, Anmuth trascrive i sentimenti, le paure e i sogni di 1800 pazienti, il loro spirito vaga ancora tra le sue pagine.Immergendosi in questi racconti e in queste visioni, Eva mette in discussione la separazione tra passato, presente e futuro, mentre si scontra con le sfide della medicina moderna e i suoi limiti in rapporto al proprio corpo. [sinossi]

«Candy says, I’ve come to hate my body, and all that it requires in this world» canta la dottoressa e ricercatrice di Storia della Medicina Eva sul palco, prima di svenire tra le braccia del suo tutor – che se ne sta innamorando. Per quanto sia breve, quasi impercettibile, la sequenza in questione all’interno dell’armonia complessiva di The Book of Vision, appare necessario partire proprio da qui per affrontare un’analisi, per quanto parziale possa essere, sul primo lungometraggio di finzione diretto da Carlo Shalom Hintermann (nei crediti ufficiali del film compare puntata la S del secondo nome). Innanzitutto è interessante che sia stata scelta una canzone dei Velvet Underground che non canta Lou Reed, ma nemmanco John Cale – che all’epoca già se n’era andato per conto suo, non sostenendo gli infiniti liti con il leader –, bensì il carneade Doug Yule, di cui pochi oggi serbano memoria: la mitologia affidata alle figure secondarie, proprio quello che la “giovane strega” Maria chiede un po’ pretendendo un po’ implorando al suo padrone e in qualche misura mentore, l’immaginario medico settecentesco Johan Anmuth (“perché la Storia la si scrive parlando solo dei ricchi, e mai della povera gente?” è l’interessante interrogativo che la ragazza pone all’anziano medico). Allo stesso tempo è interessante che sia stato scelto un brano che parla di Candy Darling, la transessuale che fu una star della Factory di Andy Warhol, una donna intrappolata nel corpo di un uomo e che cerca solo di trovare la propria dimensione, proprio come la Eva protagonista di The Book of Vision. Infine è molto interessante annotare come la suddetta sequenza racchiuda al proprio interno anche molti dei limiti principali del film: una retorica esasperata, per esempio, la scelta di un simbolismo così marcato da tracimare nei campi del pleonastico, e per quanto riguarda la protagonista Lotte Verbeek, che i più attenti ricorderanno in Suspension of Disbelief di Mike Figgis e gli ossessionati amanti delle serie televisivi ne I Borgia, una ben scarsa capacità interpretativa.

Non è una creatura semplice da avvicinare The Book of Vision, perché tale e tanta è la potenza visiva messa in campo da Hintermann da correre il rischio di rimanere abbacinati, irretiti nella morsa della visione alla stregua di un cobra alle prese con il proprio incantatore. È un arcano incantatore Hintermann, e non c’è dubbio la sua lunga permanenza alla corte di Terrence Malick – che qui si occupa della produzione esecutiva, ma che reclutò la Citrullo International, la casa di produzione di Hintermann, all’epoca delle riprese di The Tree of Life, dopo un rapporto di fiducia, stima e amicizia intrapreso ai tempi di Rosy-Fingered Dawn, il documentario che la Citrullo dedicò proprio al cineasta statunitense – abbia prodotto delle conseguenze. Non necessariamente positive. Ogni inquadratura di The Book of Vision sembra rincorrere, a tratti in scioltezza ma spesso arrancando, le qualità espressive di Malick, quasi che la presenza come produttore meritasse una sorta di marchio di fabbrica, un logo da affiggere su ogni immagine, su ogni singolo fotogramma. Così la narrazione si fa spaesata, svolazza tra la contemporaneità e il Diciottesimo Secolo, alla fin fine per dire che l’umanità non si è evoluta più di tanto, e che anzi la medicina pur facendo balzi in avanti notevoli sotto il profilo tecnico-scientifico ha perso la bussola del proprio rapporto con l’umano, e con la sua innata spiritualità. Ecco dunque gli spiriti degli alberi, le streghe, le pre-visioni e le post-visioni, gli incubi notturni indagatori e che molta verità celano al proprio interno. Ed ecco Eva, il cui nome già riporta alla mente la nascita per eccellenza e la discendenza dell’intera razza umana, e che cerca tanto nel Settecento quanto nel Duemilaventi o giù di lì di non farsi ingabbiare nei cliché della società maschile, ma di trovare il proprio spazio grazie all’istinto prima ancora che alla conoscenza.

Di carne al fuoco Hintermann ne mette tanta, perfino troppa. Così il rischio è che a scavare appena sotto la patina di lucentezza delle immagini si trovi ben poco, quasi nulla. La riflessione filosofica, per quanto resa densa da un apparato di riferimento sicuramente non improvvisato, si limita al minimo indispensabile: un tempo gli esseri umani, soprattutto le donne, erano più in rapporto con la natura e il suo ciclo vitale. Poi la società, attraverso il potere militare, ha spazzato via i rimasugli di conoscenza misterica e si è persa nella tecnocrazia fine a se stessa. I bambini, e le ragazze, restano gli unici appigli di quel sapere antico: un po’ misera come lettura del mondo, e della sua complessità tanto biologica quanto storica e politica. Dopotutto anche l’immaginario, come si scriveva, procede a tentoni. Ci sono ispirazioni apprezzabili – su tutte l’aldilà letteralmente rovesciato, ma anche l’albero generatore di vita – e cadute di stile di fronte alle quali è quasi impossibile trattenere una risata di scherno. E la digressione perfino sul ragazzino che nel Settecento fu corresponsabile della morte – già prevista, ovvio – del fratellino, e sul suo pentimento (“perdonami” sussurra in un malickismo così meccanico da apparire completamente insincero), appesantisce ulteriormente la narrazione. Quando, quasi dieci anni fa, Hintermann iniziò a portare in giro per il mondo l’affascinante The Dark Side of the Sun, documentario screziato da squarci d’animazione – curati da Lorenzo Ceccotti, che qui si occupa della concezione delle idee più visionarie –, crebbe l’interesse verso un suo possibile approdo al cinema di finzione. Ora che l’attesa è giunta al termine non si può che rimanere delusi, sempre consapevoli che Hintermann possegga un proprio sguardo, e che il suo approccio alla regia non abbia nulla a che spartire con la prassi della produzione italiana. Dettagli preziosi su cui prima o poi sarà necessario costruire un albero un po’ meno fragile di quello di The Book of Vision.

Info
The Book of Vision sul sito della Settimana della Critica.

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