Pieces of a Woman
di Kornél Mundruczó
Primo film in lingua inglese per l’ungherese Kornél Mundruczó, Pieces of a Woman, in concorso a Venezia 77, non cade nelle solite schizofrenie cui il regista ci aveva abituato con opere come White God, quanto piuttosto in una messinscena flemmatica e sin troppo classicheggiante, vicina all’inerzia.
La donna che cammina sui pezzi di vetro
Martha e Sean Carson, una coppia di Boston, sono in procinto di avere un bambino. La loro vita cambia irrimediabilmente durante un parto in casa, per mano di un’ostetrica confusa e agitata che verrà accusata di negligenza criminale. Comincia così un’odissea lunga un anno per Martha, che deve sopportare il suo dolore e al contempo gestire le difficili relazioni con il marito e la dispotica madre, oltre che confrontarsi in tribunale con l’ostetrica. [sinossi]
In concorso a Venezia 77, Pieces of a Woman, primo film in terra americana (è girato in Canada) dell’ungherese Kornél Mundruczó, inizia in maniera promettente, come d’altronde spesso gli capita. Si vede uno Shia LaBeouf super-barbuto, in tuta da lavoro, intento a costruire un ponte mentre dialoga in maniera veemente e vivace con dei colleghi. Dura poco questo momento, ma abbastanza da far venire subito alla mente Una moglie di John Cassavetes, che inizia in maniera molto simile. E, invece, non appena Sean torna a casa, così si chiama il personaggio, e trova sua moglie Martha in procinto di partorire, si capisce ben presto, purtroppo, che di Cassavetes non c’è nemmeno l’ombra. Ma quel che è sorprendente di Pieces of a Woman è che non si ritrovano nemmeno gli ormai classici ingredienti del cinema di Kornél Mundruczó, che fino a quest’anno era stato un abituale frequentatore della Croisette, visto che i suoi precedenti quattro film erano tutti stati selezionati a Cannes: Delta (2008), Tender Son (2010), White God (2014), Una luna chiamata Europa (2018). Caratteristiche tipiche di questo regista sono: la schizofrenia dei toni, l’ambiziosissima messa in scena, l’autodafé compulsivo che lo spinge sempre a cambiare direzione ai suoi film fino ad andare contromano contro il muro dell’incoerenza, il gusto del kitsch e dell’eccesso fine a se stesso (si pensi al migrante siriano con i super-poteri in Una luna chiamata Europa).
Tutto questo non c’è in Pieces of a Woman, è tutto trattenuto, è tutto sospeso, è tutto raggelato, è tutto – in fin dei conti – inerte, se si eccettua il piano-sequenza del parto casalingo, che però dura troppo (ad un certo punto, quando la partoriente viene messa nella vasca da bagno e parte la musica, ci si domanda perché il regista insista a non staccare) o, al contrario, dura troppo poco (se è un piano-sequenza allora i tempi sono reali e un parto, dalla rottura delle acque in poi, non dura normalmente così poco). Ma, al di là dei tempi della scena, siamo ben lontani dall’effetto meraviglia con cui solitamente Mundruczó ci stupiva e ci infastidiva con i suoi piani-sequenza del passato.
Vien da pensare che Pieces of a Woman sia così timido per via della sua genesi: un po’ perché è una co-produzione in lingua inglese, e dunque Mundruczó non gioca in casa. Ma, ancor più probabile, è che la timidezza del film sia dovuta al fatto che si tratta di un adattamento da un testo teatrale di Kata Wéber, compagna del regista e autrice unica anche della sceneggiatura. Forse Mundruczó, per rispetto della sua compagna, in un film che mette in scena tra l’altro la crisi di una coppia, non se l’è sentita di smontare e rimontare, e rigirare, e ribaltare come un frankenstein – il suo Tender Son del 2010 aveva come sottotitolo The Frankenstein Project, una specie di dichiarazione programmatica – un “figlio” che in fin dei conti non era suo, quanto di lei.
Perciò assistiamo alle paturnie di Martha, la cui perdita della figlia le provoca un dolore irredimibile ma anche mai veramente palpabile. Questo dolore è raccontato per ovvietà, con anche un po’ di cattivo gusto: lei va in un negozio di vestiti e vede con cupidigia la bambina di un’altra donna, lei prende la metro e osserva vogliosa bambini cinesi o bambini afroamericani, come a dire che in fin dei conti per la situazione in cui si trova le andrebbe bene anche di allevare un non-WASP. Questo, mentre il povero Sean-Shia LaBeouf non sa più che fare, la tradisce, sogna di scappare a Seattle e molla la costruzione del ponte, che è d’altronde il simbolismo centrale del film su cui si ruota nei dialoghi in modo totalmente sgraziato e molto telefonato, come quando la madre di lei dice, proprio a Sean: «Bisogna tagliare i ponti!» Il tutto è poi infarcito di lunghi monologhi, perlopiù inconcludenti e anche un po’ confusi, come quello finale di lei, che in tribunale contraddice prima se stessa e poi la madre, che però stranamente annuisce. E stupisce, e un po’ dispiace, che tra gli interpreti del film vi sia persino Benny Safdie, nel brutto ruolo del marito sconclusionato della sorella della protagonista.
Finisce così che Martha, che dovrebbe essere il punto di forza di Pieces of a Woman, è il vero buco nero del film, non solo per l’interpretazione zoppicante di Vanessa Kirby (che regge bene solo nei primi piani silenti e addolorati), quanto soprattutto per un personaggio del tutto sfocato e mai veramente tragico. E, di nuovo, ancora una volta, ci pare che Mundruczó non sappia mai bene cosa fare, da che parte portare e condurre i suoi film, che posizione prendere, come amare i suoi personaggi, come riuscire a renderli finalmente rotondi e concreti. Vivi, per una volta.
Info
La scheda di Pieces of a Woman sul sito della Biennale
- Genere: drammatico
- Titolo originale: Pieces of a Woman
- Paese/Anno: Canada, Ungheria | 2020
- Regia: Kornél Mundruczó
- Sceneggiatura: Kata Wéber
- Fotografia: Benjamin Loeb
- Montaggio: Dávid Jancsó
- Interpreti: Benny Safdie, Ellen Burstyn, Iliza Shlesinger, Jimmie Fails, Molly Parker, Sarah Snook, Shia LaBeouf, Vanessa Kirby
- Colonna sonora: Howard Shore
- Produzione: Bron Studios, Creative Wealth Media Finance, Little Lamb
- Durata: 128'
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