Assandira

Assandira

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Salvatore Mereu, che torna a girare un lungometraggio a otto anni da Bellas mariposas, ci racconta in Assandira la reinvenzione a uso turistico dell’antica vita sarda. E lo fa con un tratto deciso e carnale, dando vita a un mondo terragno e ferino, in cui si muove spaesato il magnifico protagonista, lo scrittore Gavino Ledda, autore di Padre padrone. Fuori concorso a Venezia 77.

Figlio padrone

Zuppo d’acqua fin dentro alle ossa, Costantino si avvita sul pagliaio come un vecchio legno restituito alla terra dal mare in burrasca. La pioggia torrenziale ha appena finito di spegnere il fuoco che si è mangiato in una notte sola Assandira, il suo agriturismo in mezzo al bosco. Ma la pioggia non ha spento il dolore, il rimorso bruciante per il figlio che Costantino non è riuscito a salvare e che è morto tra le fiamme. All’alba, i primi ad arrivare sono i carabinieri e un giovane magistrato: Costantino prova a raccontare loro cosa è successo in quell’ultima notte, a spiegare come tutto è cominciato… [sinossi]

Sarebbe servita forse qualche altra settimana di montaggio per rendere Assandira davvero un gran film, sarebbe servita per asciugare un po’ quella lunga e confusa parte iniziale e per chiudere meglio, in maniera più secca, con il finale. Ma il ritorno al lungometraggio di Salvatore Mereu, a ben otto anni di distanza da Bellas mariposas, si erge comunque come il miglior film italiano – secondo il parere di chi scrive – visto finora a Venezia 77, sia pur relegato ingiustamente fuori concorso.

È un cinema fatto di corpi e di terra il cinema di Mereu, un cinema carnale che sta addosso agli attori, li circonda, li accerchia, li fa muovere in spazi stretti, tenendo sempre la camera contro di loro, per percepirne respiro e dolore, con un senso costante di claustrofobia. E dunque Mereu valorizza gli attori come pochi altri sanno fare nel nostro cinema: qui le tre figure centrali sono tutte magnifiche, dal padre Costantino interpretato da Gavino Ledda (lo scrittore di Padre padrone, da cui i Taviani trassero il celebre film), al figlio Mario incarnato da Marco Zucca (che è un attore non professionista), alla nuora Greta “vestita” egregiamente dalla tedesca Anna König. Ma anche i personaggi secondari restano fortemente nella memoria, dal magistrato sciascian-rosiano (sembrerebbe quasi uscito da Cadaveri eccellenti) cui l’attore teatrale Corrado Giannetti regala una caratterizzazione fatta di mezzi toni, dubitativa, scettica come solo i grandi magistrati del sud sanno essere, per arrivare al luciferino giovanotto, dall’evocativo nome di Peppe Bellu (è Samuele Mei a interpretarlo, anche lui un attore non professionista), che lavora nell’agriturismo gestito dalla famiglia del protagonista e che litiga con tutti, insulta chiunque e scompagina ogni situazione con la sua arrogante e dirompente vitalità.

Liberamente ispirato al romanzo omonimo di Giulio Angioni, Assandira è ambientato negli anni Novanta, quando sostanzialmente trionfò la moda degli agriturismi, attraverso i quali i turisti annoiati dalle città potevano fare esperienza della vita di campagna più primitiva e violenta, autentica in qualche modo. E dunque Mereu mette a confronto la tradizionale “sarditudine” del Costantino di Gavino Ledda, che è stato un pastore per tutta la vita, con la nuova “sarditudine”, quella dell’emigrante di ritorno, incarnato dal figlio Mario, che non ha mai munto una pecora e che, sobillato dalla moglie tedesca, vuole recuperare un vecchio casale del padre per tirare su un agriturismo, dal nome Assandira per l’appunto. Un agriturismo in cui far esperire a turisti tedeschi, danesi e svedesi la vera vita di una volta, tutto però attraverso la simulazione di quella vita, attraverso una grande messa in scena, un gioco – come viene detto più volte – che però diventa man mano più pericoloso, fino al disastro e alla tragedia.

Se dunque in Padre padrone c’era la condanna dell’antica e analfabeta e violenta civiltà sarda, rappresentata dal crudelissimo padre che aveva le fattezze di Omero Antonutti, qui la situazione è rovesciata, e infatti quella civilizzazione, che portava il personaggio di Gavino Ledda a istruirsi fino alla laurea e a ribellarsi al genitore, è in Assandira degenerata in bieco consumismo, quello stesso mostruoso consumismo contro cui si scagliava Pasolini. Questo discorso antropologico non è nuovo, e anche di recente lo aveva messo in scena Alice Rohrwacher in Lazzaro felice, ma è il modo in cui lo guarda Mereu a essere nuovo, costruendovi attorno una narrazione da noir, da indagine poliziesca, fatta di flashback e di progressive rivelazioni, oltre che di progressive constatazioni di quanto quel gioco sulla pelle della tradizione possa essere rischioso, tanto che quando scoppia l’incendio che poi distruggerà Assandira, la tedesca Greta arriva a dire che forse le fiamme possono piacere ai turisti, possono eccitare il loro stupido gusto per il pericolo, visto che gli incendi al sud sono ormai diventati un fatto dolorosamente caratteristico, come il porcetto, come il mandolino, come le case abusive lasciate a metà.

E in tutto questo si muovono i tre protagonisti, ciascuno con le sue colpe, i suoi silenzi o le sue troppe parole. E tra i tre man mano si sviluppa un gioco al massacro, in cui nessuno è innocente e tutti si solleticano per una qualche idea: il padre Costantino si lascia sedurre dalla fisicità della nuora Greta, il figlio Mario si isola nelle sue ottusità e nei suoi segreti, Greta stessa – apparentemente la malefica ideatrice di questa giostra degli orrori – è in fin dei conti vittima del comportamento oscillante e incerto dei due maschi. Questo, finché Costantino resta solo, a piangere tra le macerie, a rodersi per la vergogna e a pentirsi amaramente per aver rinnegato se stesso e le sue origini. E il volto dolente, immoto, segnato dalla terra e dalla vita, di Gavino Ledda, e quel suo sguardo fisso, vacuo, vitreo, restano il dono più prezioso di Assandira.

Info
La scheda di Assandira sul sito della Biennale di Venezia

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