Numéro deux

Speciale Senza il cinema. Con il cinema.
Nel 1975, anticipando tutti, Godard approcciava un “mondo nuovo”: il video. Non più dunque il cinema parigino, ma la tv di provincia. E in questo contesto nasceva Numéro deux, film-non-film doppio e secondo debutto della sua carriera. Un’operazione che ancora oggi pone delle sfide inusuali all’analisi critica e a cui noi abbiamo cercato di rispondere in due (Alessandro Aniballi e Raffaele Meale) con una recensione “doppia”, rimpallandoci perciò la palla-Godard da un paragrafo all’altro, come a simulare una partita di tennis, gioco per eccellenza godardiano.

Due o tre cose che so del video

Un uomo e una donna: lui è un operaio in sciopero, lei una casalinga. Hanno due figli: un bambino e una bambina. Poi ci sono i nonni. Tutti si autoraccontano e si autorappresentano per il tramite di due o più schermi televisivi. A incorniciare la loro vita c’è Godard che parla prima di loro, all’inizio del film, e che poi, alla fine, interrompe le registrazioni. [sinossi]

Il numero due e il numero tre. Oppure il numero tre. Due o tre cose che so di… Godard quando fa una cosa/un film/un paesaggio, allo stesso tempo fa anche un’altra cosa, che può essere proprio un altro film dentro lo stesso film o un volto che si mischia con un paesaggio, un paesaggio che diventa fabbrica, o un campo che si sovrappone al controcampo. Del resto, come insegnava Rimbaud: «Io è un altro». E Godard, facendo suo questo paradosso, lo porta alle estreme conseguenze, in modo tale che ad esempio un campo + un controcampo sovrapposto non fa due, ma fa una nuova immagine, una terza immagine, diversa sia dalla prima che dalla seconda. Basti ripensare in tal senso al meraviglioso e stordente campo / controcampo sovraimposto e sovraimpresso nel 3D di Adieu au langage. Ma tutto questo comincia ad apparire in maniera sistematica nel suo cinema già nel momento in cui, dopo la fine del gruppo Dziga Vertov – nel cui ambito erano stati girati film come Il vento dell’Est – e dopo l’allontanamento volontario da Parigi per Grenoble, Godard “abbandona” proprio il cinema a favore della tv (e, infatti, le tv come oggetto, come elettrodomestico “doppio”, dopo la grande anticipazione da natura morta in Agente Lemmy Caution: Missione Alphaville, da adesso in poi verranno inquadrate ossessivamente). A Grenoble, Godard rileva una società di informatica e la trasforma in fabbrica di suoni e immagini: la società si chiamava Sonimage, e lui gli lascia lo stesso nome, perché c’è già in essa la dualità di senso, c’è già la doppiezza delle colonne (come si diceva per la pellicola): la colonna suono e la colonna immagine/video. Ma c’è anche già il tre, che deriva dal sottotitolo della società: informatica – calcolo – scrittura. Godard sostituisce la parola informatica con informazione, e il gioco matematico è fatto: può lanciarsi nel mondo del video elettronico – ragionando in particolare proprio sui meccanismi dell’informazione – molto tempo prima di chiunque altro, ricominciando la sua carriera non da zero, né da uno, ma da Numéro deux.

Dopotutto Numéro deux è un titolo di prova [immagine 1], e non potrebbe essere altrimenti: il cinema stesso diventa una prova, un’evidenza ma anche una sfida, nel momento in cui la materia si fa elettronica, nel momento in cui si devia per l’ennesima volta – e la più dirompente, a conti fatti – dalla prassi. Jean-Luc Godard e Anne-Marie Miéville parlavano del film come di un rifacimento ideale di À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro), e non è casuale. Come la bomba che esplose in faccia al cinema francese nel 1960 anche Numéro deux scardina il concetto stesso di “film”, addirittura in questo caso eliminando la materia del contendere (la pellicola, sostituita dal nastro magnetico). E se oltre quindici anni prima l’amore era ancora l’incontro non previsto e folgorante – e destinato a subire il colpo letale della medesima folgore – nel 1975 si deve inserire il coltello dello sguardo nella piaga putrescente della famiglia borghese. “Mon, ton, son image” è la prima scritta elettronica, mentre al suo fianco brucia di un rosso infernale l’effetto neve, il rumore bianco. La mia, la tua, la sua immagine, con a fianco un rumore senza rumore, il mondo del fotogramma che diventa l’impero del pixel, il puntinismo che esce dai libri d’arte per entrare nella catatonia del commercio, della scala industriale. La parola image inizia ad apparire a intermittenza, ed entra nel campo visivo lui, l’uomo, il dominus della famiglia borghese tradizionale. Ma nonostante questo roboante ingresso in scena l’effetto neve non svanisce, non viene meno. C’è dopotutto un doppio significato per “son”: suo, ma anche suono. E allora compare lei, la donna. La rivoluzione. La donna può volgere lo sguardo verso la videocamera, può guardare in macchina, può creare una relazione ulteriore con lo spazio che la circonda [immagine 4]. Lo schermo è sempre doppio, triplo considerando il formato in cui quei due schermi sono ospitati, o meglio ancora accettati.

D’altronde si può anche dire che Numéro deux è un remake letterale di À bout de souffle, molto più di quanto non lo siano i remake made in Hollywood, che concepiscono il remake come “ristrutturazione” e riproposizione di una storia, incrementando il budget del film originario. Godard, invece, giocando sul termine di film come merce, concepisce questo suo remake e questa sua ripartenza da un punto di vista meramente produttivo: vale a dire che Numéro deux è realizzato con gli stessi soldi di À bout de souffle e dallo stesso produttore, Georges de Beauregard. Il film è dunque il prodotto di una fabbrica, dove Godard è allo stesso tempo, per la prima volta, il padrone e l’operaio. Ma dove non intende parlarci di se stesso, al di là della premessa in cui lo vediamo in piedi sulla destra dello schermo, circondato dalle sue macchine e con un televisore che riporta la sua immagine in primo piano [immagine 6]. In questa premessa, Godard ci racconta dell’incontro avvenuto proprio con Georges de Beauregard, del fatto che è stato a lungo malato (in seguito al grave incidente stradale, avvenuto nel luglio del ’71 a Parigi, che lo costrinse a entrare e uscire dall’ospedale nel corso di ben tre anni), del diritto che si ha di giocare con le parole e con i motti di spirito (e dunque anche con le immagini e con i suoni) e del fatto per l’appunto che quelle macchine di riproduzione di immagini e suoni sono esattamente come quelle di una fabbrica, come poteva esserlo ad esempio la fabbrica di salumi di Crepa padrone, tutto va bene. No, in Numéro deux, Godard non ci parla di sé, ma per l’appunto della donna, dell’altro-da-sé, come già aveva saputo fare egregiamente in film come Questa è la mia vita, Una donna sposata e proprio Due o tre cose che so di lei. In quei film però il rapporto tra Godard e le sue attrici/personaggi era, per quanto dotato di una acutissima capacità di analisi, molto simile a quella coeva di Antonioni, ancora tradizionale: un regista e la sua musa, il soggetto dello sguardo e l’oggetto dello sguardo. Ora, invece, previo il periodo del gruppo Dziga Vertov in cui il problema era stato già impostato coscientemente e marxisticamente (si pensi a Lotte in Italia), a partire da Numéro deux, le cose cambiano proprio grazie alla presenza di Anne-Marie Miéville, che è diventata la nuova compagna di Godard, che co-firma il film con lui (e dunque diventa anche lei soggetto dello sguardo) e che sarà da qui in poi la sua collaboratrice fissa. D’altronde, la questione era già stata posta in termini programmatici in Ici et ailleurs, film doppio rispetto a Numéro deux, sia in termini cronologici (è stato girato e montato prima, ma mostrato dopo rispetto a Numéro deux), sia in termini dialettici (la Miéville, da un punto di vista femminile e femminista, in Ici et ailleurs contesta a Godard il solipsismo registico delle sue riprese palestinesi). In Numéro deux dunque Godard si pone come trasmettitore del discorso femminile, si pone nel mezzo, “tra” un prima che è il femminile/femminista di quegli anni (attingendo in particolare a testi della scrittrice Germaine Greer, che aveva pubblicato nel 1970 L’eunuco femmina) e un dopo che è la ritrasmissione e ricodificazione di quel discorso incarnato nei personaggi del film. È questa l’idea alla base della pedagogia godardiana, secondo una illuminante definizione di Serge Daney, in cui Godard non è più l’Autore di un mondo che lui crea a sua immagine e somiglianza, ma “solo” il codificatore, il “processore” che ci ritrasmette un mondo esistente, e in qualche modo già imposto; per dirla in termini scolastici, è il maestro elementare, come suggerisce sempre Daney. E, di conseguenza, oltre alla donna, in Numéro deux entra in maniera determinante anche il mondo dell’infanzia [come si vede nell’immagine 3, primo campo/controcampo “impossibile” del film, in cui i bambini guardano in strada e parlano del paesaggio che è diventato fabbrica e che si vede sull’altro schermo del televisore], mondo dell’infanzia cui Godard dedicherà di lì a poco, nel ’77-’78, una meravigliosa quanto poco analizzata serie-tv, France tour/détour deux enfants.

Sono proprio i bambini, d’altro canto, a connettere in scena Numéro deux ad À bout de souffle, visto che spetta a loro riproporre uno stralcio di dialogo scritto per quel film. Lo fanno “rinchiusi” nello schermo, non più direttamente umani ma meccanismi di un marchingegno che è industria, e dunque non può essere più materico. Il secondo-primo film di Godard è un film-industria, non nella né sull’industria, strumenti retorici che non permetterebbero più una reale riflessione sul sistema. Lo schermo può essere duplicato perché l’uno deve entrare in dialettica con il secondo, e viceversa: ci possono essere i bimbi che si affacciano da un balcone, ma in dissolvenza può apparire la Storia stessa del cinema (Bergman), mentre dall’altra parte a ribattere è una sequenza documentaria, un’immagine non più direttamente relazionata alla sua dirimpettaia. Nel 1975, con il Sessantotto alle spalle, con la sua utopia e lo sconvolgimento della prassi, e con il Vietnam appena terminato, non ha più senso pensare che l’immagine sia di per sé assoluta, inequivocabile e iconica al punto da rappresentare il senso ultimo, e unico, del discorso. L’immagine deve essere messa in crisi, perché solo così la rappresentazione della borghesia che prende corpo sullo schermo può davvero e compiutamente vivere la medesima crisi. Se il sistema produttivo non decide di auto-frantumarsi non potrà far altro che procedere stancamente, retaggio di un’idea di cinema replicante, ribadito all’infinito senza che la struttura venga mai messa in discussione. Così come il b-movie veniva segmentato e sincopato sul finire degli anni Cinquanta, alla stessa maniera l’immagine riprodotta viene sezionata da Godard, ripartita all’interno dello schermo e in un certo qual modo volutamente svilita. Il cinema meno nobile era il punto d’avvio e di rivoluzione di À bout de souffle, ma anche quell’innovazione si è tramutata in standard nel corso di un decennio – e in particolar modo proprio per responsabilità della cosiddetta Nouvelle Vague. Ora Godard alza il livello dello scontro, radicalizza il proprio sguardo, simpatizza ulteriormente con il cinema apparentemente più deteriore per svelare la produzione dell’immagine, il suo senso banalmente quotidiano. La pornografia non è mostrata nella sua veste cinematografica, ma nell’assoluta semplicità di un rapporto sessuale, con una messa in quadro “sciatta”, priva di profondità. Dopotutto che senso avrebbe ricercare l’estetica – in ogni caso retorica, e dunque vuota – dell’immagine quando la radice di Numéro deux affonda nel terriccio di una qualità apertamente non cinematografica? L’atto sessuale in un sistema capitalistico borghese è sciatto, riproduttivo e riprodotto in una forma anodina, confondibile con le faccende domestiche.

«C’est de la politique ou du cul?», si chiede – e ci chiede – la voce di quella che poi scopriremo essere la protagonista femminile di Numéro deux (Sandrine Battistella, attrice per la prima e unica volta nella sua vita, e ci sarebbe da dire molto sul modo in cui chiunque diventa “attore di se stesso” nel cinema di Godard, a partire proprio dagli sguardi in macchina dei passanti in À bout de souffle). Dopo la premessa di Godard, è dunque Sandrine a diventare l’enunciatore principale del film, quando ancora sono inquadrati i due schermi televisivi. Sulla tv in alto si vedono dei “prossimamente”, tra cui quello di Tre amici, le mogli e (affettuosamente) le altre di Claude Sautet, con Michel Piccoli e Yves Montand, entrambi attori già godardiani di due fasi in questo momento rifiutate, quella del cinema-cinema (Piccoli e Il disprezzo) e quella del cinema-politica (Montand e Crepa padrone, tutto va bene). Questa presentazione del film di Sautet, come le altre cui assistiamo, è parte di quella merce che viene venduta dal Capitale come se fosse l’una uguale all’altra: ci sono frammenti di trailer di L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente, Gruppo di famiglia in un interno, del succitato Bergman di Scene da un matrimonio e del porno-soft La dévoreuse de sexe. Questo mentre sulla tv in basso si vedono estratti di servizi giornalistici di natura politica: manifestazioni del primo maggio o scioperi, e si sentono anche le parole Vietnam e Cambogia. E le fonti sonore o si confondono, o si sovrastano; o, in certi momenti ancora, se ne isola una sola, finché prevale proprio quella di Sandrine che parla della politica e del culo, specificando che non vi è necessariamente un’opposizione tra i due “temi”, ma anzi possono benissimo essere trattati insieme, possono coesistere in coppia, come i due schermi tv, come una sodomizzazione, come un doppio l’uno dell’altra, come l’uomo e la donna. Quello cui si assiste in questa fase è sostanzialmente l’invenzione dello zapping, che Godard usa come strumento filmico altamente espressivo, quale evoluzione e ulteriore dissacrazione dei collage dadaisti e della pop art, sperimentati al massimo delle potenzialità in Pierrot le fou. Ma la voce di Sandrine prosegue e addirittura ci presenta il film stesso: dunque Numéro deux è ulteriormente doppio perché al suo interno ha anche il suo “prossimamente”, tanto che Sandrine – dopo aver citato Godard e la Miéville come produttori del film (e, coerentemente, non come registi) – dice: «Presto su questi schermi». In questi frammenti – come d’altronde nel resto del film – rientra perciò anche la politica, che ormai è diventata parte del tutto e cioè del flusso elettronico/televisivo, tanto che più avanti Sandrine vuole cantare La ballata del Pinelli con suo figlio, ma il bambino non se la fila e le parole della canzone vengono sovrastate da altri suoni. Tanto che il nonno, più avanti ancora, farà dei confusi riferimenti politici, parlando dei sopravvissuti all’Olocausto come dei salariati di Hitler e di volantini comunisti in spagnolo da distribuire a dei contadini giavanesi, che ovviamente non potevano comprenderli. Tanto che Sandrine, solo in apparente contraddizione con il suo tentativo di voler celebrare la morte dell’anarchico Pinelli (che era il passato di lotta), si mostra indifferente rispetto a quel che era appena successo in Cile (e dunque il presente della lotta), e cioè il colpo di stato di Pinochet. Tanto che il Vietnam, elemento fondamentale nella vita-cinema di Godard (come spiegava in Loin du Vietnam: «Bisogna lasciare che il Vietnam ci invada»; e perciò ogni suo film era “invaso” dalla presenza della guerra del Vietnam, come Masculin, féminin, La cinese, Pierrot le fou, sempre Due o tre cose che so di lei), quel Vietnam è ora diventato solo una parola, “sparata” dallo zapping televisivo. D’altronde, la questione verrà esplicitata pochissimo tempo dopo, in una sorta di prolungamento esterno di Numéro deux, nel 1976, nell’episodio Photos et Cie della serie-tv Six fois deux (anch’essa studiata troppo poco, come France tour/détour deux enfants), dove – omaggiando il Che (altro morto cui rendere onore, dopo Pinelli) – Godard cita il famoso detto guevariano “creare due, tre, molti Vietnam”, cui aveva dato applicazione lo stesso cineasta nei suoi film; ma – prosegue Godard – il tempo ci ha insegnato che, di fronte a questo tipo di lotta, si provoca la risposta imperialista di “due, tre, molte Americhe”; e dunque si finisce per “prenderla nel culo”. Perciò: della politica e del culo, tutto è per forza collegato.

Legare la politica al culo, e il culo alla politica, è anche un modo per connettere una volta per tutte la crisi della famiglia borghese al fallimento del sistema socialdemocratico capitalista che ha connotato l’Europa da quando il “CEO dei campi di concentramento”, vale a dire Hitler, ha perso la Seconda Guerra Mondiale. È il marito ad ammettere che il rapporto sessuale con la moglie è divenuto sterile, asettico, de-erotizzato; ed ecco che l’immagine pornografica non ha più un valore strettamente scopico, voyeuristico nell’accezione hitchcockiana del termine, ma diventa così anonima da poter essere confusa con quella delle già citate pulizie domestiche, di una sigaretta fumata al tavolo della cucina o di un bambino che si fa il bagnetto. L’immagine della famiglia borghese è inevitabilmente piatta, e perfino nella costruzione artificiosa di una dialettica forzata – raggiungibile davvero solo ricorrendo a più schermi da mettere in contrasto/relazione – non riesce a produrre un proprio senso compiuto, profondo, stratificato, a uscire dalla quotidianità per sprofondare nella torba politica. Godard stesso, messo come terzo elemento del triangolo ideale tra le due immagini già registrate, non può che accasciarsi in maniera stanca sulla moviola, seguendo con occhio distratto, o in maniera più pertinente annoiato, il documento del reale di una famiglia qualsiasi nell’occidente europeo della metà degli anni Settanta, quando il vento dell’est si è dimostrato poco più di un refolo e i veri e grandi rivoluzionari (Che Guevara in primis) sono stati uccisi dall’Impero a colpi di fucile, giustiziati e destinati a un’immortalità collettiva che ne riporta però la mera superficie, riducendo il tutto a icona. L’immagine non è però un’icona, e ora che il Vietnam non-metaforico è finito, e il napalm non viene più lanciato dagli aerei statunitensi per bruciare vivi i contadini indocinesi, dove si può riprendere il discorso rivoluzionario? “Numero tre. Io sono presente, tra il mio passato e il mio futuro, tra la gioventù e la vecchiaia. Sono io che invento la grammatica, sono io che trovo le parole. E lui e lei hanno di già inventato la musica”. Questo afferma la voce femminile, per poi concludere – mentre si fa largo una canzone nella colonna audio – “Il potere per fare questo. Io voglio questo potere”. Passato, presente e futuro sono le tre partizioni possibili del tempo, e il “numéro deux” rappresenterebbe in maniera ideale il presente: è quello che può davvero tentare di raccontare l’immagine, non-più-cinema e ancora-eternamente-cinema? Bisogna ancora reinventare la grammatica e trovare le parole, è ancora necessario costruire una struttura all’interno della quale l’immagine, fosse anche la più piatta del mondo, possa trovare una sua collocazione, e creare una volta di più un senso. Mentre dall’altra parte del mondo, nel Giappone ribollente di proteste pre-sessantottine e post-sessantottine, con Kōji Wakamatsu e Masao Adachi a far addestramento militare in Libano per combattere insieme all’esercito di liberazione della Palestina di Yasser Arafat e al contempo fare cinema, la riflessione sulla società industriale si stacca dall’umano per trovare il proprio senso nel “paesaggio”, per Godard il paesaggio industriale è di per sé comunque umano, lo si può racchiudere nelle mura di un appartamento, e nelle dinamiche di una famiglia-tipo (padre, madre, due bimbi, i nonni). La crisi dell’industria e del sistema del Capitale è già crisi della famiglia, e viceversa, le due parti non sono più distinguibili, la colonna audio e quella video si sovrappongono senza soluzione di continuità. Lo scopo di chi si occupa di immagini non è più quello di riprendere ma di registrare, sempre consci che anche il meno “lavorato” dei nastri magnetici è modificabile attraverso il mixer, e può essere distorto, tanto nell’immagine quanto nella percezione di ciò che si sente.

E in questa dissacrazione/distruzione Godard arriva all’astrazione, al quasi-indecodificabile, come in alcuni stordenti campi/controcampi sovrapposti, come quando mostra il primo piano della bambina “sopra” al totale del padre che sodomizza la madre, o come quando mostra il volto della madre “sopra” all’immagine di lei stessa che lava i piatti: sono due immagini che si svolgono contemporaneamente e che sono inscindibili (come poi il già citato campo/controcampo in 3D di Adieu au langage) e che volutamente disturbano lo sguardo ma allo stesso tempo lo esaltano, sottolineando le possibilità inedite dell’immagine elettronica. Il primo campo/controcampo però è il più stordente, perché disturba ulteriormente, anche a livello etico, mettendo insieme la purezza della bambina con la volgarità della sodomia. Ed è dunque ancora un discorso sulla politica e sul culo, come poi si capirà meglio ad un certo punto, quando Sandrine dirà al figlio che non riesce più a defecare da tempo: «Entra il cibo, ma non esce niente» o «Tutto quello che dovrebbe passare per il culo, passa altrove e per il culo non passa niente». Dunque Godard lavora ancora sulla metafora bassa, sul porno, sul fatto che qualcosa entra (cibo, immagini, propaganda, discorso femminista), si muove nello stomaco, nella testa, nell’immagine elettronica e poi non esce più, resta “intoppata”, in una mancanza di codificazione, in troppi schermi da vedere, in troppe parole da sentire, in una cattiva digestione. In tal modo, Numéro deux dichiara anche il suo scacco pedagogico, riaffermando il fatto di essere “saggio” inteso come prova, tentativo, letteralmente esperimento scientifico e matematico, in cui si mettono alla prova degli elementi, si contrappongono delle immagini e si cerca in tal modo di arrivare a un risultato. Ciò che manca in questa fase della carriera di Godard, contraddistinta da una drastica pratica di “smontaggio”, è il ritorno alla bellezza dell’immagine [esplicitamente rifiutato proprio dall’immagine 13], all’origine della bellezza riproduttiva del cinema (il mare, un albero, un corpo o, naturalmente, il cinema stesso in Histoire(s) du cinéma). Sarà quella l’unica “uscita” possibile, anticipata in Six fois deux e in France tour/détour deux enfants, e poi ricercata in maniera esplicita, disperatamente romantica, a partire dal suo “ritorno” al cinema degli anni Ottanta. Ma, come fa dire Godard alla fine di ogni episodio di France tour/détour deux enfants ai suoi finti presentatori televisivi, assumendosi il carico di dover portare e sopportare in senso sherazadiano tutte le possibili diramazioni del cinema: «Questa è un’altra storia». Una delle mille e una storia del cinema godardiano.

Info
La scheda di Numéro deux su Wikipedia.

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2 Comments

  1. Roberto Venturoli 05/01/2021
    Rispondi

    Ancora una volta Quinlan con questo esperimento di recensione a due mani manifesta la sua diversità e unicità rispetto ad ogni altra rivista di cinema.
    Purtroppo la recensione manca di un elemento ormai indispensabile per la recensione di un film: manca il film, manca il link o il modo per poterlo vedere. E cosi la recensione è puramente autireferenziale. Si legge un testo che parla di un film per un lettore che non può diventare spettatore. Si illustrano le meraviglie del oesce ma non s’insegna a pescare.

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