Acasă, My Home

Acasă, My Home

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Radu Ciorniciuc esordisce alla regia con Acasă, My Home, che fotografa la vita quotidiana della famiglia Enache, che per quasi venti anni ha vissuto in un’area incolta nel Delta di Bucarest, e si trova costretta a spostarsi in città quando la zona viene trasformata in un parco naturale. Un reportage immersivo non privo di fascino, nonostante perdurino dubbi sull’eccessiva “invisibilità” della videocamera. Miglior documentario al Trieste Film Festival.

Pescando a mani nude

Nell’area disabitata e incolta del Delta di Bucarest, un bacino idrico abbandonato alla periferia della metropoli, la famiglia Enache ha vissuto in perfetta armonia con la natura per due decenni, dormendo in una baracca sulla riva del lago, pescando a mani nude e seguendo il ritmo delle stagioni. Quando questa zona viene trasformata in un parco nazionale pubblico, la famiglia è costretta a trasferirsi in città… [sinossi]

Uno specchio d’acqua torbido, cigni e anatre che vi nuotano, canneti nei quali nascondersi, una piccola canoa che lo attraversa e un ragazzo che emerge tenendo in bocca un pesce che ancora si dimena, pensando forse di riuscire a sopravvivere, a continuare a respirare. L’incipit di Acasă, My Home non può non spiazzare lo spettatore: il nome del regista, Radu Ciorniciuc, il titolo del film e i tratti somatici di quei ragazzi che si muovono increspando il laghetto riportano l’occhio nel cuore della Romania, eppure l’immaginario costringe a spostarsi altrove, in piena wilderness, magari nel sud degli Stati Uniti, nei bayou in cui Walter Hill ambientò I guerrieri della palude silenziosa. Come può un’ambientazione simile esistere nell’Europa Orientale, e ancor più in una grande e inquinata conurbazione metropolitana? In questo senso per una volta appare appropriato e non stolidamente superfluo l’utilizzo estetico del drone, che permette un sano sgranarsi degli occhi quando, ergendosi al di sopra della famiglia Enache allarga lo sguardo e mostra i palazzoni di Bucarest, a poche centinaia di metri, forse uno o due chilometri di distanza. In quel momento si entra in profondità in Acasă, My Home, già applaudito e premiato al Sundance Film Festival del 2020 – quando la pandemia non era ancora una realtà – e presentato nei giorni scorsi nell’edizione online del Trieste Film Festival, dove ha ottenuto il riconoscimento per il miglior documentario in concorso. Non c’è dubbio che Ciorniciuc, autore di reportage giornalistici ma qui alla prima esperienza come regista, abbia saputo cogliere nel segno. Basterebbe d’altro canto una scarna sinossi del film per catturare l’attenzione tanto cinefila quanto del pubblico occasionale: in una vasta area naturale alla periferia di Bucarest vive in una baracca la numerosa famiglia Enache, che si nutre di ciò che riesce a pescare e a vendere nei palazzi popolari. Il capostipite quasi vent’anni prima, nonostante avesse conseguito una laurea, ha scelto di crescere i suoi figli lontani da una società che considera iniqua e costruita su falsi valori. Quando però lo Stato decide di trasformare il posto in cui ha scelto di vivere in un parco naturale attrezzato la famiglia Enache è costretta a spostarsi in una casa popolare, stravolgendo completamente il suo stile di vita.

Quasi avesse tra le mani un bizzarro incrocio tra i documentari sociali e i survival-movie à la Senza lasciare traccia di Debra Granik, con in più qualche suggestione da Huckleberry Finn, Ciorniciuc si lascia a sua volta avvinghiare dal potenziale cinematografico della vicenda, facendo sì che la storia degli Enache lo inghiotta passo dopo passo, facendogli perdere non la “giusta distanza”, pratica che nel documentario è sempre rischiosa, ma la capacità di leggere il reale per cercare davvero di confrontarvisi. Se dunque Acasă, My Home persegue la volontà di tracciare un racconto piano, lucido, che spieghi come possa una famiglia cresciuta nel bel mezzo della natura, con tanti piccoli Mowgli abituati solo a cacciare, giocare e cucinare, abituarsi a vivere nelle ristrettezze economiche e ancor più metriche di un appartamento cittadino, Ciorniciuc poco per volta cerca di scomparire, quasi che la materia che sta trattando fosse oggettiva, inequivocabile, lapidaria. La forza del film, al di là di una fotografia fin troppo ricercata – e il fatto che proprio tale aspetto tecnico sia stato premiato al Sundance desta un minimo di preoccupazione –, sta in questa famiglia e nella sua pervicace capacità di esistere al di fuori dello spazio sociale condiviso e di quello temporale contemporaneo. Lì, nello scandaglio umano, si percepisce la forza del progetto, e anche la sua essenzialità fin troppo abbellita da tendenze estetiche sterili rispetto alla germinante ruvidezza degli Enache. Ciorniciuc però intraprende più strade, e una di queste è la più impervia. Nonostante il tempo trascorso insieme ai suoi protagonisti per riuscire a ottenere la loro fiducia e dunque a registrare la quotidianità su cui si fonda Acasă, My Home, Ciorniciuc e la sua videocamera sono assenti (ingiustificati): non si riflettono negli specchi, a mo’ di vampiri, e sono attraversati dagli sguardi di chi è in scena.

Nessuno guarda in macchina, in Acasă, My Home, e questo testimonia una finzione evidente del reale percepito. Dopotutto in un’intervista a Laura Musat di “Films in Frame” il regista afferma candidamente di non aver scritto linee di dialogo ma di aver costantemente diretto quelli che inevitabilmente, forse, divengono veri e propri personaggi: nulla di nuovo nel mondo del documentario di creazione, ma qui così esibito al punto da trasformare il lavoro di indagine in una drammaturgia, nella rappresentazione di una vita che non può fare a meno di climax emotivi (il figlio che abbandona i fratelli e i genitori per andare a vivere con la fidanzata è il punto di rottura ideale di un dramma famigliare) e non può venire meno a obblighi spettacolari nei confronti del pubblico. Si rimpiange, nonostante gli innegabili meriti del lavoro, che Ciorniciuc non abbia approfittato più spesso della sporcizia del reale, che ad esempio filtra dalla sequenza in cui due dei fratelli vengono pizzicati e maltrattati dalla polizia per aver pescato in un laghetto comunale. C’è più stratificazione in quel “è solo un pesce” gridato come rivendicazione più che come giustificazione che nella maggior parte delle riprese in cui Ciorniciuc deve fingere in ogni modo possibile e immaginabile di non essere lì, di non rappresentare uno sguardo, un taglio di montaggio, una scelta di campo, ma solo un’impossibile e oggettiva verità.

Info
Il trailer di Acasă, My Home.

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