Downstream to Kinshasa

Downstream to Kinshasa

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Presentato nella sessione “So Many Stories Left Untold” del 18° Doclisboa, Downstream to Kinshasa è un documentario del filmmaker congolese Dieudo Hamadi che torna a un trauma della sua città, Kisangani, martirizzata negli scontri della Seconda guerra del Congo. Con rigore herzoghiano mostra la dignità dei suoi concittadini sopravvissuti, con pesanti menomazioni, nelle proprie rivendicazioni, durante la manifestazione nella capitale mentre sono in corso le elezioni.

Giustizia per Kisangani

Per due decenni i sopravvissuti , perlopiù persone rimaste disabili e mutilate, della sanguinosa Guerra dei sei giorni del 2000 in Congo, hanno combattuto a Kisangani per l’ottenimento dei risarcimenti a loro dovuti. Stanchi di suppliche infruttuose, decidono di esprimere le loro rivendicazioni a Kinshasa, dopo un lungo viaggio in barca lungo il fiume Congo. [sinossi]

La città di Kisangani, la ex Stanleyville, nella Repubblica Democratica del Congo, è stata teatro di sanguinosi scontri in quella che è stata ribattezzata la Guerra dei sei giorni del 2000, nell’ambito della Seconda guerra del Congo, che ha visto fronteggiarsi le truppe ugandesi e ruandesi, in un conflitto urbano combattuto metro dopo metro, provocando un migliaio di vittime tra la popolazione civile. Il tutto in un paese profondamente martoriato, vittima dei drammi del colonialismo come del postcolonialismo, oggetto di contese geopolitiche per la sua grande ricchezza di risorse. A quegli eventi di vent’anni fa torna il filmmaker di Kisangani Dieudo Hamadi, con Downstream to Kinshasa (En route pour le milliard è il titolo francese), film con il bollino di Cannes ora presentato nella sessione “So Many Stories Left Untold” del 18° Doclisboa, dopo vari passaggi festivalieri tra cui Toronto, Dok Leipzig e Festival dei Popoli. Il regista si era già occupato di quei momenti con il suo precedente lavoro, Mama Colonel, incentrato sulle violenze sessuali compiute dagli eserciti stranieri. Ora Hamadi mostra quanto le ferite lasciate da quel dramma siano ancora aperte, ci porta in quell’enorme vuoto che è rappresentato dall’area adibita a cimitero, una grande spianata di terra senza nulla, dove sono state tumulate le salme delle vittime, stimate in un migliaio, in fosse comuni. E rende protagonisti i sopravvissuti, con pesanti mutilazioni, con protesi, con stampelle, con gli arti monchi, con cui hanno imparato ad arrangiarsi e a mangiare con le posate o a giocare a basket. Persone che ancora reclamano quei risarcimenti sanciti da una sentenza del Corte internazionale di giustizia dell’Aia, a carico dei governi ruandese e ugandese, bloccati, per burocrazia o malaffare, in qualche cassetto delle autorità nazionali. Dieudo Hamadi dimostra di aver assimilato la lezione di Werner Herzog, di opere quali Futuro impedito per esempio, nel filmare queste persone, senza risparmiare nulla alla vista e al contempo senza mai scadere nel morboso e anzi cogliendone la grande dignità. E al contempo il regista congolese mostra come quelle menomazioni riguardino una fetta consistente della popolazione della città: nella partita a basket in carrozzina, e nella scena della donna che si toglie le protesi dall’ortopedico, per farsele riparare, che pure usa le stampelle.

Dieudo Hamadi realizza un’opera militante, nel seguire, nella seconda parte del film, la protesta degli abitanti di Kisangani davanti al Palazzo del Popolo, sede del parlamento, unendosi alla loro marcia verso la capitale, marcia su una via d’acqua, in barca sul fiume Congo. In un’imbarcazione che racchiude un concentrato di vita africana, tra canti, balli, pentolate di couscous, sotto la minaccia di acquazzoni tropicali. La nave va verso i palazzi del potere portando un’umanità di reietti che chiede dignità, che sembra la folla del finale di La petite vendeuse de soleil di Djibril Diop Mambéty, e che rappresenta la popolazione africana al cospetto del mondo bianco, occidentale, ricco, che chiede i risarcimenti per una storia di sfruttamenti. Nei momenti della manifestazione sotto il palazzo, Hamadi è consapevole anche della lezione godardiana del fare film in modo politico. Utilizza solo il punto di vista della mdp interna, la visione di un operatore continuamente strattonato dalle guardie, inquadrate mentre impongono lo spegnimento della telecamera, con momenti in nero della ripresa. Successivamente il punto di vista è in basso, quello di un soggetto seduto. Hamadi si mette, e ci mette, alla pari con i manifestanti in sit-in, sovrastati dalle figure delle guardie in piedi. Le manifestazioni si intrecciano con la campagna elettorale in corso, dove gli abitanti di Kisangani sostengono i candidati favorevoli a ottemperare le compensazioni per loro. Hamadi osserva ancora una volta una competizione elettorale in quella fragile democrazia, dopo Atalaku, ambientato durante le elezioni presidenziali del 2011, le seconde votazioni libere del paese.

Il cinema di Dieudo Hamadi incarna la coscienza critica del Congo, un paese dalla storia martoriata, tra il colonialismo portoghese, la crisi degli anni Sessanta, la dittatura di Mobutu e le due guerre a cavallo del nuovo secolo. Al paese si è molto dedicato anche Milo Rau con il film The Congo Tribunal, ma anche con numerosi riferimenti nei suoi lavori teatrali. Dieudo Hamadi, non lontano dal regista svizzero, ha concepito Downstream to Kinshasa su due piani paralleli, il documentario e il teatro, dove il secondo apre e chiude il film, e lo inframmezza. È un teatro povero, con i personaggi che si ritagliano nel buio, nelle scene stilizzate. Un teatro musicale e politico dove Brecht si sposa alla tradizione dei griot, a una forma di auto-rappresentazione popolare che è omogenea per esempio ai canti sulla barca. I protagonisti del film, e della rappresentazione teatrale, aprono Downstream to Kinshasa, enunciando al pubblico la loro sofferenza, sempre mettendo in primo piano i loro corpi amputati. «Guardate cosa siamo diventati», recitano nel loro monito, «Pensate che siamo nati così?». Allo spettacolo teatrale è anche affidato il compito di ricostruire gli eventi bellici, ricorrendo sempre all’evocazione, con pochi elementi scenografici. E il film si chiude con la loro recita davanti a un pubblico, non molto numeroso a dir la verità. Sarà la tradizione orale tipica africana, insieme al cinema, a mantenere viva la memoria di quel dramma alle future generazioni spesso al centro dei film di Dieudo Hamadi.

Info
La scheda di Downstream to Kinshasa sul sito di Doclisboa.

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