Taste
di Lê Bảo
Il vietnamita Lê Bảo esordisce alla regia puntando tutto sulla potenza immaginifica del proprio sguardo: la tensione interna al film si fa del tutto estetica, inseguendo squarci pittorici inattesi, in gran parte stupefacenti. Si percepisce invece come una vera forzatura l’impianto narrativo, inessenziale per l’obiettivo finale del regista eppure fin troppo presente, nonostante l’evidente disinteresse con cui viene trattato. Quel che ne deriva è un’installazione visuale che pretende di essere anche seguita, invece che estaticamente ammirata, creando un cortocircuito che dilata lo sguardo ma appesantisce la visione. In Encounters alla Berlinale.
Il topo nel muro
I bassifondi di Ho Chi Minh City sono spazi squallidi e inospitali che non lasciano entrare molta luce solare. Un uomo nigeriano trascorre la sua giornata, apparentemente a suo agio con l’ambiente circostante. Ha vissuto qui a lungo? Lui e il figlio piccolo che ha lasciato a casa sembrano essere abituati alla scarsa interazione che le videochiamate consentono. Quando il suo contratto con una squadra di calcio viene risolto, si trasferisce con quattro donne vietnamite di mezza età. Insieme tornano a uno stato primordiale: pulire, cucinare, mangiare e dormire insieme e fare sesso. [sinossi]
È sempre gratificante, e in qualche modo tonificante, imbattersi in nuovi registi in grado di mettere in mostra uno sguardo deflagrante, potente, capace di muoversi sulla linea sottilissima che divide la necessità dell’immagine e quella della consistenza materica del cinema, a un tempo reale e irreale. In questo senso non si può che salutare con un moto di sorpresa l’esordio dietro la macchina da presa del vietnamita Lê Bảo, Vị (il titolo inglese scelto per la diffusione internazionale del film è Taste, che è la traduzione letterale dell’originale), presentato in anteprima mondiale alla Berlinale all’interno della sezione Encounters, voluta dalla scorsa edizione dal direttore artistico Carlo Chatrian. Ed è un peccato che Taste sia visibile nel febbraio 2021 solo sugli schermi dei computer degli accreditati – o suoi televisori casalinghi –, perché è indubbio che gran parte del lavoro del trentenne cineasta vietnamita si sia concentrato sulla capacità innata di costruire quadri cinematografici capaci di lasciare a bocca aperta lo spettatore. Così Taste, più di altri film, meriterebbe la visione nel buio della sala e sul grande schermo, cosa che dovrebbe essere possibile il prossimo giugno per gli spettatori berlinesi; in tal caso sarà interessante scoprire l’impatto che la costruzione visiva dell’opera avrà sul pubblico, a maggior ragione dopo mesi di allontanamento coatto dalle sale. L’immaginario di Lê Bảo non ha nulla a che spartire con la parcellizzazione dello sguardo della contemporaneità, e perfino quando sulla smaterializzazione emotiva e sensoriale dell’oggi deve ragionare – come nel passaggio in cui il protagonista parla con il figlio rimasto in Nigeria, ricorrendo dunque a internet e a un computer – lo fa da una prospettiva puramente cinematografica, evitando il ricorso a stratagemmi virtuali che tanto spazio hanno trovato nel quotidiano della popolazione mondiale.
La storia narrata in Taste è a un lato semplice da raccontare, e dall’altro nasconde il peso specifico dell’intero film. Un calciatore nigeriano, emigrato in Vietnam per giocare in una squadra, perde il posto e dunque la sua capacità di sostentamento a causa di un infortunio occorsogli a una gamba. Si ritrova così a dividere cibo, spazio e quant’altro con quattro donne, in una casa nei bassifondi della città di Ho Chi Minh, un tempo nota come Saigon. Questa scabra sinossi permette di comprendere fin da subito come il racconto per Lê Bảo esista e nasca solo dal rapporto fruttifero con le immagini, e con il senso che queste acquistano in scena. Fin dall’incipit, dove si vede l’allenatore della squadra per cui gioca il protagonista impegnato a spiegare le fasi di gioco e la tattica ricorrendo a un campo di calcio in miniatura, si percepisce la tensione del quadro lavorato dal regista: quando poi è l’ellisse narrativa a farla da padrone, assieme a un ricorso assai parco alla dialettica tra i personaggi (occorre attendere il ventesimo minuto per ascoltare la prima linea di dialogo) si capisce perfettamente cosa ci si dovrà aspettare. Ci si può leggere dietro il tema della diaspora umana, visto che dopotutto è un immigrato il personaggio principale in scena – per di più immigrato (agli occhi occidentali) da terzo mondo a terzo mondo, una rarità nella rappresentazione cinematografica –, e quindi forse anche una polemica nei confronti della globalizzazione. E si può pensare che Lê Bảo voglia raccontare gli ultimi della classe, gli abitanti dei quartieri più malmessi della città più popolosa del Vietnam, per spirito di aderenza e dunque ravvisarvi un intento politico. Ma sarebbe forse spingere un po’ troppo in là l’analisi. Taste si muoverà pure tra i viottoli più putridi, riprenderà pure topi che escono da fessure del muro, e concentrerà pure lo sguardo su pratiche lavorative desuete, superate dal presente tecnocratico, ma lo fa essenzialmente per gusto – per l’appunto – sensoriale, perché quei muri e quei ciottoli trasudano cinema, al di là chi ha vissuto in quei luoghi e del perché è stato costretto a farlo.
Taste ricorre dunque completamente solo al potere dell’immagine, alla sua annichilente potenza, in grado di sospingere sulla sedia o sulla poltrona chiunque: Lê Bảo è aiutato in questo dalla straordinaria resa fotografica garantita da Vinh Phúc Nguyễn, che costruisce veri e propri tableaux vivants da ammirare l’uno dopo l’altro, senza soluzione di continuità. Il montaggio non diventa più dunque un procedimento narrativo, per quanto sia lavorato da un talento come Lee Chatametikool, ma la giustapposizione di un’opera d’arte immota eppure in movimento accanto a un’altra di medesima portata espressiva. Si può legittimamente parlare di videoarte, per l’esordio di Lê Bảo, ed è difficile nascondere che sotto la superficie, dopo l’impatto estatico con l’opera, resti ben poco. Così poco che viene da chiedersi perché il giovane cineasta abbia voluto a tutti i costi seguire uno schema logico, e approssimativamente anche narrativo: se si voleva ricondurre tutto all’animalità alla base della condizione umana non era necessario raccordare gli spazi, relazionare davvero gli individui in scena, per non parlare dei momenti in cui il protagonista rivela parti del suo trauma e della sua vita del tutto inessenziali ai fini della fruizione di Taste. L’impressione è che Lê Bảo abbia voluto tenere i piedi in due staffe, giustificando la propria esperienza cinematografica come supporto di una visionarietà artistica così debordante da non poter essere trattenuta. Il grande schermo è il luogo deputato a uno sguardo così ricco di suggestioni, ma il cinema è un territorio ancora selvaggio, e sarebbe opportuno avventurarvisi con maggiore peso specifico. Quel che deriva invece dall’occhio di Lê Bảo (che ha sviluppato un suo corto dallo stesso titolo del 2016) è un’installazione visuale che pretende di essere anche seguita, invece che estaticamente ammirata, creando un cortocircuito che dilata lo sguardo ma appesantisce la visione.
Info
Taste sul sito della Berlinale.
- Genere: drammatico
- Titolo originale: Vị
- Paese/Anno: Francia, Germania, Singapore, Taiwan, Thailandia, Vietnam | 2021
- Regia: Lê Bảo
- Sceneggiatura: Lê Bảo
- Fotografia: Vinh Phúc Nguyễn
- Montaggio: Lee Chatametikool
- Interpreti: Olegunleko Ezekiel Gbenga, Thi Cam Xuan Nguyen, Thi Dung Le, Thi Minh Nga Khuong, Thi Tham Thin Vu
- Produzione: Cinema 22, Deuxième Ligne Films, E&W Films, Effortless Work, Le Bien Pictures, Petit Film, Senator Film Produktion
- Durata: 97'

Liliana Rivero 16/02/2022
È questa sorta di movimento statico che ho il privilegio di vivere da un anno. Le scene di Lê Báo mi arrivano come precisa spiegazione della mia intima quotidianità. Geniale