Minari

Con un approccio intimista e mosso da profondi intenti umanisti, Minari è il film con cui Lee Isaac Chung riflette sull’immigrazione, l’integrazione, le perversioni del capitalismo, le idiosincrasie degli USA e propone l’amore come antidoto per ogni male.

L’integrazione ai tempi dell’edonismo reaganiano

David, un bambino di origini coreane, si trasferisce con la famiglia in Arkansas per seguire il sogno del padre Jacob, quello di creare una piccola ditta agricola coltivando frutta e verdura per i coreani immigrati. Siamo negli anni Ottanta e questa scelta, che cambia drasticamente le abitudini di tutta la famiglia Yi, genera incomprensioni, dissapori e una frattura insanabile sembra apparire all’orizzonte quando, con l’arrivo della nonna di David, gli screzi sembrano diventare definitivi e senza soluzioni… [sinossi]

La A24, casa di produzione e distribuzione con sede a New York, sta ridefinendo il concetto di cinema indipendente proponendo, ogni anno di più, opere dall’altissimo valore che si muovono con perfetto equilibrio fra approccio mainstream ed esigenze più autoriali. Una delle ultime produzioni, Minari, diretta da Lee Isaac Chung, ha ricevuto numerose nomination agli Oscar 2021, tra cui miglior film, miglior regia e miglior sceneggiatura originale, dopo aver vinto il Golden Globe come miglior film straniero. Minari si muove su un doppio binario concettuale che vede contrapposti la sfera pubblica con quella privata, in qualche modo legate l’una all’altra, sebbene il film scelga di analizzare con delicatezza le dinamiche più intime della famiglia Yi (o Lee, in quanto traslitterazione del cognome del regista). E non poteva essere diversamente, dato che i presupposti per la storia raccontata in Minari sono squisitamente autobiografici.

Da una parte, dunque, la dimensione pubblica, che prende corpo nella Storia, nella collocazione temporale del film. Gli anni Ottanta, che rifuggono le estremizzazioni, gli stereotipi e le riduzioni che ne hanno fatto opere come Stranger Things, che giustamente lavorava su un contesto di rielaborazione della cultura pop. Qui, gli anni Ottanta non sono sfoggio di strane mode e costumi, ma il contesto sociale con cui Reagan e la sua politica individualista ha portato all’eccesso alcuni postumi del capitalismo. Il sogno del papà Jacob è il risultato di una pressione politica, economica e sociale che negli Stati Uniti era diventata paradigma di vita. Il mondo reaganiano metteva il successo (economico) di fronte a tutto, persino davanti alla famiglia. E così, Jacob e sua moglie, che di lavoro verificano il sesso dei pulcini, rischiano di essere schiantati da un’idea di vita che è un parossismo, che vive di un estremismo etico subdolo.

A esacerbare ancora di più la situazione è l’arrivo della nonna, personaggio anomalo, scardinato dal suo luogo natio per poter supportare la figlia e avvicinarsi un po’ di più ai nipoti. Le difficoltà più grandi si verificano con il piccolo David: la distanza culturale che sussiste tra la nonna e David è in qualche modo emblematica. Appartengono a due mondi diversi, due luoghi diversi, due concezioni di vita diverse. David è più attratto dall’idea esistenziale del padre ma, con il tempo, impara a comprendere la nonna e il suo modo un po’ rozzo di affrontare la quotidianità statunitense e diventa quindi la sintesi attraverso cui costruire un futuro insieme. Ecco la che la sfera intima e privata diventano l’assunto su cui si poggia l’intero film che, alla fine, è un’analisi sulle dinamiche complesse di integrazione nei fenomeni migratori e delle possibili soluzioni a tali problematiche. Perché oltre a una riflessione sulla perversa corsa al successo di reaganiana memoria e oltre a raccontare il modo in cui una famiglia, in un contesto difficile, prova a rimanere compatta, Minari è un film sul complesso processo migratorio e di integrazione. Da questo punto di vista, il film di Lee Isaac Chung raccoglie la sfida tutta contemporanea di affrontare un tema caldo, soprattutto per gli USA post-Trump, approcciandolo in maniera differente rispetto al solito, mutando il punto di vista e la prospettiva.

Non molto diverso dal lavoro fatto da Farewell Amor di Ekwa Msangi. In entrambe le opere si racconta quanto sia complicato subire uno sradicamento e ricostruire una propria identità in un universo culturale, sociale e storico distante dal proprio. Entrambi riflettono con lucidità sul presente a partire dal titolo.
Minari, infatti, è un tipo di prezzemolo coreano che attecchisce molto facilmente, tanto che la nonna stessa decide di coltivarlo in una zona lontano da casa. Il minari del titolo, dunque, è l’allegoria di come la famiglia Yi stia lottando per integrarsi in un mondo che non conosce, in cui viene considerata aliena (si pensi alle sequenze in chiesa e alla diffidenza con cui sono trattati per tutto il film, con l’eccezione del matto Paul – uno strepitoso Will Patton).
Il ritmo di Minari, che anche visivamente lavora su uno sguardo segreto, privato, delicato, è un crescendo. È il ritmo della quotidianità, della scoperta, che cresce narrativamente fino all’ultimo atto, quando la tensione drammatica esplode fino a incanalarsi in un unico futuro possibile. Quello in cui la scala di valori assume finalmente una gerarchia chiara, netta. L’amore e il profondo umanesimo di Minari sono l’antidoto migliore al cinismo che vorrebbe il soldo e il successo come uniche chiavi interpretative dell’esistenza.

Info
Il trailer originale di Minari.
Già premiato in lungo e in largo, Lee Isaac Chung è alle prese con il remake di Your Name. di Makoto Shinkai.
Il sito della casa di produzione e distribuzione A24.

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