Gli uomini che mettono il piede sulla coda della tigre

Gli uomini che mettono il piede sulla coda della tigre

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Prima incursione nel jidai-geki di Akira Kurosawa (genere che segnerà in profondità la cifra stilistica del regista, da Rashōmon a I sette samurai, da Il trono di sangue, La fortezza nascosta e La sfida del samurai a Kagemusha e Ran) Gli uomini che mettono il piede sulla coda della tigre mostra già brillantemente la sua poetica espressiva, esaltando i gesti di insubordinazione. Un dettaglio che non piacque né alla censura della dittatura militare, che lo bocciò, né alle forze d’occupazione americane, che non diedero il nulla osta per la proiezione pubblica, che fu possibile organizzare solo nel 1952, dopo l’entrata in vigore del Trattato di San Francisco.

Battere il padrone

Nel 1185 Minamoto no Yoshitsune è ricercato dal fratello, lo shogun Yoritomo, che crede erroneamente egli sia colpevole di sedizione. Yoshitsune si dirige con sei servitori guidati da Musashibō Benkei nel paese del suo unico amico, Fujiwara no Hidehira. Arrivati presso Kaga, il facchino della compagnia scopre la loro vera identità e poco dopo li avverte che le guardie della vicina barriera sono in allerta e sanno del travestimento. Yoshitsune quindi si traveste da facchino, ma alla barriera Benkei e gli altri corrono il rischio di venire arrestati… [sinossi]

Il 10 settembre del 1951 a Venezia al giuria presieduta da Mario Gromo assegna il “Leone di San Marco” (questa la dicitura con cui all’epoca è noto il Leone d’Oro) a Rashōmon, tra lo stupore generale: Akira Kurosawa è il primo regista giapponese a far breccia nel proscenio occidentale e internazionale, con un successo che cambierà in maniera radicale i rapporti tra l’Europa e la produzione cinematografica nipponica. Appena due giorni prima, l’8 settembre, il Giappone ha vissuto un momento ancor più epocale allorquando Shigeru Yoshida, primo ministro e membro di spicco del Jimintō (nonché storico ambasciatore in Italia e Gran Bretagna nel corso degli anni Trenta), pose la firma in calce al Nihon-koku to no Heiwa-Jōyaku, com’è chiamato in Giappone il “Trattato di San Francisco”. L’accordo, siglato tra il Giappone e le Forze Alleate della Seconda Guerra Mondiale, sanciva di fatto in modo definitivo la sconfitta bellica dell’impero giapponese, costringendolo a rinunciare a qualsiasi rivendicazione sui territori della Corea, di Taiwan, di Hong Kong, delle isole Curili, delle Pescadores, delle isole Spratly, dell’Antartico e dell’isola di Sachalin. Terminava anche l’occupazione militare del territorio giapponese da parte delle truppe statunitensi agli ordini del generale Douglas MacArthur – in realtà rimosso dall’incarico già qualche mese prima per “grave insubordinazione” nei confronti di Washington – che tanto peso aveva avuto nel difficile periodo della ricostruzione morale ed effettiva del Paese. Se il Trattato di San Francisco, con tutte le scorie interne che creerà, apre un vasto segmento della storia del Giappone moderno che culminerà da un lato con la formazione dell’Armata Rossa Giapponese, e dall’altro con il seppuku – il suicidio rituale – di Yukio Mishima negli uffici dell’esercito di autodifesa, l’unica branca armata consentita alla nazione, allo stesso tempo permette al cinema giapponese di uscire dal cono d’ombra del controllo militare degli Stati Uniti. E a giovarne sarà proprio Kurosawa…

Quando il 24 aprile del 1952 nelle sale giapponesi esce Gli uomini che mettono il piede sulla coda della tigre (conosciuto in Italia anche con il titolo Gli uomini che camminavano sulla coda della tigre, mentre l’originale 虎の尾を踏む男達, vale a dire Tora no o wo fumu otokotachi, potrebbe essere tradotto come “Gli uomini che calpestano la coda della tigre”) in pochi sembrano prestare particolare attenzione all’evento. Dopotutto di Kurosawa si trovava ancora in sala L’idiota, rilettura moderna del romanzo di Fëdor Dostoevskij che era stato stroncato dalla critica giapponese e bocciato senza appello dal pubblico (arrivando in sala in una versione ampiamente tagliata rispetto ai desideri del regista), e di lì a pochi mesi sarebbe arrivato Vivere, destinato invece a ben altre fortune critiche – fu anche designato come film dell’anno dalla prestigiosa rivista “Kinema Junpō”. Nella primavera del 1952, con il Trattato di San Francisco ufficialmente in vigore dal 28 aprile, quasi nessuno dunque si interessò a Gli uomini che mettono il piede sulla coda della tigre, probabilmente poco aiutati in tal senso anche dalla bizzarra durata dell’opera che si attesta appena sotto i sessanta minuti. D’altro canto il film era vecchio di ben sette anni, ed è forse da qui che è necessario partire per tentare di approfondire l’analisi. Nel pieno del periodo bellico e del governo militare, dopo aver lavorato come assistente alla regia per 24 film, di cui ben 17 diretti da Kajirō Yamamoto, Akira Kurosawa esordisce dietro la macchina da presa nel 1943 con Sanshiro Sugata, film sportivo di grande successo commerciale che lo portò addirittura a dirigerne un seguito nel 1945. Tra i due titoli si dedica anche a un film di propaganda, Lo spirito più elevato, dedicando le sue attenzioni però alle operaie di una fabbrica di lenti al lavoro mentre gli uomini sono al fronte. Mentre la Seconda Guerra Mondiale si avvicina al tragico epilogo con cui il Giappone capitolerà definitivamente – il fungo atomico che si allarga nei cieli di Hiroshima e Nagasaki – il trentacinquenne Kurosawa coltiva il desiderio di confrontarsi con il jidai-geki, i film d’ambientazione storica che tanto peso avranno all’interno della sua filmografia, da Rashōmon a I sette samurai, da Il trono di sangue, La fortezza nascosta e La sfida del samurai a Kagemusha e Ran. Il personaggio su cui vorrebbe concentrarsi è Nobunaga Oda, daimyō che ebbe un ruolo centrale nell’unificazione del Giappone, ma il progetto – che rivisto e corretto diventerà trentacinque anni più tardi il crepuscolare Kagemusha, con protagonista Tatsuya Nakadai e Daisuke Ryu nei panni di Oda – è troppo sfarzoso e costoso, distante anni luce sia dalle possibilità produttive di una nazione in guerra sia dalle possibilità di un regista così giovane e inesperto. Kurosawa ripiega dunque su un testo più semplice, desunto dal dramma kabuki di Namiki Gohei III Kanjinchō, a sua volta tratto dalla drammaturgia Nō Ataka, pubblicata nel 1465 da Kanze Kojiro Nobumitsu, scrittore teatrale del Periodo Muromachi. Rappresentata per la prima volta nel 1840, ultimo ventennio del Periodo Tokugawa, Kanjinchō torna molti secoli indietro, fino ai tumultuosi tempi sul finire del XII secolo, quando il Periodo Heian andava verso il suo crepuscolo pronto a lasciare posto al Periodo Kamakura.

Basandosi su un testo teatrale Kurosawa ha la possibilità di lavorare su un proscenio semplice, limitando al minimo le location e i personaggi in scena, ma allo stesso tempo elaborando già con forza la poetica espressiva che deflagrerà nei film successivi, a partire in maniera evidente da I sette samurai. Kurosawa, facendosi beffe della fedeltà al testo, inventa di sana pianta un personaggio, quello del facchino interpretato da Ken’ichi Enomoto, comico meglio noto come Enoken (Kurosawa lo aveva conosciuto lavorando sui set di Yamamoto, il regista che per primo aveva colto le potenzialità espressive dell’attore): un contadino senza terra che fa di tutto per farsi assumere come facchino per poi essere il primo – e l’unico – a smascherare la congrega di finti monaci, dietro la quale in realtà si nasconde il principe Minamoto no Yoshitsune con i suoi fedeli servitori armati. Il personaggio del contadino/facchino anticipa già il Kikuchiyo che nel 1954 renderà immortale il volto di Toshirō Mifune. Le quasi divinità principesche, costrette a nascondersi in vesti sacre per non essere riconosciute e messe a morte, vengono facilmente scoperte da un umile contadino, ciarliero il basta e – come spesso accade nel cinema di Kurosawa – ben più brillante di quanto si possa presumere. L’umanizzazione del potere divino (è doveroso ricordare come nella cultura shintoista la dea Amaterasu penetri materialmente nel corpo dell’imperatore, che diviene oggetto di culto nell’Arahigotami ed è non a caso chiamato tennō, vale a dire sovrano celeste) è il primo fortissimo atto di insubordinazione del cinema di Kurosawa rispetto alle tradizioni culturali giapponesi. Il fatto che rientri in un film che si basa proprio su testi storici e possa rientrare a pieno diritto nel campo della “commedia” appare ancor più rivoluzionario. È invece già nel testo lo stratagemma con cui il fido Musashibō Benkei salva il suo padrone dal rischio di essere scoperto proprio a un passo dal confine: trattandolo alla stregua di un servitore qualsiasi lo percuote ripetutamente con un bastone.

Nessuno, nel Giappone feudale – ma anche dopo, sembra suggerire Kurosawa – oserebbe mai colpire una persona più in alto di lui nella scala gerarchica naturale, e quindi lo stratagemma va a buon fine. Come si trattasse di una ballata agrodolce che guarda anche alla wilderness americana (e Kurosawa era un cultore di John Ford) Gli uomini che mettono il piede sulla coda della tigre si muove su un passo picaresco, e non può che concludersi, oltre che con il perdono di Benkei da parte di Yoshitsune – che ha ben compreso i motivi che hanno spinto il suo soldato a rompere in modo così clamoroso con le regole feudali –, con una gaudente bevuta collettiva, come se il lirismo soffuso sviluppato fino a quel momento potesse rilassarsi sulle orme di Anacreonte. Opera di struggente levità, Gli uomini che mettono il piede sulla coda della tigre mostra un Kurosawa ancora rivolto alle avanguardie storiche – espressionismo e surrealismo, oltre a vagiti di impressionismo si fanno largo tra le maglie della messa in scena, a partire dalla scelta dell’illuminazione – ma già proteso al moderno, alla ridefinizione della cultura giapponese e all’annullamento dei dogmi. Un’opera a suo modo eretica, che venne bocciata dalla censura militare perché metteva in cattiva luce il Giappone storico e le sue tradizioni secolari. Non appena terminata la guerra Kurosawa tornò alla carica sottoponendo l’opera anche all’esercito occupante americano e alla sua censura, ma venne bocciato nuovamente: a detta di MacArthur il “nuovo Giappone” doveva pensare alla contemporaneità, lasciando per sempre da parte i samurai, la Storia e il passato. Il potere, quello cui era sfuggito l’esercito di Yoshitsune facendosi passare per monaci – con tanto di declamazione sacra inventata dal nulla da Benkei leggendo un foglio bianco, tra lo sgomento del contadino – abbatté la sua scure ferale su Gli uomini che mettono il piede sulla coda della tigre, costringendolo all’oblio per ben sette anni, fino al 1952, quando Kurosawa era oramai un regista celebrato in tutto il mondo e il passato non faceva più così paura. Forse.

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