La finestra sul cortile

La finestra sul cortile

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Tra i più celebri e amati capolavori di Alfred Hitchcock c’è senza dubbio La finestra sul cortile, sardonica commedia che inserisce il “delitto” in una cornice prettamente domestica ragionando sul dispositivo dell’immagine, sul voyeurismo non come patologia ma come elemento svelatore e infine – in modo inevitabile – sul cinema, e la funzione spettatoriale. Perfetto in ogni suo passaggio, teorico senza mai rinunciare alle necessità perfino lineari del racconto, è dominato da un James Stewart al massimo del suo fulgore. Un’opera immortale, che interroga lo sguardo a ogni nuova visione.

L’occhio che indaga

In una torrida estate newyorchese, in un comprensorio del Greenwich Village, il fotografo L.B. Jeffries (chiamato da amici e affetti semplicemente Jeff) è immobilizzato su una sedia a rotelle con una gamba ingessata a seguito di un incidente. Annoiandosi mortalmente passa le giornate a spiare quello che accade negli appartamenti dei suoi dirimpettai, tra amori che nascono e finiscono e solitudini assortite. Una notte, addormentatosi proprio davanti alla finestra, viene risvegliato di colpo dall’urlo di una donna. Da quel momento inizia a convincersi che uno dei suoi vicini, Lars Thorwald, abbia ucciso la moglie e si sia sbarazzato del cadavere. Nessuno gli crede, neanche l’amico che lavora nella polizia. Ma forse la verità può venire a galla, se si continua a spiare… [sinossi]

L’occhio è per così dire l’evoluzione biologica di una lacrima, amava affermare Alberto Grifi, uno che sulla possibilità infinita del guardare aveva costruito parte consistente della sua poetica (l’immagine già vista/usata di Verifica incerta, il quotidiano osservare di Anna, i giochi ottici rotanti di Giordano Falzoni, la documentazione contro-documentale di Parco Lambro o di Lia). L’occhio è un organo essenziale nella sfera percettiva dell’umano, ed è allo stesso tempo il più ingannevole, forse proprio perché originato da una lacrima, da una struttura liquida che è pellicola, tesa a ricoprire e non a svelare. L’occhio è ingannevole perché afferma un’oggettività impossibile, quella della forma, della combinazione cromatica, della profondità di campo. Sull’occhio come vertice dell’inganno il cinema ha ragionato e continuerà a ragionare anche in modo a tratti inconsapevole, ma nessun cineasta è finora riuscito a eguagliare la speculazione hitchcockiana sul tema, così teorica da potersi adattare senza forzature di sorta alla più rutilante delle avventure, alla suspense che è l’elemento in cui l’occhio è invece perennemente frustrato, perché ignora ciò che il regista già sa, il mistero di quello che si sviluppa nel buio, dietro l’angolo, dietro la porta chiusa. L’occhio è l’elemento centrale di buona parte del cinema di Alfred Hitchcock, molti dei suoi personaggi sono costretti a guardare fisso in macchina, perché non c’è altro spazio che è loro concesso per elaborare lo sguardo: la fissità di uno spazio cieco, l’occhio-non-occhio della camera, dentro il quale sprofondare, come accade a James Stewart, ma anche a Ingrid Bergman, Grace Kelly, Janet Leigh. Quel fissare la camera che è un mondo per fissare lo spettatore ma anche per enunciare l’immensità di uno spazio invisibile all’occhio che è quello che non è dato sapere al pubblico. La percezione del controllo del quadro cinematografico demitizzata, frustrata, vilipesa. C’è poi l’occhio come vertigine del senso, spirale da cui non v’è ritorno, tanto ne La donna che visse due volte quanto in Psyco. L’occhio è spalancato di fronte all’ignoto come di fronte alla morte (e ovviamente post-mortem), dal detective privato in cima alle scale alla donna becchettata al volto dagli uccelli. Ci sono i mille occhi pensati da Dalì in Io ti salverò, perfino recisi in un recondito desiderio di ritornare all’origine dell’avanguardia, in un buñuelismo raffinato nella sua postura d’omaggio. L’occhio, l’elemento indispensabile per godere del cinema. L’occhio aperto spalancato anche di fronte all’orrore, o forse soprattutto di fronte all’orrore, l’abisso che tutto attrae dell’aforisma nietzschiano. Anche L.B. Jefferies, da tutti chiamato Jeff, il protagonista de La finestra sul cortile non può far altro che guardare. Anzi, è costretto a guardare, perché da quando è stato coinvolto in un incidente automobilistico durante il lavoro (è un fotografo di professione) è immobilizzato sulla sedia a rotelle – solo ingessato, non c’è una condizione permanente della lesione, elemento che sottolinea ancora di più il perverso gioco della morbosità insito nell’idea di sguardo di Hitchcock – nel suo appartamento newyorchese, e senza alcuna voglia di leggere parole scritte può leggere la vita attraverso l’occhio. La vita degli altri, ovviamente. Come il carcerato sogna la libertà fuori dalla sua cella, così l’immobilizzato Jeff cammina attraverso l’occhio della camera, panoramicando sui suoi vicini armato di binocolo e della sua macchina fotografica con teleobiettivo. Nessuno dei suddetti vicini, oltre a rendersi conto di essere spiato fa nulla per nascondersi, visto che è estate inoltrata e il termometro segna ben oltre i trenta gradi.

Se è naturale osservare, e guardare gli altri – è solo la morale a censurare un simile comportamento, e infatti si fa portatrice della reprimenda il personaggio più perbene dell’intero film, la bella ed elegantissima Lisa, la fidanzata di Jeff – è proprio la natura, nel senso atmosferico del termine, ad agevolare il compito del protagonista. L’occhio esce fuori da sé per concentrare l’attenzione sull’altro, in questo modo svicolando tanto dai propri problemi (la reclusione fisica dovuta alla gamba ingessata) quanto dalle proprie responsabilità. L’occhio aperto sul piccolo mondo circostante è infatti ovviamente la scusa migliore per astrarsi dalle richieste della fidanzata, inerenti in modo quasi ossessivo la volontà di sposarsi, diventando a sua volta, il vulcanico Jeff, un uomo perbene. E poco cambia che l’orizzonte sia costantemente uguale a sé, visto che il palazzo che ha di fronte segna in modo inequivocabile il confine ultimo dello sguardo, eccezion fatta per un piccolo spicchio di strada che si intravede dal portone d’ingresso dello stabile. L’umanità può essere indagata nel suo intimo con procedura quasi entomologica, neanche quelle donne e quegli uomini – più un grazioso cagnolino cui arriderà, povero lui, una sorte violenta e tragica – fossero insetti. Ma non è dopotutto questa l’idea stessa del cinema, fin dalla sua invenzione tecnica? Che senso ha riprodurre non solo l’immagine/spettro immobile, come nella fotografia, se non si può occhieggiare con sprezzo del disdoro nelle vicende che non ci riguardano direttamente? Non è forse, come non colse una quindicina di anni fa Florian Henckel von Donnersmarck, il cinema il primo e più minuzioso ma anche nobile spione delle “vite degli altri”? Come sovente agito nel cinema di Hitchcock, il protagonista de La finestra sul cortile non è certo un esempio di virtù: scapolo incallito, per quanto non disdegnante le lusinghe del femminile – e infatti ufficialmente impegnato, suo malgrado –, sarcastico oltre ogni dire, al punto di battibeccare continuamente con l’infermiera che si prende a domicilio cura di lui, la Stella interpretata da Thelma Ritter che svolge le funzioni della moglie mentre Lisa è ancora “inquadrabile” come amante, impiccione. Spia la ballerina che si allena in mutande, entra nelle camere da letto degli sposini, e ovviamente incappa nell’omicidio. Una donna scompare, altro topos hitchcockiano, tecnicamente proprio sotto gli occhi del protagonista, che però casualmente non sta vedendo in quanto addormentato (né potrebbe, perché nonostante l’afa estiva è ancora possibile abbassare le serrande – come già si intuiva nel sontuoso incipit di Nodo alla gola, poco più di un lustro prima) l’unica cosa che sarebbe davvero importante vedere. Anche questo è cinema, d’altro canto, osservare il superfluo, magari sbirciando sul limitar dell’inquadratura perdendo di vista quello che si sta agitando al centro della stessa.

“A New York la pena prevista per i guardoni è di sei mesi in una casa di lavoro” (in originale “New York sentence for a Peeping Tom is six months in the workhouse”). Il primo criminale, l’unico dichiarato tale oltre ogni ragionevole dubbio non è l’uxoricida Lars Thorwald interpretato da Raymond Burr pre-Perry Mason, ma proprio Jeff, che non sa resistere alla tentazione di spostare lo sguardo nel territorio della censura. Se i migliori crimini sono domestici, come amava sogghignare Hitchcock, in ognuno degli appartamenti/celle se ne sta consumando uno: c’è chi pensa al suicidio dopo aver subito le avance violente di un tipo conosciuto in modo casuale, chi litiga in continuazione, chi aspetta che l’innamorato torni in congedo dall’esercito. Il mondo umano del comprensorio che è lo spazio chiuso – cinema nel cinema – de La finestra sul cortile, non arriva al gesto estremo e crudele di Thorwald (che dopotutto in tedesco è traducibile come “foresta di Thor”, quasi una distesa boscosa di fulmini e saette), ma è disilluso, disperato, solo, inappagato. Il cinismo hitchcockiano, mai privo di umana pietas sempre controbilanciata per un sano gusto per il ghigno paradossale, non osserva altro che miseria, e se non fosse per il teleobiettivo (e dunque in forma estesa e allargata per il meccanismo cinematografico) l’assassino di una donna allettata e malata la farebbe franca, scapperebbe con i gioielli della moglie e si rifarebbe una vita altrove. E, come sempre capita con i villain di Hitchcock, non si può di quando in quando non desiderare che questo schema orribile riesca fino in fondo, e che Thorwald raggiunga il suo scopo. Per evitare che l’immedesimazione con il cattivo si sviluppi in modo eccessivo, Hitchcock deve renderlo un pericolo non in quanto tale – basterebbe e avanzerebbe il solo fatto di aver soppresso la moglie, per poi strozzare il cagnolino dei vicini che rischiava di smascherarlo andando a scavare proprio dove aveva sepolto alcuni pezzi della consorte – ma per i suoi protagonisti, dapprima Lisa e quindi Jeff. Se la prima situazione mostra l’impotenza dello sguardo di fronte all’azione umana, con Jeff che non può far altro che osservare a distanza il bruto sorprendere la sua fidanzata nell’appartamento (verrà salvata dalla polizia, inutile come sempre in Hitchcock ma qui almeno svolgente le parti di protettori – saranno poliziotti ad attutire la caduta dalla finestra di Jeff nel finale), la successiva situazione ribalta la questione grazie all’intervento del vero deus ex-machina: l’obiettivo. Jeff guarda dalla finestra Lisa introdursi furtivamente nell’appartamento di Thorwald. È l’occhio umano a spingersi oltre la liceità morale – intrufolarsi in casa altrui non è comportamento da persone perbene, ed è qui che l’attrazione strettamente fisica per Lisa si tramuta in Jeff in vero amore coniugale, grazie anche all’intercessione della preoccupazione per le sorti di qualcuno che ci è caro –, rischiando tutto per il solo gusto della scoperta, ma senza armi con le quali difendersi da eventuali pericoli esterni, come il ritorno a casa improvviso dell’uomo. Quando invece Thorwald, avendo ormai capito che il suo dirimpettaio conosce il suo segreto, decide di mettere a tacere Jeff introducendosi lui nell’appartamento del fotografo, è proprio la tecnica fotografica – e quindi per traslato cinematografica – a salvare la vita all’eroe. Il flash sparato in faccia nel buio totale della stanza rallenta l’incedere di Thorwald, permettendo alla polizia di arrivare in tempo, senza per questo evitare la caduta nel vuoto di Jeff (nulla a che vedere con quel penzolare aggrappato a un cornicione che traumatizzerà per sempre James Stewart in Vertigo). Così com’è il cinema a scoprire i mostri della quotidianità – in un processo di incarnazione del giusto nella macchina che non è poi così dissimile dall’affermazione, fatta da Woody Guthrie parlando della sua chitarra, che “this machine kills fascists” – è sempre il cinema a salvare. Non lo sguardo in sé e per sé, accessorio naturale del corpo umano e dunque soggetto alla psiche che domina il corpo (o viceversa, se si vuole), ma la macchina industriale, l’oggetto tecnologico, l’estensione di ciò che non è più corpo. In questo senso il Peeping Tom di Michael Powell è sì gemello omozigoto di Psyco, ma anche pellicola negativa de La finestra sul cortile, perché lì è la macchina a fungere da strumento omicida, con il pugnale montato sul treppiedi della cinepresa utilizzata da Mark Lewis/Carl Boehm.

Per Hitchcock il voyeurismo, la tensione a dover vedere ciò che fanno gli altri, non ha in sé invece nulla di patologico. È la maniera con cui l’essere umano impara invece a leggere il mondo, a squadernare le proprie paure più intime – sarà così a suo modo, pur nella tragedia, per Norman Bates – e a rivedere o confermare quelle che sono le sue convinzioni. Ne La finestra sul cortile questa acuta riflessione si svolge in modo del tutto lineare, quasi “semplice”, dimostrando forse persino in modo più palese che in altre occasioni la straordinaria capacità narrativa di Hitchcock, il suo gusto per l’ironia beffarda, la sua capacità di fondere l’aspetto teorico con una scrittura che sia in grado di tenere sospeso il respiro anche del più recalcitrante e svogliato degli spettatori. Una narrazione che ne La finestra sul cortile è del tutto gestita dal macchinario cinematografico: la panoramica, lo zoom, la messa a fuoco, la profondità di campo, sono le armi a disposizione sia di Jeff all’interno della finzione che di Hitchcock, e vengono usate con una naturalezza sconvolgente, come se quell’intrico di umanità così varia da arrivare all’atto estremo dell’omicidio fosse leggibile muovendosi sulle punte, a mo’ della bella ballerina bionda. Sublime commedia che rivoluziona, come spesso capita con Hitchcock, l’intero senso della visione e delle altezze raggiungibili dal cinema, La finestra sul cortile è sardonico come non mai, al punto che dopo neanche dieci minuti la saggia – e un po’ reazionaria – Stella inchioda lo spettatore alle sue colpe: “Oh signore, siamo diventati una razza di guardoni; la gente farebbe meglio a guardare dentro casa propria, tanto per cambiare. Eh sì, non è valida questa filosofia domestica?”.

Info
Il trailer originale de La finestra sul cortile.

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