Le sommet des dieux
di Patrick Imbert
Presentato al Festival di Cannes 2021 nella cornice piuttosto riduttiva del programma Cinéma de la Plage, Le sommet des dieux di Patrick Imbert affronta con coraggio e filologica dedizione l’impossibile impresa di portare sul grande schermo uno dei capolavori di Jirō Taniguchi. Troppo pochi novantaquattro minuti, ma il tratto, lo spirito e l’amore per la montagna restano intatti.
Perché vuole scalare l’Everest? Perché è lì.
Il fotoreporter giapponese Fukamachi si imbatte accidentalmente in una macchina fotografica che potrebbe essere appartenuta a George Mallory, un famoso alpinista scomparso nel 1924 durante una delle prime ascensioni dell’Everest. Fukamachi viene derubato prima di poter verificare se la pellicola è ancora all’interno, ma scopre che la piccola macchina fotografica è finita nelle mani di Jōji Habu, un alpinista avvolto nel mistero, sparito dai radar nel 1985 dopo aver disertato una spedizione sulla vetta più alta dell’Himalaya… [sinossi]
Habu a un côté Capitaine Achab dans Moby Dick,
il a quelque chose à régler avec la montagne.
– Dider Brunner, produttore de Le sommet des dieux.
Se il passaggio dalle pagine scritte di Baku Yumemakura a quelle disegnate di Jirō Taniguchi può essere considerato indolore o persino un passo in avanti, è chiaro che la riduzione cinematografica di un’opera in cinque corposi volumi debba essere affrontata da un’angolazione diversa, con altre attese e pretese. A nessuno, infatti, basterebbero novanta minuti per riassumere la storia, i dettagli, lo scandaglio psicologico e la portata epica delle numerose e corpose tavole di Taniguchi. Ci sembra questa la doverosa premessa per affrontare, in sede di visione e poi di analisi, l’opera seconda Le sommet des dieux di Patrick Imbert, regista e sceneggiatore che aveva già firmato con Benjamin Renner l’antologico Le Grand Méchant Renard et autres contes e che ha supervisionato le animazioni di Ernest & Célestine e Avril et le monde truqué – scavando tra le sabbie del tempo lo ritroviamo anche tra gli animatori di un’altra complicata impresa, Corto Maltese: Corte Sconta detta Arcana (2002) di Pascal Morelli.
Il passo tra Hugo Pratt e Taniguchi non
è breve, ma le intenzioni sono ugualmente nobili. A differenza del
meno memorabile lungometraggio di Morelli, Le sommet des dieux può
però contare su una maggior dose di talento, di budget e di tempo.
E, aspetto non secondario, sul tratto pulitissimo di Taniguchi e
sulla sua messa in scena accostabile a uno storyboard. In questo senso, lo stile grafico del
mangaka giapponese si rivela chiaramente più adatto al grande schermo rispetto alle linee più impressioniste, libere e
mutevoli del grande fumettista italiano.
Per nostra fortuna, l’idea
di assecondare il fotorealismo dei paesaggi di Taniguchi attraverso
l’utilizzo della computer grafica è presto tramontata e il film di
Eric Valli e Jean-Christophe Roger si è trasformato nell’opera
seconda di Imbert, legato all’utilizzo dell’animazione tradizionale,
unica tecnica che possiamo immaginare per non tradire l’arte del
maestro nipponico.
A proposito di tradimenti. L’afflato filologico dei paesaggi, che rubano lo sguardo sul grande schermo, è il plus valore de Le sommet des dieux. In questo caso, il fotorealismo non è fine a se stesso: non rispetta solamente l’opera originale, ma conferma l’assoluta spettacolarità della montagna e la sua centralità narrativa – in particolare dell’Everest, coprotagonista della pellicola e traguardo sportivo e filosofico di Fukamachi e Habu. Discorso leggermente diverso per il character design, che prende un po’ le distanze dallo stile e dal perfezionismo di Taniguchi – una scelta comprensibile. Come comprensibile è il lavoro di sottrazione in fase di sceneggiatura: «Quatre ans de travail sur le scénario auront été nécessaires pour aboutir à l’essentiel: suivre Habu dans sa quête et Fukamachi dans son enquête en délaissant les intrigues secondaires»1. Sul piano squisitamente narrativo il tradimento è infatti inevitabile e Le sommet des dieux non finge mai di essere altro, se non l’essenza, o quantomeno una parte decisiva, delle millecinquecento pagine del poderoso fumetto.
Achab delle montagne, Jōji Habu ci prende in spalla e ci porta fino alla cima dell’Everest e ci suggerisce cosa guardare, come guardare, come e dove perdersi, soffrire, ripartire. Il lavoro di Imbert e dei suoi più che validi colleghi coglie proprio questa grandezza umana, ma anche e soprattutto la dimensione fuori scala dell’Himalaya, della montagna, della Natura, delle sfide impossibili che hanno sempre attirato l’essere umano. Il fotorealismo intervallato a quadri pittorici ci restituisce pienamente lo squilibrio così affascinante e al tempo stesso così terribile tra le minute figure degli scalatori e l’inscalfibile maestosità millenaria delle montagne. Alla fine, Le sommet des dieux ha scalato la sua montagna.
Note
1 Cfr. Le sommet des dieux – Pressbook, Julianne Films, Folivari, Mélusine Productions, France 3 Cinéma, AuRA Cinéma, pag. 5.
Info
La scheda de Le sommet des dieux sul sito di Cannes.
Una clip tratta da Le sommet des dieux.
- Genere: animazione, avventura, drammatico
- Titolo originale: Le sommet des dieux
- Paese/Anno: Francia, Lussemburgo | 2021
- Regia: Patrick Imbert
- Sceneggiatura: Jean-Charles Ostoréro, Magali Pouzol, Patrick Imbert
- Montaggio: Benjamin Massoubre, Camillelvis Théry
- Colonna sonora: Amin Bouhafa
- Produzione: Folivari, Julianne Films, Mélusine Productions
- Durata: 90'
