Pathos Ethos Logos

Pathos Ethos Logos

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Presentato fuori concorso al 74 Locarno Film Festival, Pathos Ethos Logos è un’opera monumentale dei cineasti portoghesi Joaquim Pinto e Nuno Leonel Coelho che, in una trilogia della durata complessiva di quasi undici ore, contempla i temi cardine della cultura occidentale, il cristianesimo, l’arte, la storia comprensiva degli orrori coloniali.

In principio era il Logos

Una trilogia ambientata nel 2017, 2028, 2037. Una donna anziana, Angela, si prende in custodia Ruben, figlio di due giovani sposi cui aveva affittato una stanza. Rafaela è una ragazza che vuole dedicare la vita a una causa etica, mentre studia e interpreta personaggi femminili del passato. Telmo realizza con estrema precisione diorami in miniatura su eventi bellici della storia. [sinossi]

Con la rappresentazione di una cosmogonia inizia Pathos, primo capitolo di un ambizioso trittico cinematografico, Pathos Ethos Logos, opera della coppia di cineasti portoghesi Joaquim Pinto e Nuno Leonel Coelho, presentato fuori concorso al 74 Locarno Film Festival. Un’opera grandiosa, della durata complessiva di quasi undici ore, volta a contemplare i cardini della cultura occidentale, europea, nella matrice del cristianesimo, spaziando tra arte, storia, filosofia ma anche non omettendo le aberrazioni, colonialismo, stermini, che questa stessa cultura ha partorito. La Luce, l’umanità, il Verbo, la carne, le tenebre, le ombre, l’eternità e la mortalità. Principi che all’inizio i cineasti traducono anche con lo schermo nero puro, momenti di buio totale, impensabili al cinema se non da registi ‘illuminati’ come João César Monteiro, con cui entrambi hanno collaborato, nel suo Branca de Neve. Dal nero erompe la luce, la storia della vita e dell’umanità, fatta di luci e ombre, dove il corpo è ombra dell’anima. Ombre che sono platoniche, e numerose caverne si vedranno nel film, come quella associata all’episodio di Vittoria Colonna, o quella dei fidanzatini nel terzo capitolo. La luce che irrompe nel buio è l’essenza stessa del cinema, fatto di luce e ombre. Dopo il nero iniziale vediamo un orribile demone che sta per ghermire un bambino in fasce ma viene prontamente ucciso con un colpo di spada sferrato da un angelo dalle fattezze femminili di una donna anziana. Un angelo che si incarnerà nella vita terrena, e nel film, nella figura di Angela. Una figura mortale, che sarà seppellita nel terzo episodio, nel futuro, nell’anno 2037, in un mondo contaminato. Del resto fa parte di quel paradosso della mortalità del figlio di Dio, il Logos, cardine della concezione cristiana, che dovrebbe appartenere piuttosto alla sfera dell’eternità, un paradosso molto dibattuto da filosofi e teologi come in una lunga dissertazione del film.

Angela esce dal suo appartamento richiamata dalla dirimpettaia, anche lei un’anziana signora, preoccupata dai colpi che sente in un altro piano. Colpi come quello che chiuderà, circolarmente, il film nel terzo capitolo. Le figure delle due donne si stagliano nel buio, schiarite solo dalle fonti di illuminazione interne all’inquadratura. Siamo alla vigilia di Natale, celebrazione del Dio che si fa uomo, momento che tornerà nel film, celebrazione di due secoli di scienza, progresso e illusioni. Festa o funerale? Si chiede Angela, che ha la casa piena di foto, cartoline del passato, tra cui immagini orribili di decapitazioni in un contesto di guerra coloniale. La donna percepisce una sensazione di fine della civiltà. La storia dell’umanità è costellata di luci, ombre e crolli. Ancora Angela, contemplando la sua relazione con Ruben, il figlio praticamente adottato, afferma di non aver mai voluto avere figli consapevole che il mondo non sarebbe sopravvissuto ancora per molto. Aleggia un senso escatologico, la terra sembra condannata per la crisi ambientale o quella sanitaria. E in effetti vedremo Ruben, che già da bambino era connotato con una mascherina chirurgica, seppellire la madre adottiva nel 2037, con uno scafandro, in un esterno contaminato, post-atomico, da sopravvissuti, che ricorda quello del film nel film de Lo stato delle cose, girato negli spazi naturali impervi e severi del Portogallo.

Pathos Ethos Logos guarda alla storia dell’umanità come in una tensione continua contro l’entropia, l’oblio, la morte, rappresentati da guerre, massacri, genocidi, da cancellazioni come quella del bombardamento dell’antica abbazia di Montecassino. Il film rimanda già nei titoli alle tre categorie della Retorica aristotelica, alla culla dell’Antica Grecia, ed esibisce una sequela lunghissima di musei, gallerie d’arte, quadri, mosaici, arazzi, codici miniati, monumenti della memoria della civiltà: gli archivi dell’umanità. La cultura nasce proprio da questa trasmissione del sapere tra le generazioni attraverso l’arte e la ‘palabra’, la parola scritta, a volte il verbo. Anche la toponomastica delle città è parte di questa memoria, e nel film vengono mostrate due rua di Lisbona, una dedicata a João César Monteiro e una al poeta e pittore Al Berto, entrambi scomparsi da non molto tempo. I diari rappresentano la forma privilegiata per tramandare storie e informazioni. Il piccolo Ruben legge il diario lasciatogli dalla sua madre naturale, e in forma di diario sembrano essere anche le riflessioni della stessa Angela in voce off. Anche le figure storiche sono evocate spesso dai loro diari, come quelli di Vibia Perpetua. Cruciale il personaggio di Rafaela, ragazza che incarna la tensione etica dell’umanità, anche nelle sue interpretazioni volte a far rivivere alcune storiche figure femminili. L’incredibile fisicità androgina di Rafaela la pone come un corpo malleabile in grado di assumere altrui fattezze, con parrucche e costumi, ma anche come un quadro dove le stesse figure sono ritratte nei tatuaggi. Rafaela ambisce a entrare nei Medici senza Frontiere, si dedica anima e corpo al bene del prossimo, contro il volere del padre che le suggerisce di pensare di più a sé stessa e alla famiglia.

Altra figura di archivista è quella di Telmo, minuzioso ricostruttore di battaglie storiche nelle sue miniature e diorami. Ricostruzioni estremamente realistiche a differenza di quelle, nel film, interpretate da attori. Qui Joaquim Pinto e Nuno Leonel Coelho sono molto chiari a stabilire una distanza rispetto alla Storia, che si può evocare solo nella ricostruzione, nella rappresentazione così come lettere e diari rappresentano un tramandarsi delle vite passate. I costumi appaiono spesso pacchiani, come quegli stessi dell’angelo e del demone dell’inizio, da film peplum anni Cinquanta, come sono pacchiani gli addobbi natalizi che tornano più volte nel film. Dopo quello di Vibia Perpetua, i ruoli di Rafaela sono dichiarati come finzionali. Per l’Antigone si limita a partecipare a un provino, mentre la figura di Simone Weil è da lei studiata, nei libri, nelle foto come farebbe un’attrice nei confronti del suo personaggio. Nella sua camera campeggia infine il manifesto de La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer: la pulzella deve essere un’altra figura in cui si riconosce, anche per l’impotenza al pari di quella di Don Chisciotte, pure citato in brani letti nel film.

Ulteriore tema di Pathos Ethos Logos è quello che riguarda la natura, l’albero della vita oltre quello della conoscenza, la cui crisi, che trova il suo apice nei cambiamenti climatici, può portare alla fine dell’umanità stessa. Vista come qualcosa di imponente, le montagne, oppure di indifeso, fragile, da curare, nell’immagine del piccolo cucciolo appena partorito o in quelle dei gattini o del cagnolino di Fabiana e Claudio, per cui l’umanità deve dedicarvi, per contrarne il degrado e l’entropia. In quest’ottica la figura della veterinaria Sofia cui Rafaela, ancora, si aggrega come assistente, risulta cruciale, a partire dalla scena in cui compie un’operazione chirurgica alla zampa di un grosso animale. La poesia della natura trova la sua massima espressione nella terza parte, Logos, associata alle passeggiate e alle escursioni dei fidanzatini Fabiana e Claudio. Una parte quasi prevalentemente in bianco e nero che dovrebbe riempire il buco narrativo lasciato nella prima, quella appunto relativa al loro destino. La gioia della vita nel suo sbocciare, i ragazzi innamorati in attesa di un bimbo, si associa al rigoglio della natura, ai cicli della vita, i girini, le rane morte. Sembra il cinema di Piavoli virato in bianco e nero per evidenziare l’essenza stessa, l’idea, delle specie di animali e piante, così come l’ecografia cattura un’immagine nascosta, la figura del nascituro. Torna ancora il museo, in questo caso è il Calouste Gulbenkian di Lisbona che abbina cultura e natura per i suoi giardini. Museo che si vede per la seconda volta, come altre location del film che ritornano, come la Sagrada Família di Barcellona.

La cultura occidentale, quella propria dei cineasti portoghesi, è protagonista di Pathos Ethos Logos, come lo era in Un film parlato di Manoel de Oliveira. Altre culture possono essere contemplate giusto come vittime della rapacità coloniale del Vecchio Mondo. In tal senso anche i riferimenti all’Oriente e al Giappone visto come qualcosa di lontano e non assimilabile nonostante gli antichi e conflittuali rapporti che risalgono ai missionari gesuiti portoghesi del Seicento. Rafaela non sa come bere il tè matcha, quello delle cerimonie nipponiche, e grottesco appare quel parco pieno di copie di statue del Buddha, molte delle quali piene di graffiti. Si torna a parlare delle bombe atomiche nonché di giapponesi fatti schiavi da mercanti portoghesi nel Cinquecento. Solo il cinema sembra un linguaggio in grado di avvicinare le due culture, come si capisce dall’annuncio trionfale del restauro dei film di Mizoguchi.

«Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui». Il brano della trasfigurazione di Gesù, raccontata da Matteo, Marco e Luca, è letto verso il finale della terza parte, Logos, che si conclude con lunghe partiture musicali che suggellano l’opera in una dimensione sinfonica. E la trasfigurazione diventa la chiave finale di un trittico che era iniziato con il mito che si faceva storia.

Info
Pathos Ethos Logos sul sito del Festival di Locarno.

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