Sacrificio

Sacrificio

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Ultimo lavoro di Andrej Tarkovskij girato in Svezia poco prima di scoprire la malattia, Sacrificio si mette in dialogo con il cinema di Ingmar Bergman innestandolo nel sogno e nell’apocalisse. Un film di Fede e di redenzione, di tradizioni occulte e di intimi stravolgimenti, di minacce nucleari e di riferimenti pittorici, di monologhi teatrali e di articolati piani sequenza che riempiono il tempo e lo spazio. Il principio e la fine, uniti dalla Parola. O forse dalle fronde di un albero.

Rami di fuoco

Un sacrificio come massimo atto d’amore e generosità. Pur di evitare la Terza Guerra Mondiale e poter donare un futuro all’adorato figlioletto, l’artista e intellettuale a riposo Alexander è disposto a rinunciare a tutto ciò che ha: la casa, le convinzioni, i quadri, i libri, la salute, la dignità, la famiglia… [sinossi]

L’inizio e la fine, l’alfa e l’omega, la perfetta simmetria da cui ripartire per tendere all’infinito. Un’armonia totale che non è solo interna a Sacrificio, ma che si espande dal primo all’ultimo fotogramma fino a incorniciare l’intera opera di una vita. Un po’ come se i film di Andrej Tarkovskij fossero tasselli di un unico e sconfinato mosaico, curve inesauribili della stessa striscia di moebius sulla quale ogni volta ricominciare dal principio. Eppure è stata una mera beffa del destino, a far sì che la breve e luminosissima filmografia di Tarkovskij partisse nel primo lungometraggio e si concludesse nell’ultimo con la stessa inquadratura e con il medesimo movimento di macchina, a salire in verticale lungo il tronco di un albero fino all’espandersi del reticolo di rami. Dalle fronde contorte sotto cui sorrideva il giovanissimo protagonista de L’infanzia di Ivan, ancora innocente prima dell’esplodere della guerra, a quelle dell’arbusto spoglio che apre e chiude Sacrificio, piantato il giorno prima dal protagonista Alexander per quel Piccolo Uomo a cui invece, almeno per ora e grazie all’immolarsi religioso, pagano e umano di un padre, l’orrore bellico sarà risparmiato. Un albero che sarebbe voluto essere idealmente “solo” lo stesso de L’adorazione dei Magi lasciata incompiuta da Leonardo Da Vinci e su cui, con il medesimo dolly, già scorrevano i titoli di testa come una vera e propria invocazione a Dio nelle sue infinite braccia di legno aperte e tese verso il cielo, e che invece è diventato il finale ultimo e definitivo, il commiato, il lascito conclusivo.

Sarebbe dovuta essere semplicemente un ritorno, quella salita verso i rami. Un’autocitazione della prima inquadratura del primo lungometraggio non per chiudere il medesimo discorso e la filmografia, ma per ribatterlo, per confutarlo, e idealmente per poterci ancora tornare. Al momento delle riprese di Sacrificio, anzi, Tarkovskij ancora non sapeva di quel cancro ai polmoni che lo avrebbe divorato di lì pochi mesi, e dichiarava di sentirsi immortale. Solo a fine anno, a postproduzione pressoché completata, avrebbe scoperto che il monito antibellico di quel film appena concluso sarebbe stato giocoforza anche il suo testamento artistico e umano, e quel nodoso finale d’opera il finale della carriera. Giusto in tempo perché le sue gravi condizioni di salute riuscissero finalmente a far espatriare dall’URSS il figlio omonimo a cui il film è dedicato, per poi mandarlo al suo posto nel successivo maggio a ritirare i numerosi premi ottenuti a Cannes – ma non la Palma d’Oro, che andò fra vibranti proteste a Mission, con perfino il presidente francese Mitterrand a parlare apertamente di «scandalo». Ma non sono i premi vinti o non vinti, il punto. Semmai è ancora una volta il fato. Come se la malattia e la morte di Tarkovskij, in parallelo con le fiamme che avvolgeranno la casa di Alexander portato via dagli infermieri, fossero state per lui lo stesso estremo Sacrificio del suo protagonista per amore del figlio, il medesimo dimostrarsi disposti a soffrire pur di permettere il suo bene. L’unico modo per cambiare il destino di chi si ama, facendolo tornare magicamente indietro di un giorno senza più guerre alle porte, oppure strappandolo agli anni Ottanta sovietici.

Semmai è la Cannes di due anni prima, uno fra i punti fondamentali di Sacrificio. Quell’edizione ’84 in cui Tarkovskij venne ufficialmente invitato a girare in Svezia, non sulla bergmaniana Fårö ma a Närsholmen, sulla vicina isola di Gotland. Tanto che sarebbe sbagliato parlare di “echi”, per un film che, senza discostarsi dalla poetica e dalla ritualità tipiche di Tarkovskij, fra la centralità dell’arte pittorica già di Andrej Rublev e i volteggi amorosi già di Solaris, fra la televisione già di Lo specchio e i desideri già di Stalker, cerca e trova il cinema di Ingmar Bergman a un livello molto più intimo e profondo, come una corrispondenza di sensi, come una dialettica che spinge la Fede (e la sua mancanza) verso il sogno, la paura e l’occultismo delle streghe, come una dissertazione filosofica e cinematografica fra i due autori che riempie il tempo e lo spazio con i suoi monologhi apertamente teatrali e i suoi elaborati piani sequenza. Ben oltre la scelta del volto bergmaniano per antonomasia Erland Josephson, ben oltre la fotografia di Sven Nykvist e la scenografia di Anna Asp, frequenti collaboratori del regista svedese, e perfino ben oltre la presenza sul set del figlio Daniel Bergman come assistente alla macchina da presa. A creare il parallelo è semmai la stessa muta disperazione di Sussurri e grida, lo stesso dubbio di Luci d’inverno, lo stesso inconscio di Persona. Le stesse donne. Un po’ come quando Alexander racconta di essersi seduto sulla poltrona della madre, per «vedere con i suoi occhi». Fino al Verbo, prima parola proferita dal figlio finalmente pronto per abbandonare il suo mutismo. Forse l’unica possibile risposta al Silenzio di Dio. Di certo un nuovo «principio», dal quale ricominciare ancora e ancora. Basta sapersi arrampicare su un albero.

Info
Il trailer di Sacrificio.

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