Altri cannibali

Altri cannibali

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Altri cannibali è il sorprendente esordio alla regia del trentaduenne Francesco Sossai, che mette in scena una società apatica e ripetitiva cercando un ideale controcanto in un gesto estremo, orrorifico, quasi paradossale. Sossai rivolge lo sguardo dalle parti di Aki Kaurismäki, a partire da un bianco e nero che eradica ogni possibilità di “spettacolarizzazione”, e racconta con intelligenza il sogno di un cannibalsimo ‘puro’, da contrapporre all’orrida e svilente autofagia del Capitale. Fuori concorso al Torino Film Festival.

Alla ricerca del coltello adatto

Fausto è un uomo veneto di mezza età, operaio da una ventina d’anni. Orfano di padre, che è morto alcolizzato per aver sbattuto la testa, ha un rapporto conflittuale con la madre. Un giorno va a prendere alla stazione Ivan, un tizio che non ha mai visto e con cui ha un accordo segreto. Ma le cose non andranno esattamente come previsto. [sinossi]

È interessante notare come tra i film italiani “indipendenti” più interessanti ben due in realtà abbiano trovato il modo di esistere grazie a uno sforzo produttivo straniero. È così per Mother Lode, opera prima di Matteo Tortone presentata lo scorso settembre in concorso all’interno della Settimana Internazionale della Critica alla Mostra di Venezia e girata in Perù, in territorio andino, con il contributo indispensabile di soldi francesi e svizzeri. Un esordio lo è anche Altri cannibali, primo lungometraggio firmato dal trentaduenne feltrino Francesco Sossai che è stato presentato fuori concorso alla trentanovesima edizione del Torino Film Festival – ma avrebbe meritato di prendere parte alla competizione, dove forse non avrebbe faticato a mettere d’accordo una giuria capitanata da Ildikó Enyedi, replicando dunque il successo ottenuto sempre a novembre al Black Nights di Tallinn. Ed è un’opera prima sorprendente, che mostra uno sguardo del tutto distante dalla prassi del cinema italiano contemporaneo. A maggior ragione diventa doveroso puntualizzare e precisare un dettaglio tutt’altro che secondario: Altri cannibali, girato in Veneto con un cast al cento per cento italiano e con una troupe altrettanto italiana (la spoletina Giulia Schelhas responsabile dell’eccellente fotografia in bianco e nero, la patavina Ginevra Giacon al montaggio), non è ascrivibile produttivamente al contesto nazionale. Di più, l’impressione forte durante la visione del film è proprio quella di trovarsi a tu per tu con un essere alieno, o meglio ancora apolide, privo di una reale patria. La verità è che quasi nessuno in Italia nel 2021 oserebbe lanciarsi nella produzione di un film come quello diretto e scritto da Sossai – della sceneggiatura è responsabile anche Adriano Candiago, nato in Argentina ma cresciuto a Pordenone –, e la situazione in giro per l’Europa non è detto che sarebbe molto diversa. Diventa quasi inevitabile che Altri cannibali esista solo in quanto saggio di diploma di una scuola professionale, per l’esattezza la prestigiosa Deutsche Film-und Fernsehakademie Berlin, conosciuta con l’acronimo DFFB, dove hanno studiato anche tutti i collaboratori tecnici di Sossai. Solo la condizione “scolastica”, in quest’epoca così catalogata e standardizzata, può pensare di sostenere un progetto che altrimenti avrebbe potuto contare solo ed esclusivamente sull’autoproduzione.

Perché Altri cannibali, con il suo sguardo così scientemente kaurismäkiano, con quel bianco e nero che disossa ogni velleità spettacolare dell’immagine ricostruendo le traiettorie di un gotico dell’anima, con i suoi tempi così fuori dal ritmo dell’oggi e dalle lusinghe del contemporaneo, è davvero un fantasma del passato, lo spettro di un cinema che era, e non è più. Dopotutto anche la scrittura dei suoi due protagonisti, Fausto (il non professionista Walter Giroldini, dalla presenza scenica spiazzante e inquietante) e Ivan (Diego Pagotto, che i cinefili ricorderanno almeno in Ultracorpo di Michele Pastrello, altra maliosa creatura veneta) sembra provenire da molto lontano, con i suoi riflessi russi che fanno sì che Fausto somigli al Faust riletto da Puskin, con la sua preghiera di intervento al demonio, e Ivan abbia riflessi quasi dostoevskijani, nella sua radicalizzazione della visione dell’umanità e del “destino” personale. Per quanto a prima vista il tono tra il grottesco e il surreale della vicenda sembri spingere Altri cannibali in territori più consoni all’indie europeo dell’ultimo decennio, così come possono suggerire determinate scelte di messa in scena – si pensi all’utilizzo della macchina a mano –, il film prende ben presto una direzione del tutto peculiare. Lo stile a pochi passi dal documentaristico si scontra idealmente con un raggelarsi del “vero”, dato sia dal già citato ricorso al bianco e nero sia e forse ancor più da quell’umorismo nero, crudele, ghignante, che rappresenta il codice di riferimento dialettico dell’opera. Nel suo costruire un film sul nulla, e su un atto impossibile da accettare (l’accettazione del delitto per permettere alla propria carne di diventare cibo) e forse addirittura impossibile da compiere, Sossai contrappone il gesto estremo ma anche gratuito all’onnipresente e cadenzata tecnocrazia della fabbrica, al tempo prestabilito, alla logica della famiglia, del lavoro, del quotidiano.

In questo senso il patto di morte tra Fausto e Ivan è un’utopia, il sogno di potersi definire altri cannibali di fronte al cannibalismo del Capitale, ma anche di una tradizione che prevede per esempio la macellazione del maiale – e di nuovo quanto è potente quella lotta persistente tra sguardo documentario ed esigenze metaforiche! –, di poter davvero trovare una propria identità spogliata dalle vesti fornite dalla società. Fausto e Ivan nulla possono di fronte al reale, che li vessa in ogni modo possibile e immaginabile, al punto da non riuscire neanche a trovare un coltello adatto allo smembramento del corpo umano, e che non concede loro felicità: dopotutto l’unico momento di gioia di Fausto, come ammette lui stesso, è stata la vittoria del mondiale di calcio del 1982, quando la felicità poteva sgorgare sincera, priva di mediazioni e soprattutto genuinamente collettiva. L’autofagia del Capitale però ha vinto, e non c’è modo di contrastarla. Resta, in un contesto dominato dall’apatia e dalla reiterazione – apatia che per Fausto ha un valore concreto, legato alla ripetitività della fabbrica, mentre per il dottorando in filosofia Ivan assume una qualità strettamente speculativa, e dunque astratta –, il sogno di nutrirsi dell’altro, fosse anche solo un dito mozzato. Ma anche lì, dopo un morso speranzoso, torna crudele la realtà.

Info
Altri cannibali sul sito del TFF.

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