Il dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba

Il dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba

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Prima di lanciarsi in fughe nel tempo (nel futuro, con 2001: Odissea nello spazio, o nel passato, come in Barry Lyndon) Stanley Kubrick entra in conflitto con il suo Paese proprio per la volontà di raccontare l’hic et nunc, dapprima traducendo in immagini un romanzo contemporaneo “scandaloso” come Lolita di Vladimir Nabokov, e quindi raccontando la Guerra Fredda ne Il dottor Stranamore, il cui sottotitolo Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba traccia in profondità l’approccio ludico al contesto. Cena delle beffe allestita in pompa magna ed affidata al genio multiforme di Peter Sellers, Il dottor Stranamore è un’anarchica risata, a metà tra i denti stretti e il cachinno, che manda al macero il mondo moderno, l’ipocrisia della politica, la contrapposizione in blocchi, l’impotenza del maschile.

A cavallo della bomba

Il generale Ripper, convinto di un complotto comunista in atto, scatena un’offensiva di B52. Il presidente Muffley fa attaccare la base; Ripper si suicida; viene recuperato il codice per richiamare i bombardieri, ma il maggiore King Kong si rifiuta di rientrare alla base. Il consigliere militare del presidente, l’ex-nazista dottor Stranamore, elabora una strategia di sopravvivenza. La terra esplode. [sinossi]

“Dimitri, senti, se è come dici e se l’aereo riesce a mollare la bomba, insomma, è… è suff… è sufficiente a far scattare l’ordigno “Fine del mondo”? Ne sei certo? Vabbe’, senti… senti, questo aereo allora me lo devi abbattere, Dimitri! E vabbè, scusami se mette in difficoltà i tuoi radar volando basso, ma è proprio così che gli insegnano a fare qui da noi. Vi abbiamo anche detto dove sta andando, non mi dire che con tutto quel po’ po’ di roba che avete non riuscite a fermare un aereo, uno?! Ma insomma, mi pare che non faccia comodo nemmeno a voi se l’ordigno “Fine del mondo” si mette a scoppiare!”. Se si deve trovare un punto dal quale partire per abbozzare un’analisi pur parziale de Il dottor Stranamore (sul fluviale sottotitolo Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba si tornerà rapidamente più avanti), forse occorre focalizzarsi sulla telefonata che Muffley, presidente degli Stati Uniti d’America, fa al suo omologo sovietico. Senza che la voce di quest’ultimo sia mai oggettivizzata nel film, traducendo dunque il dialogo in un monologo, Stanley Kubrick condensa in questo brevissimo sketch, tra i più folgoranti di una farsa tra le massime dell’intera storia del cinema, l’intero senso della sua operazione cinematografica: lo smontaggio – atto in tutto e per tutto smitizzante, nonché profondamente cinematografico, essendo l’unione tra pezzi dissimili la base portante della Settima Arte – del mondo contemporaneo, e delle sue prassi. Il disinnesco della supposta virilità di un microcosmo che nella realtà dei fatti balbetta, non trova le parole per risolvere situazioni che sono oramai sfuggite di mano. L’ordigno “Fine di mondo” non è solo la bomba delle bombe, in grado di annientare del tutto la vita sulla Terra: è la rappresentazione dell’autodistruzione, della cancellazione dell’io, della negazione affermata dell’esistenza. Come canteranno, con fare più salmodiante e assai meno divertito, i C.S.I. in Del mondo il film di Kubrick “contiene membro d’uomo che s’alza e spinge, insoddisfatto poi distrugge”. Se c’è la sarcastica presa per i fondelli del mito americano del cowboy come essere (maschile) dominante in quel prefinale in cui uno sguaiato e orgasmico Slim Pickens cavalca la bomba agitando a mo’ di rodeo lo Stetson in aria prima dell’impatto che distruggerà il mondo, quel flautato “E vabbè, scusami se mette in difficoltà i tuoi radar volando basso, ma è proprio così che gli insegnano a fare qui da noi” che Muffley – e anche sulla scelta dei cognomi dei personaggi si può fare un breve detour critico – dedica al Presidente del Presidium del Soviet Supremo dell’URSS non è meno pertinente alla sfera erotica, e sessuale.

Kubrick disegna un film sul fallimento della fallocrazia, e quindi di una supposta democrazia occidentale – perché Il dottor Stranamore non risparmia micidiali bordate all’Unione Sovietica, si pensi al ruolo infingardo e ai limiti dello slapstick con cui l’ambasciatore Alexei De Sadesky interpretato da Peter Bull scatta foto proibite della War Room, ma il centro del discorso resta la rappresentazione della mitopoiesi lubrica degli Stati Uniti d’America – che ha fatto del dominio la sua unica chiave d’accesso alla dialettica. Sempre T.J. “King” Kong, il già citato maggiore interpretato da Pickens, nell’esaltare l’animo battagliero dei suoi sottoposti, li incita perché “questo è un corpo-a-corpo nucleare coi russi”. Nella guerra già a distanza, cui basta saper premere un bottone per scatenare l’inferno, come ammette candidamente l’ufficiale britannico Lionel Mandrake (“Non ho una gran pratica, per così dire, di mitragliatrici. Anche durante la guerra sapevo solo spingere il bottone”), l’ipotesi di un corpo-a-corpo, per quanto attualizzato alla sua realtà nucleare, è un afrodisiaco per un ambiente che fa dell’atto bellico la sua unica esteriorizzazione dei sentimenti più intimi e profondi. Con la recente crisi missilistica cubana dell’ottobre del 1962 (le riprese del film si svolsero tra il gennaio e l’aprile del 1963) Kubrick prende spunto da un romanzo di fantapolitica pubblicato nel 1958, Red Alert di Peter George, prende spunto per tornare a riflettere sul significato individuale e collettivo della guerra come atto predatorio che ha attraversato la sua poetica fin dai tempi di Paura e desiderio, trovando poi ulteriore completezza in Orizzonti di gloria e Full Metal Jacket. Ma se Peter George, che venne interpellato anche in fase di scrittura della sceneggiatura, affronta la sua avventura letteraria iniettando nelle parole l’antidoto del dramma per scoperchiarne l’evidente (e attuale) tragicità, Stanley Kubrick ne svela immediatamente il lato puramente comico, la ridicolaggine che non è epidermide – quella sì in pieno terrore – ma il midollo osseo della questione politica.

Così nelle mani del regista statunitense già trasferitosi a vivere in Gran Bretagna Il dottor Stranamore non assume alcuna postura melodrammatica, ma procede a ritmo filato verso il suo destino come una sarabanda ridicola, la parodia che smaschera il putridume della realtà con una potenza di fuoco che neanche l’ordigno Fine di mondo potrebbe mai permettersi. Così la società della Guerra Fredda si scopre a tutti gli effetti imbelle, grazie a un procedimento comico che innerva nell’antidoto del romanzo il virus della caricatura satirica, a volte concentrandosi sulla risata a denti stretti, altre volte preferendo la strada del cachinno, del fragore un po’ indecoroso dello spasso. Per alimentare il suo fuoco di fila di situazioni paradossali Kubrick si prende un’altra enorme libertà rispetto al testo di partenza: l’attacco folle ordito dal generale Jack D. Ripper, l’anticomunista di ferro cui dona una interpretazione maiuscola Sterling Hayden (si sta prendendo tempo sulle qualità di Peter Sellers perché meritano un seppur breve approfondimento a parte) non viene sventato, ma si produce in tutta la sua catastrofe. Se il cinema comico è l’helzapoppin’, l’accettazione del rutilare infinito dei massi fino alla slavina definitiva, come potrebbe Il dottor Stranamore venir meno alla sua furia distruttrice? Si tratterebbe di un coito interrotto, ma l’impotenza è solo politica, non del cinema. L’immagine è in sé già una catastrofe, il capovolgimento del reale, lo specchio riflesso, e quindi non può evitare il proprio destino. In ultima istanza, chi si trovasse a leggere il libercolo di George – materiale letterario che ha giustamente lasciato una scarsa traccia di sé (l’ultima edizione italiana è Bompiani, ma si trova anche nel catalogo di Garzanti e di Arnoldo Mondadori Editore) –, non troverebbe traccia del personaggio a cui Kubrick attribuisce perfino il titolo del film. In tutto e per tutto cinematografico, il pazzoide teorico anchilosato e mezzo meccanico residuo del palinsesto ideologico nazista che Sellers traduce in una delle immagini più iconiche e totalizzanti del cinema comico tutto è il simbolo imperituro dell’anarché kubrickiana, la sua rivolta contro il contemporaneo che è uno degli aspetti determinanti della dialettica insita nella sua politica espressiva tra Tempo e Spazio. Nel suo deliquio onirico, in un film che fa della guerra l’incubo notturno di una società che è abituata a osservarsi e giudicarsi solo di giorno, alla luce, c’è l’ambizione di un possesso che è atomico in quanto indivisibile, struttura nella quale la materia è organizzata. Il cinema nasce, pare affermare Kubrick, proprio per raccontare quell’incubo, e per smetterla di rappresentarlo come sogno.

Fin troppo spesso “accusato” di assertiva serietà, Stanley Kubrick è al contrario spesso un regista non dimentico dell’assurdo, e dunque della comicità intrinseca nel dramma – si veda il picaresco incedere delle avventure di Barry Lyndon, o del drugo Alex, o ancora la dualità insita in ogni passaggio di Full Metal Jacket –, e questo vale anche se al solo Il dottor Stranamore può essere attribuito il valore di “opera comica”. Consapevole di questo, e dell’incredibile verità che respira negli anfratti del suo film, il regista gioca con i suoi personaggi, in parte riprendendo i nomi già scelti da Peter George nel romanzo, in parte inventandone di nuovi. Ecco dunque Jack D. Ripper, che rimanda al serial killer per eccellenza Jack lo squartatore; ecco Lionel Mandrake, che nella sua impossibilità di risolvere la questione subisce anche il gravame dell’accostamento al ben più miracoloso Mandrake il mago di Lee Falk; ecco il presidente Merkin Muffley, “Muffola”; ecco Buck Turgidson, “Figlio turgido” o “Figlio del turgido”; ecco “Bat” Guano, guano di pipistrello; Alexei De Sadesky, che rimanda al marchese per antonomasia; T.J. “King” Kong, dalle sinapsi non troppo più evolute di quelle dello scimmione che si arrampica sull’Empire State Building; e ovviamente Stranamore, Strangelove, il cui nome varrebbe per un’intera dissertazione critica. Il nome, l’origine della famiglia, è il primo elemento degno di essere ridicolizzato, ridotto a uno sberleffo, a una risata ghignante. Nel nome si nasconde il senso dell’individuo, e nell’individuo il senso della nazione, e nella nazione il senso della specie. E tutto questo precipita dall’alto dei cieli tramutando il mondo in un deserto senza vita. Sarebbe però impossibile comprendere davvero fino in fondo l’eversione anarcoide e priva di ogni tipo di titubanza verso la rappresentazione portata a termine da Kubrick senza spendere pur brevissime parole su Peter Sellers, il cui corpo è già l’ordigno Fine di mondo. Nel suo trasformismo irreplicabile e mai replicato c’è il senso di un cinema che sfonda il comun denominatore del linguaggio e apre alla rivoluzione sempiterna del linguaggio, alla palingenesi che è la base portante dell’arte, e il suo senso politico più profondo. Resta l’interrogativo: chi è che ha imparato a non preoccuparsi e ad amare la bomba? Il corpo elettrico di Sellers? L’occhio privo di replica di Kubrick? Il mondo? La bomba stessa? Tutto crolla, ogni cosa esplode. Resta sul mondo perduto la melanconia di We’ll Meet Again, che ricorda come “We’ll meet again, Don’t know where, Don’t know when, But I know we’ll meet again some sunny day. Keep smiling through, Just like you always do, ‘Till the blue skies drive the dark clouds far away”.

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