Gorbachev. Heaven

Gorbachev. Heaven

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Dopo quasi vent’anni, con il suo nuovo Gorbachev. Heaven, il documentarista ucraino Vitalij Manskij torna a incontrare l’ormai anziano e malato Mikhail Gorbaciov, l’uomo che decise da solo di cambiare la Storia. Un ritratto casalingo profondamente politico ma soprattutto umano, familiare, doloroso, dolcissimo, tanto intimo e poetico da sembrare un testamento, un estremo lascito, l’ultimo epitaffio del sogno di democrazia in una Russia ritornata drammaticamente autoritaria. Fuori concorso al 33mo Trieste Film Festival.

Il volto di Raisa

Il novantenne Mikhail Gorbaciov, ex presidente dell’URSS e fra figure più influenti del secolo scorso, vive poco fuori Mosca i suoi acciacchi e la sua profondissima malinconia in attesa di essere giudicato dalla Storia. In un ambiente intimo, fra scherzi, battute, interruzioni, vecchie canzoni e foto della sua Raisa, offre alla macchina da presa di Vitalij Manskij non solo la sua visione della Russia di allora e di oggi, ma soprattutto la sincerità commovente della sua tenerezza. [sinossi]

«Ho rischiato di tirare le cuoia, sai?». Non fa nulla per dissimulare il suo crepuscolo, il Mikhail Gorbaciov quasi novantenne che nel 2019, a diciott’anni di distanza da Gorbaciov. After Empire, decide di aprire ancora una volta le porte della sua casa alle macchine da presa di Vitalij Manskij. Un’anziana figura in penombra che soffre i cambi atmosferici e le tempeste solari nella sua salute sempre più deteriorata, il girello a cui sostenersi e le forze che vengono meno mentre si trascina stancamente per le stanze dell’appartamento con i suoi movimenti lenti e faticosi, mentre sonnecchia di fronte al computer, mentre soffre i propri acciacchi nello sforzo per alzarsi dalla sedia, nel dolore insostenibile di ogni gradino, nei leggeri tremolii della pelle rugosa. L’ultimo leader sovietico è oramai un uomo solo. Un (bis)nonno tenero e gentile, fragile e malato nel corpo, irreversibilmente malinconico nello spirito, eppure dalla mente che ancora brilla arguta e lucidissima, gonfia di memorie e di pensieri, di frecciatine e di allusioni, di sottigliezze e di acume filosofico. Ma soprattutto di un orgoglio profondo, tanto radicato da farlo riuscire ancora in qualche modo a camminare sulle proprie gambe anche quando non sorreggono più il peso, facendosi aiutare ma non troppo dalla premura di una servitù orgogliosa di lavorare per lui, per quel leader politico che quasi trentacinque anni fa, da un apice che mai avrebbe pensato di poter raggiungere, ha deciso da solo di cambiare il mondo, di minare dall’interno il dispotismo sistemico dell’apparato statale, di regalare una democraticizzazione e una speranza liberando i popoli dalla dittatura e dalla Guerra Fredda. Gorbachev. Heaven, fuori concorso al 33mo Trieste Film Festival dopo la prima all’IDFA, cerca la giusta distanza poetica per osservarlo e confrontarcisi sulla politica e sulla vita, sulla Storia e sull’oggi, sull’umanità e sulla morale, ora silenzioso e ora incalzante fra i sorrisi sornioni, la confidenza e la stima reciproca di chi si conosce da decenni.

Ma non vuole la mera agiografia, Vitalij Manskij, né tanto meno il ricatto pietoso di un corpo che sfiorisce sotto quella voglia che da sempre ne colora la fronte. Punta semmai a una continua dialettica fra pubblico e privato, fra la saggezza politica e le coccole al gatto, fra i giochi sporchi di Eltsin e la tavola imbandita, fra la scoperta attonita degli orrori di Stalin e i quadri con l’effigie dell’amatissima Raisa che ancora puntellano ogni angolo e ogni pensiero. Un lascito prima di tutto umano, su cui innestare un nuovo e dolcissimo testamento in immagini di Gorbaciov fra bicchieri di vodka, ghiande e sottaceti, fra sincerità, mancanza e tenerezza, fra inaspettate parolacce, canzoni e poesie. Un ritratto intimo e familiare, magnificamente fotografato in lirici controluce fra battute di spirito, risposte furbescamente evasive e qualche vago «ho detto quel che ho detto», prima in quella casa donata a Gorbaciov (e Raisa) «per la vita» dai presidenti degli Stati nati dopo le sue volontarie dimissioni da capo dell’URSS e poi, con in mezzo gli ennesimi ricoveri in ospedale, in quell’ufficio della sua Fondazione già set pochi anni prima dei tre incontri con Werner Herzog. Ma se in Herzog incontra Gorbaciov lo sguardo dell’intervistatore bavarese era necessariamente esterno, quello di un tedesco appartenente all’occidente che stava dall’altra parte del Muro e del mondo, fra chi non ha alcun dubbio nel considerare Gorbaciov un eroe, Vitalij Maskij pone le domande giocoforza più scomode di un cittadino sovietico (diventato) ucraino, presente in prima persona in quei momenti. Un uomo eternamente grato a Gorbaciov per la (pure illusoria) democraticizzazione, ben consapevole della caratura politica e umana del personaggio che ha di fronte e per questo pienamente convinto che prima o poi anche la Russia gli saprà tributare il ruolo glorioso che merita nella Storia, ma anche memore degli “eventi di gennaio” con l’ordine (o meno) all’esercito sovietico di sparare nella Lituania del ’91, ben conscio di come parte della popolazione russa di oggi reputi Gorbaciov poco più che un traditore, e pronto a far notare all’ex leader come il suo rifiuto di ogni responsabilità nella dissoluzione dell’impero e la dichiarazione di aver sempre lottato per preservare un URSS libero e democratico, ma unito, fossero in aperto contrasto con l’amore dei popoli ex-sovietici nei suoi confronti per averli liberati. Ma è impossibile mettere davvero all’angolo Mikhail Gorbaciov. Un po’ per la sua brillantezza, un po’ per la sua consapevolezza di aver sempre agito secondo coscienza e necessità, un po’ per la sua capacità di dire senza dire, un po’ perché quando un discorso non gli piace più gli è più che sufficiente un «Vitalij, basta!» per far riemergere da quel corpo stanco e pesante il vecchio polso dell’uomo di potere, dell’istituzione, del responsabile dell’ordine, e subito riuscire a cambiare argomento.

«Mi vedo ancora come un socialista. Francamente ancora vedo Lenin come il nostro dio», dice apertamente Gorbaciov. Forse a ben vedere l’unico leader realmente comunista, e invece il principale accusato di aver distrutto il comunismo. Dalla sua tesi di laurea impregnata di convinzione stalinista fino alla direzione del Partito, con la scoperta delle carte segrete che documentavano gli orrori di ciò che era diventato il regime, le lunghe liste di uccisioni e purghe, la disumanità tanto atroce verso il Popolo quanto sleale traditrice di quegli stessi ideali rivoluzionari che la macchina statale avrebbe dovuto portare avanti. Fino alla scelta di Gorbaciov politico, solo contro tutti, di fare dell’URSS una democrazia anche a costo di vederne l’implosione. Una decisione di testa, di cuore, di coscienza, di giustizia, di profondissima umanità. La stessa con cui la memoria dell’uomo ripercorre con Manskij i suoi anni giovanili, l’adesione convinta al Partito, la partenza per l’Università di Mosca con una borsa di studio in tasca e un nonno condannato a morte da salutare per l’ultima volta. Fino allo stop forzato delle riprese per una nuova partenza di Gorbaciov, questa volta però verso l’ospedale cittadino, con le gambe da alzare con le mani per entrare difficoltosamente in macchina, con lo stato di salute che pare aggravarsi, e poi con la nuova convocazione del regista negli uffici della Fondazione «perché per qualche ragione credo che questo film debba essere terminato». Riprendendo il racconto dagli inviti di Andropov, dal ruolo di trait d’union con Bréžnev, da quello nel Soviet supremo che era stato di Kulakov, ma soprattutto da Raisa. La mente, il cuore, le emozioni, i sentimenti, l’unico possibile senso della vita nella sensazione di amare ed essere amato, nella commozione di un idillio quotidiano. Del resto, una parte di Mikhail Gorbaciov si è già spenta nel ’99, andata via per sempre insieme a lei, quell’amore troppo grande e troppo bello, quel collante per tutta la famiglia, quella parte forte della coppia a cui volontariamente e gioiosamente sottomettersi anche oltre la morte, assoggettato, obbediente, innamorato, in un quotidiano Paradiso nel quale prima o poi ritrovarsi. Era lei, l’Heaven del titolo, mentre dalla sua morte è iniziato l’inferno – anche politico, con l’avvento nello stesso anno di Putin, ma questo riferimento rimane solo in uno sguardo in macchina malizioso. È solo grazie a lei, infinita musa d’amore, che per Gorbaciov è stata possibile l’elezione dell’85, seguita dalle riforme, dagli incontri prima in Svizzera e poi in America con «quel vecchio dinosauro» di Reagan per decidere di comune accordo di fermare finalmente la minaccia nucleare. È solo grazie a lei che è venuto il tempo dalla Perestroika, dal Glasnost, dalla democrazia, o per lo meno dal suo più sincero e reale tentativo.

Forse l’unico momento di reale sovranità popolare prima che Vladimir Putin, passando per i voltafaccia scorretti e un po’ etilici di Eltsin, ritrasformasse il Paese in quella che Manskij non si fa alcun problema a definire espressamente dittatura. Non un suo «onanismo» intellettuale, come lo stesso Gorbaciov rimprovera scherzosamente al regista, ma una semplice e amara constatazione, mentre il vero onanismo sembrano semmai essere i vagiti di libertà per la Russia, la democrazia come soddisfazione innaturale di una terra che ciclicamente ricade sempre nelle stesse forme di governo autoritario, come se il totalitarismo per quel popolo e per quella cultura fosse l’unica forma di Stato possibile. Forse dipendono davvero da questo, le percentuali plebiscitarie di Putin. Di certo dipende da questo il suo volto onnipresente che, in Gorbachev. Heaven, costantemente emerge squadrettato e silenzioso dai teleschermi alle spalle di Mikhail Gorbaciov, come in un confronto/conflitto insanabile con quello ormai segnato del vecchio leader, come tanti passi indietro dopo tanti passi avanti, come una minaccia impossibile da ignorare, come uno spettro che si può anche tentare di lasciare fuori dalla porta e fuori dai discorsi, ma che continua a incombere su un intero Paese. Un qualcosa di innato, ancestrale, autolesionista, eppure in qualche modo inevitabile per la Storia e il costume di Russia. Un qualcosa di studiato al millesimo, come quel discorso putiniano di capodanno 2000 che termina con precisione chirurgica esattamente allo scoccare della mezzanotte, e che Gorbaciov ascolta con sarcasmo e malcelato disprezzo invitato dalla servitù. Una cena conviviale, a tavola con il fedele Volodya e sua moglie mentre in TV suonano l’inno russo – e non più sovietico – con le parole cambiate per togliere ogni riferimento alla gloria della Rivoluzione. Ed è proprio nella malinconia dell’istante in cui al posto della bandiera rossa sale l’odierno tricolore che sta, forse, il suo unico rimpianto. Perché forse Gorbaciov avrebbe potuto, prima ancora dei trattati di Eltsin con Bielorussia e Ucraina per la secessione dall’URSS che di fatto lo avrebbero messo alla porta, provare a prevenire la dissoluzione, giocando come i suoi predecessori a fare lo zar e spedendo «l’ubriacone» che sarebbe stato suo successore verso qualche forma di esilio. Ma non sarebbe mai stato possibile per un uomo come lui, non sarebbe stato etico, non sarebbe stato umano, non sarebbe stato accettabile. Anche perché forse nemmeno Eltsin ha avuto davvero una reale responsabilità diretta nel crollo dell’Unione. Forse era solo tempo che capitasse, era scritto, era per qualche motivo necessario, e solo il caso ha voluto che succedesse proprio in quel momento di liberalizzazione e trasparenza. Anche se a volte si può controllare, il destino, o per lo meno provarci. Con uno spettacolo teatrale che in qualche modo riporti Raisa in vita per poter sognare ancora insieme per lo meno su un palcoscenico, o al contrario con il posto al suo fianco «già prenotato» nel cimitero innevato. Vicino a lei, per sempre, mentre la casa vuota e l’eco lontana di una poesia riportano nell’ombra più pudica l’ultimo e definitivo epitaffio di uno dei più grandi uomini del Novecento.

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Il trailer di Gorbachev. Heaven.

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