Leonora addio

Leonora addio

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Leonora addio, che Paolo Taviani dedica alla memoria del fratello Vittorio scomparso poco meno di tre anni fa, è una ricognizione sul concetto di “perdita”, sul lutto, sull’invecchiamento, sull’impossibilità di accettare il distacco. Ma è anche un racconto dell’Italia post-bellica, costruito attorno alle immagini del cinema italiano, ma sempre sulle orme della drammaturgia nazionale del Novecento, Luigi Pirandello.

Kaos regna

Leonora Addio racconta la rocambolesca avventura delle ceneri di Pirandello e il movimentato viaggio dell’urna da Roma ad Agrigento, fino alla tribolata sepoltura avvenuta dopo quindici anni dalla morte. E a chiudere il film, l’ultimo racconto di Pirandello scritto venti giorni prima di morire: “Il chiodo” dove il giovane Bastianeddu, strappato in Sicilia dalle braccia della madre e costretto a seguire il padre al di là dell’oceano, non riesce a sanare la ferita che lo spinge a un gesto insensato. [sinossi]

Nel 1984, per chiudere Kaos, dopo aver adattato quattro delle Novelle per un anno (“L’altro figlio”, “Male di luna”, “La giara”, e “Requiem aeternam dona eis, domine!”) Paolo e Vittorio Taviani si ispirano ad altre due novelle – “Una giornata” e “Colloquii coi personaggi” – per costruire un epilogo che riuscisse a condensare tanto la loro interpretazione della poetica pirandelliana, quanto un discorso sul grande drammaturgo siciliano. Viene dunque rappresentato lo stesso Pirandello che, tornato anziano nella sua magione, si trova a discettare con il fantasma di sua madre. Quando lo scrittore dentro casa entra in una stanza attraverso una porta, la macchina da presa compie un carrello all’indietro, in allontanamento, quasi a suggerire lo spazio vuoto lasciato nella camera. Tra le prime scene di Leonora addio ce n’è una in cui viene immaginato Pirandello sul letto di morte, in una stanza interamente bianca, quasi astratta nella sua mancanza di coordinate spaziali. Il letto è posizionato davanti a una porta (bianca anch’essa), e mentre essa sta per aprirsi la macchina da presa compie un carrello in avanti, di nuovo a suggerire la spazialità, quel vuoto tra gli esseri umani. Dalla porta entrano i tre figli di Pirandello, bambini, e invecchiano davanti ai suoi occhi. C’è la morte a dominare Leonora addio, titolo anche di una novella del 1910 che nulla ha a che vedere con il film, se non per il fatto che dal nucleo fondativo del racconto vedrà la luce Questa sera si recita a soggetto, testo che sviluppa in modo esemplare la dialettica pirandelliana tra “rappresentazione” e “interpretazione”. Nell’opera teatrale del 1929 il dottor Hinkfuss, regista del dramma nel dramma, vorrebbe spezzettare Leonora addio! in una serie di quadri e scene staccate tra loro, e costruite solo attorno alla forma; gli attori, invece, reclamano il loro diritto a interpretare, anche sentimentalmente, il testo. Una dialettica che Paolo Taviani, qui alla prima regia in solitaria, quasi tre anni dopo la morte del fratello maggiore Vittorio (al quale il film è inevitabilmente e giustamente dedicato), fa sua, segmentando in modo quasi schizoide, caotico – o sarebbe meglio dire kaotico –, il film ma cercando sempre il sentimento, la profondità dell’umano.

C’è la morte a dominare Leonora addio, lo si scriveva dianzi. La morte di Pirandello in primis, con le sue molteplici sepolture – quella iniziale al Verano, quella temporanea per il rocambolesco trasporto al termine della guerra da Roma ad Agrigento, quella con le ceneri poste nella bara di un bambino per permettere al sacerdote di non dover benedire un’anfora greca – e quindi pagana –, quella che infine lo vede posizionato in un monumento scolpito a partire dalla roccia grezza della campagna. Ma c’è anche, e ancor prima data la dedica iniziale vergata di proprio pugno da Paolo, la morte di Vittorio, che aleggia in ogni inquadratura. E non manca neanche una riflessione sulla morte del cinema italiano, che non sa più ergersi al ruolo di narratore della storia nazionale, come invece fu e dimostra il ricorso di Taviani a frammenti di altri film (Il sole sorge ancora di Aldo Vergano, in una sequenza “resistenziale” in cui si riconoscono due affetti dei Taviani, Gillo Pontecorvo e Carlo Lizzani, Paisà di Roberto Rossellini, Estate violenta di Valerio Zurlini, L’avventura di Michelangelo Antonioni, l’episodio L’amore difficile di Nino Manfredi, Kaos stesso). Ma in fondo questo film sembra quasi un requiem per se stesso, il testamento di un uomo che è a sua volta davanti all’abisso della morte e cerca di comprendere il senso della vita. “È già finita?”, si chiede Pirandello stremato nel letto. È mai iniziata?, viene da domandarsi seguendo l’atroce vicenda ambientata a Brooklyn su cui si chiude il film e che è una rivisitazione de Il chiodo, novella che i Taviani già avevano pensato di inserire in Kaos prima di eliminarla in fase di pre-produzione. Paolo Taviani dunque firma una lunga e sterminata elaborazione del lutto. Del proprio. Della perdita di sé, e del mondo che gli è svanito accanto. Lo fa con uno stile rapsodico, che volutamente si muove di immaginario in immaginario, tra found footage e lirismi evocativi – quei fazzoletti annodati alle fronde per sventolare anche quando la nave che porta altrove chi emigra sarà lontana, e che ricordano in qualche misura anche le struggenti cetre di Salvatore Quasimodo –, tra De Chirico e il grottesco, tra il bianco e nero e il colore.

Partendo dal momento in cui Pirandello riceve in Svezia il Premio Nobel per la letteratura, nel 1934, Taviani si getta nell’impresa di raccontare l’irraccontabile, vale a dire la sensazione di sperdimento assoluto che avanza di anno in anno, come quei figli che imbiancano davanti agli occhi del padre, o come l’invecchiamento passato sulla tomba di una bambina uccisa “apposta”, proprio per potersi permettere il lutto, per avere una terra lacrimata, per poter localizzare la propria solitudine, la fragilità del proprio esistere. C’è una tenerezza profonda emanata da ogni inquadratura di Leonora addio, quasi che l’estremo distacco sia da affrontare con mano carezzevole; c’è ironia, e disincanto, ma c’è anche una profonda consapevolezza del senso dell’immagine, del suo valore testamentario, della sua eternità così leggiadra perché immateriale. Nella splendida dissolvenza incrociata che chiude il film, il regista riesce a condensare l’umano e il quadro, la vertigine del senso e quella dell’estetica, per poi perdersi volutamente in un dettaglio così estremo da essere sfocatissimo, quasi sbagliato. In quel supposto “errore” è racchiuso il potere sopravvivente del cinema e dell’immagine, quello che permette a un condannato alla fucilazione di esistere ancora. Paolo Taviani firma un pianto rituale cui nessuno spettatore può sottrarsi, perché quel pianto è in atto per ognuno di noi.

Info
Leonora addio sul sito della Berlinale.

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