Esterno notte

Esterno notte

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A quasi vent’anni da Buongiorno, notte, Bellocchio torna a mettere in scena il rapimento di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, concentrandosi stavolta su alcune figure, come la moglie di Moro o come Cossiga, che si sono trovate ad assistere impotenti al fatale decorso della Storia. Articolato in sei episodi per la TV e diviso in due parti per l’uscita in sala, Esterno notte – presentato a Cannes 75 – è un complesso mosaico dal sapore romanzesco, è un esempio mirabile – ma forse non imitabile – di serialità televisiva.

L’eterno ritorno della notte della Repubblica

1978. In Italia sta per insediarsi un governo sostenuto dal Partito Comunista, in un’epocale alleanza con la Democrazia Cristiana. Aldo Moro, il Presidente della DC, è il principale fautore di questo accordo. Proprio nel giorno dell’insediamento del governo, il 16 marzo 1978, Moro viene rapito dalle Brigate Rosse. È un attacco diretto al cuore dello Stato. La sua prigionia durerà cinquantacinque giorni. [sinossi]

Arrivato splendidamente a superare gli ottant’anni, Marco Bellocchio sembra aver deciso di voler fare solo film “grandi”, film (o serie TV) che affrontino di petto la storia del nostro paese in un modo così chiaro e diretto come forse non aveva fatto mai. Già con Il traditore – presentato a Cannes 2019 – aveva lasciato intendere che è necessario interrogarci sugli ultimi quarant’anni di vicende italiche se vogliamo provare a ritrovare la nostra identità, dobbiamo interrogarci su ciò che ci è successo per provare a evitare di commettere ancora errori o, per meglio dire, orrori.

Più che a Buongiorno, notte ci pare infatti che la serie TV Esterno notte – mostrata a Cannes 75 nella versione integrale in sei episodi, mentre nelle sale italiane uscirà in due parti e in TV sarà in programmazione in autunno – si ricolleghi direttamente proprio a Il traditore, in cui la vicenda di Buscetta serviva ad ampliare lo sguardo fino a un racconto sull’irrimedibile tentazione mafiosa delle nostre istituzioni. Qui, in Esterno notte, la “scusa”, per così dire, è quella del rapimento di Aldo Moro, che serve da apripista per una serie di riflessioni tutte ruotanti intorno al conflitto tra dubbio e fermezza. E la tentazione è quella del potere, dell’idea virile della vittoria a tutti i costi, del narcisismo del potere fine a se stesso. È questa l’accusa che Bellocchio lancia a quella classe dirigente, quella che – dalla DC al PCI – non fece nulla per evitare che Moro venisse ucciso dalle BR, quella che – tra le file della DC in particolare – magari arrivò a pensare che, tolto di mezzo Moro, diventava finalmente possibile ipotizzare di fare un salto di carriera.

Quando, infatti, verso la fine di Esterno notte, in una ricostruzione fittizia delle immagini di repertorio, Bellocchio ipotizza che al funerale degli uomini della scorta via sia anche la moglie di Moro, Eleonora, insieme a tutta la famiglia, ad un certo punto uno dei figli di lei si alza e urla rivolto alle autorità: «Questa è la vostra guerra, non la nostra!» E allora lì il discorso si fa chiaro: Cossiga (protagonista del secondo episodio), il papa (terzo episodio), i brigatisti Morucci e Faranda (quarto), la moglie Eleonora e quasi tutta la famiglia (quinto) sono in qualche modo le vittime dell’ottusità del potere, della guerra che non conosce obiezioni, di quel pensiero unico che si impose presto e che stabilì che Moro doveva morire. Un discorso, questo, che è sempre di attualità e che non si fa fatica a collegare a quanto sta succedendo in questi mesi con la guerra in Ucraina, dove il minimo dubbio viene tacciato di disfattismo. E, allora, il dubbio non era proprio quello del Buscetta/Favino ne Il traditore? Non era in fin dei conti quello che lo “salvava” e gli faceva riscoprire l’umanità?

È per questo che l’episodio decisivo in tal senso è proprio il quarto, quello con i brigatisti Adriana Faranda e Valerio Morucci, che ad un certo punto si interrogano e si domandano: «Ma non sarebbe meglio non uccidere Moro? Perché ucciderlo? Il gesto veramente rivoluzionario non sarebbe forse liberarlo?». I due, magnificamente interpretati da Daniela Marra e Gabriel Montesi, superano per complessità e stratificazione persino il personaggio interpretato da Maya Sansa in Buongiorno, notte, già troppo roso dal dubbio dell’idea rivoluzionaria per apparire totalmente credibile. Qui i due non sono pentiti – o, almeno, non lo sono ancora – eppure credono che Moro vada liberato. Si scontrano e discutono tra loro a proposito della rivoluzione con parole credibili e non come un ciclostilato d’epoca come troppo spesso è successo nel nostro cinema quando si è tentato di raccontare la lotta armata. In questo episodio, insomma, Bellocchio è riuscito a raccontare dal di dentro i dubbi rivoluzionari di alcuni dei militanti delle Brigate Rosse come forse mai era capitato nel nostro cinema, ha finalmente spezzato un tabù che durava da decenni.
Ma non poteva fare un film solo su questo, ci è venuto a un tratto da pensare? Oppure non poteva fare un film solo su Cossiga, il cui personaggio giganteggia nel secondo episodio come quello di un uomo che si lascia autodistruggere dal potere e dai sensi di colpa? Poteva sì, ma sarebbe stato troppo e troppo poco. Se l’avesse fatto, infatti, non sarebbe riuscito a costruire questo mosaico complessissimo, questa apoteosi del romanzesco, non sarebbe riuscito a raccontare appieno questo multi-universo che è stata l’Italia della fine degli anni Settanta.

Certo, qualche dubbio c’è (a partire dai titoli di testa che fanno eccessivamente il verso alle serie TV americane), qualche lungaggine da qualche parte l’abbiamo trovata, e crediamo che sia dettata soprattutto da questa forma di serialità che impone una durata uguale per ogni singolo episodio, un tributo che – ci sembra – Bellocchio paghi soprattutto nella prima puntata, troppo “scolastica” nel suo essere storica, troppo divulgativa e, a tratti, troppo grottesca alla Petri di Todo modo senza riuscire ad arrivare a quell’altezza smisurata. Ma, come dire, si tratta di dazi in qualche modo inevitabili a fronte di un disegno di portata immenso che da Moro ci porta fino all’oggi. Si tratta di piccole e perdonabili concessioni allo spettatore televisivo che preludono e, in qualche modo, consentono le virate più personali e più visionarie, come ad esempio nella sequenza in cui Moro mostra alla moglie e ai figli la cappella di famiglia a Torrita Tiberina. Lì il leader democristiano sembra già volersi seppellire, sembra già puntare agli allori post-mortem, vuole già pensare ai posteri. Ed è anche per questo che lui in Esterno notte resta, al pari di Andreotti, il personaggio più enigmatico, più enigmatico di quanto non lo fosse in Buongiorno, notte. Intanto per via della recitazione di Gifuni, che tende molto a imitare quella del Moro interpretato da Volonté; quindi una recitazione mimetica, anche se più posata, comunque completamente diversa da quella di Herlitzka in Buongiorno, notte, tutta puntata a sottolineare l’umanità del personaggio. Qui invece Moro appare per certi versi “disumano”, a suo modo “mostruoso”, schiavo anch’egli di quel potere che i personaggi “positivi” di Esterno notte invece rifiutano. Non è un caso che la moglie – interpretata da Margherita Buy, la migliore del cast insieme ai già citati Marra e Montesi, e insieme a Fausto Russo Alesi nei panni di Cossiga – a un certo punto dica al prete che suo marito è tanto preso dal suo ruolo di statista da preferire chiudersi nello studio per scrivere un discorso agli italiani piuttosto che starsene in famiglia. Per certi aspetti, il Moro qui ritratto da Bellocchio è già icona, è già statua, è già la maschera di se stesso. E questo forse accade anche perché Bellocchio è stato attento a non ripetersi, è stato attentissimo a non rifare quel che aveva già fatto in Buongiorno, notte, e anzi ha puntato a migliorarsi, per lunghi tratti riuscendoci.

Il caso più lampante in tal senso viene dall’utilizzo che viene fatto delle immagini di repertorio: nel primo episodio questo uso lascia all’inizio un po’ perplessi in quanto si passa da riprese reali a riprese invecchiate artificialmente, in cui è sin troppo chiara la falsificazione. Ma in quel momento non si può ancora sapere quel che succderà dopo. Infatti, in fin dei conti, il primo episodio funziona da contestualizzazione sotto ogni aspetto: non solo narrativo, ma anche visivo. E così Bellocchio, di episodio in episodio, piazza qua e là il ritorno al repertorio: lo fa ovviamente con la celeberrima edizione straordinaria di Bruno Vespa in cui si annunciava il rapimento di Moro, ma lo fa anche con le riprese del lago di Duchessa, quando un finto comunicato delle BR spinse le autorità ad andare a scavare nel ghiaccio per vedere se il corpo di Moro si trovasse davvero lì. E quelle riprese del lago di Duchessa ritornano continuamente, ossessivamente, tre o quattro volte, e ogni volta vengono lette in una nuova chiave, e ogni volta ci appaiono più assurde e più visionarie. Lo fa poi con i funerali di stato di Aldo Moro, spiegando quello che non spiegava – e a cui alludeva – in Buongiorno, notte, e cioè che quei funerali si fecero in assenza del corpo del leader della DC. Ma il vero “colpo” lo assesta quando reinventa l’archivio, lo riscrive a suo piacimento, in funzione di ciò che vuole raccontare, e l’episodio più eclatante in tal senso avviene proprio nel momento già citato del funerale della scorta di Moro. Lì – e in un altro paio di momenti che però è meglio non svelare – Bellocchio ci dà la sua personalissima rilettura della Storia, che è anche ovviamente Storia del cinema e dello sguardo: il falso si può fare, e anzi si deve fare, basta che sia brechtianamente dichiarato e che serva per capire meglio le dinamiche storiche. E anche qui Esterno notte dialoga a distanza ravvicinata con Il traditore, con il modo in cui ad esempio veniva usato l’anatema della vedova di Vito Schifani della scorta di Falcone quando proruppe nel tragico: «Ma tanto loro non cambiano!», un anatema che poi andava ad assillare in loop i mafiosi in carcere.

Abbiamo cominciato con il dire che Bellocchio si sta imponendo di fare grandi film, grandi affreschi storici. E meno male, viene da concludere. Perché, oltre a Martone, non c’è nessun altro nel cinema italiano contemporaneo che sia in grado di farlo, nessun altro che abbia la volontà, la voglia e la capacità di scavare a fondo nei nostri misteri e nelle nostre ambiguità, in quei fatti e in quegli snodi che in fin dei conti formano la nostra identità.

Info
Il trailer di Esterno notte.

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