Un petit frère

Un petit frère

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Un petit frère, secondo film per la regista francese Léonor Serraille, è l’accorato racconto nel corso dei decenni di due bambini e poi ragazzi ivoriani trapiantati in Francia con la madre a fine anni Ottanta. Un’opera solo all’apparenza semplice, tra il realismo flaubertiano, il lirismo selvaggio à la Rimbaud e la volontà di mettere al centro del discorso l’immigrazione sfuggendo da qualsiasi cliché. In concorso a Cannes.

Rose e i suoi due figli

Alla fine degli anni ’80, Rose arriva dall’Africa e si trasferisce nella periferia di Parigi con i suoi due figli, Jean ed Ernest. Da questa sistemazione ai giorni nostri, il ritratto di una famiglia qualunque. [sinossi]

Nel 1989 una giovane donna ivoriana con due figli piccoli (Jean, 10 anni, ed Ernest, 5 anni) arriva dalla sua terra d’origine a Parigi, dove la famigliola trova ospitalità nell’appartamento di due conterranei, dividendo in tre una camera nella quale a malapena riescono a far entrare la valigia. Inizia così Un petit frère, secondo film per la regista francese Léonor Serraille dopo Montparnasse femminile singolare, vale a dire Jeune femme, che venne presentato in Un certain regard nel 2017 e ottenne la Caméra d’or per l’opera prima. Un lustro più tardi Serraille viene dunque promossa nella categoria principale, e il suo è anche l’ultimo film presentato in concorso, un onore/onere che sovente è servito sulla Croisette a scansare l’attenzione da titoli che si preferiva – a torto o a ragione – far passare in sordina, lontani dal clamore mediatico dei giorni centrali del festival. Anche per questo con ogni probabilità Un petit frère è andato incontro a sale meno piene, sguardi più stanchi, provati da due settimane di visioni. Un peccato, perché l’impressione è che questo accorato racconto familiare avrebbe al contrario meritato un’attenzione maggiore, proprio per evitare di essere etichettato con eccessiva facilità. L’incipit del film, già citato dianzi, è sotto questo punto di vista estremamente paradigmatico, visto che tutti gli elementi in scena suggeriscono allo spettatore un inquadramento facile del film, all’interno di quella gena di opere che la produzione transalpina dedica al tema dell’immigrazione, e nelle quali l’occhio borghese si volge verso le classi più svantaggiate. Una tipologia di cinema che vive ad altezza banlieu, e ama disquisire di difficoltà di integrazione, rabbia, violenza più o meno sotterranea, conflitto. Di conflitto parla anche Un petit frère, ma lo fa da una prospettiva completamente diversa, quasi inedita in questo senso: la vita di Rose e dei suoi Jean e Ernest nella stanzetta dell’appartamento dove sono stati accolti sarà breve, perché la donna deciderà di trasferirsi a Rouen inseguendo un amore clandestino (lui è sposato), in un appartamento tutto suo dove poi cresceranno quasi da soli i ragazzi. Insomma, non ci sarà nessuna difficoltà di integrazione per questi tre ivoriani, almeno non legata al concetto stantio e puramente “legale” del termine. Il conflitto che Serraille fa montare è interiore, sta nella rapsodia di vita di Rose, che è orgogliosamente single e vuole gestire i propri rapporti affettivi, o nella crescita riottosa di Jean, dotatissimo a scuola ma incapace di accettare quella vita borghese che gli sta piovendo addosso. E sta anche e forse soprattutto, per quanto da principio così non sembri, nell’educazione sentimentale e alla vita di Ernest, alla cui versione adulta è concessa la voce narrante.

Un petit frère si articola in tre segmenti, ognuno dedicato in maniera specifica a uno dei tre personaggi in scena (nell’ordine Rose, Jean, Ernest), e in tre anni: il 1989, il 1999, il 2009. Un viaggio temporale che serve alla regista per articolare un discorso sulla famiglia, senza dubbio, ma soprattutto sulle difficoltà ad accettare il proprio ruolo nel mondo. Rose incita i figli a vincere, vincere sempre, salvo poi elogiarli anche quando la vittoria non arriva (Jean giunge “solo” terzo a un concorso di matematica, per esempio): non si tratta però di un’incitazione al successo fine a se stesso, ma del raggiungimento di una legittimità sociale che impedisca o almeno renda assai difficile qualsiasi sguardo dall’altro. Se si eccettua la primissima parte del film, dove nel suo lavoro da donna delle pulizie in un albergo parigino Rose intreccia anche una relazione con un uomo tunisino che dovrà poi però trasferirsi per un impiego a Marsiglia, i suoi ragazzi frequentano solo la crème de la crème di Rouen, visto che frequentano con successo il liceo locale. Marsiglia, Parigi, Rouen: Un petit frère, senza mai trasformarla in una questione metaforica, attraversa con la sua narrazione – anche solo citando le città – la Francia, quella nazione che pare sempre essere stata di “destra” (nel 1989 Jacques Chirac è sindaco di Parigi, per esempio, e da lì prenderà lo slancio per diventare presidente), bianca, cattolica. Nel 2009 è ancora possibile, per la polizia francese, trattare un professore di filosofia come fosse il peggiore dei criminali solo perché è di origine ivoriana e ha dimenticato il documento d’identità a casa. Nel contrappuntare queste schegge di vita sociale e politica francese, la regista non dimentica però mai il suo scopo principale: vivere la vita attraverso l’occhio dei suoi personaggi, empatizzare con loro al punto di provare un dolore concreto.

È grazie a questa profonda sincerità che il film trova i suoi momenti più ispirati: Jean diciannovenne che porta a casa una sconosciuta incontrata in discoteca fingendosi venticinquenne; una gita al mare in Normandia; l’abbraccio notturno di Ernest al fratello maggiore che ha fatto entrare furtivamente dalla finestra perché il nuovo marito della madre gli ha interdetto l’accesso all’appartamento. Muovendosi tra il realismo flaubertiano e il lirismo selvaggio à la Rimbaud (“Un soldat jeune, bouche ouverte, tête nue, Et la nuque baignant dans le frais cresson bleu, Dort ; il est étendu dans l’herbe, sous la nue, Pâle dans son lit vert où la lumière pleut”), senza dimenticare l’origine di ogni scuola letteraria transalpina – viene citato anche Pierre de Ronsard, fondatore de La Pléiade –, Serraille rivendica il ruolo centrale dell’educazione repubblicana, unico vero elemento di evoluzione che possa smarcare l’individuo dalla costruzione e ancor più dalla decostruzione del microcosmo familiare. In questo senso Un petit frère assume una postura quasi gramsciana, che trova la sua sublimazione nella parte finale del film, che è anche la più conflittuale in assoluto. Nel 2009, con Ernest che ha venticinque anni e ha finalmente iniziato a insegnare filosofia al liceo, la famiglia è oramai disgregata, la madre gli riconosce un “pensiero bianco”, cui Ernest non sa come ribattere. Ma basta una lettera semplice, lontana dal fasto creativo dell’età acerba ma diretta, puntuale, priva di fronzoli, a farlo piangere in modo disperato. Tra le sorprese più positive del concorso di Cannes 2022, Un petit frère è un film che, proprio come la succitata lettera, sa essere semplice e complesso allo stesso tempo, spingendo in modo naturale verso le lacrime.

Info
Un petit frère sul sito di Cannes.

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