Festival di Cannes 2022 – Bilancio
Come ogni edizione, è zeppo di contraddizioni il Festival di Cannes, un contenitore smisurato che rastrella a destra e a manca, ridistribuendo ad accreditati e pubblico delle visioni (e delle sezioni) altalenanti, un po’ schizofreniche, anche sacrificate. Volendo riassumere la disordinata magniloquenza di Cannes 2022, potremmo limitarci a due nomi: Volodymyr Zelens’kyj e Sergei Loznitsa.
Un attore e un regista. Come tutti oramai sanno, Zelens’kyj è a grandi linee il Ronald Reagan ucraino: dopo una carriera nel mondo dello spettacolo, tra l’altro calandosi nei panni del presidente dell’Ucraina per una serie televisiva, Zelens’kyj si è effettivamente lanciato in politica e adesso è lì, a guidare la sua nazione nel conflitto che sta facendo venire i brividi all’Europa – potremmo aprire una parentesi sulla percezione occidentale dei conflitti nel mondo, ma non è questa la sede adatta.
Inevitabilmente gonfio di retorica, con una serie di prevedibili rimandi alla settima arte, il presidente ucraino è apparso sul grande schermo durante la cerimonia d’apertura di Cannes 2022. Una visibilità insolita, da molti anche criticata, ma che già abbiamo visto più volte in questi mesi in altri luoghi ed eventi. Discutibile o meno, la presenza e la retorica di Zelens’kyj ha un piccolo ma validissimo contraltare nelle proiezioni di The Natural History of Destruction di Loznitsa, documentario d’archivio che attraverso l’orrore del passato ci mette di fronte agli errori e orrori del presente. Tra le vette di Cannes 2022. Chissà se Zelens’kyj avrà modo di vedere e apprezzare il film…
Attraversata soprattutto da un cinema più o meno autoriale, Cannes 2022 ha regalato qualche parentesi di genere – l’abbacinante Elvis di Baz Luhrmann, il roboante Top Gun: Maverick di Joseph Kosinski ma anche l’arguto biopic metalinguistico Le Petit Nicolas – Qu’est-ce qu’on attend pour être heureux di Amandine Fredon e Benjamin Massoubre – ma sono soprattutto le pellicole di natura politica ad aver lasciato il segno. In ordine sparso, e con declinazioni varie del concetto di cinema politico, ne citiamo alcune: il vincitore della Palma d’oro Triangle of Sadness di Ruben Östlund, con la sua straripante comicità grottesca; la lucidissima rappresentazione della Romania di oggi in R.M.N. di Cristian Mungiu; il coming of age Armageddon Time di James Gray, che attraverso gli occhi di un ragazzino tratteggia uno spartiacque storico-morale-politico degli Stati Uniti; il ritratto di una famiglia e di una società in Leila’s Brothers di Saeed Roustaee, tra le sorprese del festival; il monumentale Esterno notte di Marco Bellocchio…
Al di là dei premi, discutibili o meno, al pari dei giudizi del singolo critico o della critica in generale, andrebbe forse rivista la logica della composizione delle giurie, troppo legate all’effetto glamour. Se ogni grande festival cerca di portare acqua al proprio mulino, distribuendo a volte premi fin troppo generosi alle produzioni della propria nazione, restano comunque poco comprensibili alcune scelte, alcune esclusioni. Gray, Roustaee, ma anche Serra, Cronenberg e Reichardt, hanno un respiro più ampio rispetto ai vari Le otto montagne, Stars at Noon e al pur apprezzabile Close.
Di questa settantacinquesima edizione ricorderemo il caldo crescente, l’aïoli, il caos dei primi giorni di prenotazione dei biglietti, tutti i vari piani del Palais (da -2 a 4), le vertigini di Decision to Leave di Park Chan-wook e la bellezza inarrivabile di Tang Wei, l’imprevedibile e irripetibile cena del capitano di Triangle of Sadness, il meraviglioso film su Monaco 1972 Visions of Eight (soprattutto i corti di Miloš Forman e Arthur Penn), l’affettuoso ricordo di René Goscinny, l’assemblea di R.M.N., il Cossiga di Esterno notte, la sequenza di EO nel bosco, il piccione di Showing Up di Kelly Reichardt, l’eccesso perfettamente calibrato di Elvis, l’importanza di Tom Cruise, l’inscalfibile determinazione politica\poetica di Patricio Guzmán (Mi país imaginario), l’importanza capitale del cinema d’antan, da La Maman et la Putain a Il dio nero e il diavolo biondo, passando per Cantando sotto la pioggia. E poi un sacco di altre immagini, sequenze, pellicole ed esperienze, che in un modo o nell’altro riequilibrano una kermesse gargantuesca, da tempo disumana nelle dimensioni, poco utile per molti film, accumulati, accatastati, infilati in un angolino del programma. I grandi festival andrebbero ripensati, ma anche molti dei piccoli e dei medi. Non sarà così.
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