Ada

Opera seconda di Kira Kovalenko, vincitrice della sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes 2021, Ada è un dramma individuale, sociale e culturale ambientato in Ossezia del Nord che riflette sull’oggetto-corpo della donna in un contesto fortemente patriarcale. Intelligente, stilisticamente compatto, angosciante e avvincente. Da non perdere. In sala grazie a Movies Inspired.

È un crampo

Ossezia del Nord. A Mizur, piccola cittadina mineraria, la ventenne Ada è rimasta l’unica donna in famiglia. Tenuta pressoché come una prigioniera in casa, si prende cura del severo e psicotico padre, del fratello adolescente Dakko, ma progetta di andarsene per fuggire via da un contesto familiare schiacciante e soffocante. Un altro fratello, Akim, se n’è già andato a cercare fortuna altrove, e ritorna a casa con il preciso intento di aiutare Ada a liberarsi dalla sua situazione. Dovranno fare i conti con la rocciosa opposizione del padre, mentre Ada è pure corteggiata da Tamik, che sembra aprirle un’ulteriore alternativa di vita… [sinossi]

Ada è un corpo. Ada è un oggetto. Non tanto perché il suo corpo vada incontro a una consueta mercificazione estetica, ma perché è del tutto privata di una propria autonomia e autodeterminazione. Ada lenisce mancanze. Sopperisce ad assenze. In quell’ingranaggio spesso schiacciante che è la famiglia, Ada è chiamata a conformare se stessa alle esigenze dei diversi uomini che compongono il nucleo parentale a a seconda dei loro bisogni. È la madre-amica di Dakko, fratello adolescente che cerca in lei la dimensione del gioco e della protezione. È la figlia pericolosamente-quasi moglie del padre, ossessivamente attaccato ai figli, e a lei in particolare, fino oltre alla patologia. Solo il fratello Akim, già andatosene di casa per cercare orizzonti migliori, sembra riconoscere alla sorella un proprio sacrosanto statuto di libertà e indipendenza. Akim torna a casa sostanzialmente per liberare Ada, dando luogo a un lungo scontro, racchiuso in pochi giorni, che più volte rasenta la tragedia. Vincitore della sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes 2021 e adesso nelle sale italiane per Movies Inspired, Ada (titolo internazionale Unclenching the Fists, dichiaratamente ispirato e contrario a I pugni in tasca, Marco Bellocchio, 1965) è l’opera seconda di Kira Kovalenko, collocata in quel lontano e poco noto territorio liminare della Russia caucasica, l’Ossezia del Nord, teatro di dissesti sociali dovuti a questioni di terrorismo interno. La vicenda è ambientata in una piccola città mineraria, Mizur, dove la ventenne protagonista Ada combatte quotidianamente e letteralmente per affermare se stessa, per guadagnarsi lo spazio dovuto a una donna adulta.

La sua è una prigionia tra le quattro pareti di casa non soltanto metaforica e psicologica, ma specificamente fisica. Il padre chiude a chiave la porta di casa, le nasconde il passaporto, pretende da lei il trattamento di una moglie/domestica, la tiene lontana dai coetanei che potrebbero corteggiarla. Costretta a una vita di eterna bambina con i doveri domestici di un’adulta, Ada non è soltanto vittima di un caso individuale di disagio e disfunzione familiare, ma in qualche modo la sua vicenda sembra intrecciare il privato di un atroce interno domestico a un più ampio contesto storico-culturale che ha sue precise responsabilità. Il modello socio-familiare imposto dall’ingombrante presenza del padre riflette una lunga tradizione transnazionale di antico patriarcato, con tutto quel che comporta sotto il profilo del ricatto psico-emotivo. I sottintesi del film alludono costantemente a ricatti più o meno espliciti inerenti l’abbandono, l’ingratitudine, l’affetto negato. L’ombra dell’incesto è costante. Nei compiti più o meno dichiarati di Ada rientra pure il conforto fisico di un padre rimasto solo, che allunga la sua sottile mostruosità sul destino di una figlia ventenne. Così come fungono da perfetto detonatore di sensi di colpa gli strani malori da cui il padre è colto, ai quali non si sa mai se credere o non credere – il più grave e prolungato costringe il padre a un lungo silenzio perpetuato per più giorni. Ed è del resto in quell’abbraccio soffocante, apparentemente dovuto a misteriosi crampi, che tale movimento di feroce appropriazione nei confronti di Ada tocca uno dei suoi vertici più visibilmente metaforici. Tuttavia Ada è un dramma che cerca solo in parte discorsi ellittici. È un dramma soprattutto di corpi, ai quali la macchina da presa resta incollata per tratti distesi affidandosi spesso al piano-sequenza. Il corpo di Ada è una mappa del dolore, metaforica ma soprattutto fortemente concreta – le cicatrici sul suo addome, dovute a un sequestro a scuola, aprono uno squarcio immediato nella storia e cronaca osseta. È un corpo soggetto a continue reazioni psicosomatiche, dove pure la minzione si verifica secondo modalità di un bambino spaventato. Kovalenko registra una sequela di abbracci, da un personaggio all’altro, che si profilano per fenomeni di varia natura, dall’inesausta ricerca di conforto al più violento degli atti di appropriazione dell’altro.

A ben vedere, sotto varie forme il maschilismo di un intero sistema socio-culturale affiora nelle situazioni più diverse. Se nell’abbraccio da pitone del padre è da rintracciare probabilmente anche il riflesso di un trauma dovuto all’attacco subito anni addietro da Ada a scuola, d’altro canto la donna interpretata come mero strumento sociale è enfatizzata anche nella bella parentesi dei bagni alle terme naturali, in cui un universo esclusivamente maschile si concede al piacere goliardico di giochi e scherzi – e le battute maschiliste nei confronti di Ada si sprecano. Nelle nuove generazioni (l’adolescente e giocoso Dakko; il serio e protettivo Akim; il corteggiatore imbranato Tamik) si possono forse intravedere barlumi di una consapevolezza diversa, di un approccio più tenero all’oggetto del contendere Ada. Tuttavia, l’ombra della tradizione è sempre dietro l’angolo. Tamik sarebbe voluto arrivare vergine al matrimonio, e per lui è comunque troppo presto per impegnarsi in una coppia. D’altra parte, nel finale Ada constata che pure Akim ha l’odore di papà. È un finale semplicemente splendido per meriti estetici e per intelligenza narrativa. Ada fugge, inseguita dal corteo festoso di auto per un matrimonio dove strombazzano clacson, sventolano bandiere ossete e si sente esplodere pure qualche sparo. Riprese e montaggio frenetici e pressoché subliminali ritornano ossessivamente a sottolineare un destino dal quale Ada deve difendersi con le unghie e con i denti per tutta la sua vita. Si può fuggire. Ma il retaggio culturale è dietro l’angolo, pronto ad aggredire di nuovo. Si può andare altrove, ma il rischio è quello del retaggio introiettato, capace di mantenersi costante a qualsiasi latitudine.

Sul piano stilistico Ada alterna un efficace pedinamento da realismo con macchina a mano a eleganti impennate espressionistiche. Oltre alla corposissima sequenza finale è da rilevare anche il frequente fiammeggiare dei rossi e degli arancio nella fotografia – gli interni di casa, la fuga in auto attraverso il tunnel. In particolare, tutta la sezione dedicata al racconto di una lunga notte in cui i figli lottano con il padre occupa un eccellente capitolo centrale in cui la vicenda s’infila in una spirale sempre più schiacciante di angoscia senza fiato. Angoscia per il corpo di Ada, vittima costante di scompensi, di viluppi, di minacce alla sua indipendente integrità. Corpo individuale, corpo (suo malgrado) familiare, corpo sociale e corpo storico-culturale. Compagna di Kantemir Balagov (erano compagni di classe alla Kabardino-Balkarian, dove avevano come insegnante Aleksandr Sokurov), autore dell’ottimo Tesnota (2017) con il quale Ada condivide più di uno spunto, Kira Kovalenko confeziona insomma una pregevole opera seconda, solida e compatta, pienamente ispirata e convincente. Una delle visioni migliori del 2022, al momento. Da non perdere. In sala c’è fresco, c’è l’aria condizionata. Il contesto è propizio.

Info
Ada, il trailer.

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