Bentu

Salvatore Mereu torna alla Mostra di Venezia a due anni di distanza da Assandira con Bentu, spaccato rurale nella Sardegna degli anni Cinquanta tratto da un racconto di Antonio Cossu; un lavoro piccolissimo eppure prezioso, e di grande potenza espressiva, riflessione sul contrasto eterno tra l’eternità dell’elemento naturale e l’avanzare del “moderno”. Una vera lezione di cinema. In concorso alle Giornate degli Autori.

“Come crescere il gran guarda il villano finché non sia maturo per la falce”

L’anziano contadino Raffaele ha raccolto il suo grano, provvista di un anno intero: per non farsi trovare impreparato, da giorni dorme in campagna, lontano da tutti, in attesa che il vento arrivi e lo aiuti a separare i chicchi dalla paglia. Nonostante nei campi sardi appaiano le mietitrebbia, Raffaele insiste nell’attendere il vento che però pare non voglia arrivare. A fargli visita giunge invece Angelino, un bambino di 10 anni, che fa la spola col paese dove abita la moglie di Raffaele. [sinossi]

Liberamente tratto dal racconto Il vento di Antonio Cossu (scrittore sardo nato nel 1927 e morto nel 2002), il nuovo film di Salvatore Mereu è frutto di un progetto nato all’Università di Cagliari nell’ambito del corso di laurea in Produzione Multimediale. Regista e studenti a un certo punto sono usciti dalle aule per misurarsi col cinema: “E ci si ritrova, tutti insieme, a fare un film nonostante i mezzi a disposizione siano più adatti a stare dentro le mura della nostra università” scrive Mereu nelle note di presentazione. Nasce così Bentu, in Concorso alle Giornate degli Autori, che a differenza degli ottimi Assandira (2020) e Bellas mariposas (2012) si articola attorno a un intreccio a dir poco essenziale e ambientato nel passato, in quegli anni Cinquanta in cui la presenza di mezzi meccanici si affacciò davvero nella vita degli agricoltori sardi. Il rapporto con la modernità (un tema centrale nel cinema di Mereu) emerge da un racconto ridotto all’osso, parlato in sardo, con una sola ambientazione e sostanzialmente due personaggi: l’anziano contadino Raffaele (Peppeddu Cuccu, il bambino che si vede in Banditi a Orgosolo di Vittorio De Seta) e il piccolo Angelino (Giovanni Porcu), un bambino di 10 anni che con le sue visite interrompe la quotidianità scandita da semplici ma fondamentali gesti dell’uomo che attende l’arrivo del vento (“bentu”, appunto), così come è stato per secoli. Le necessità produttive da cui il film scaturisce sono state messe a frutto virtuosamente poiché Bentu è un film di un puro nitore, una parabola che – con nulla – riesce a parlare del tempo e delle dinamiche di trasformazione della società: solo un regista che ha perfettamente chiaro ciò desidera raccontare può mettere a punto a un lavoro così scarno e così “pieno”.

È un film sull’accelerazione del tempo, sull’interruzione che la tecnologia e il moderno portano nella Storia, sulla disarmonia e sull’incontro apparente, Bentu, che nella prima parte ritrae le giornate di un “monaco” della mietitura, di un anziano che fa bollire l’acqua sul fuoco per farsi un piatto di spaghetti e che la notte si alza per mettere a posto l’aia, intonando canti sul vento che non può essere controllato dagli uomini ma arriva sempre. La prima parte è frammentata in scene di presentazione di Raffaele, del contesto in cui appaiono anonimi altri contadini, di Angelino e della cavalla Tortorella, ingorda di grano, su cui il bambino vorrebbe montare. Angelino, così come Tortorella, sono entrambi “birbanti” e selvatici, ma del resto uno è un bambino e l’altra un animale; il bambino, di scena in scena, pare un po’ monello ma per il burbero Raffaele diventa una presenza amica, un “figlio” (il suo sta facendo il servizio militare) cui forse trasmettere le prime nozioni sulla vita nei campi. Il riottoso agricoltore dà un po’ alla volta fiducia ad Angelino, che cerca di riprodurre i gesti che gli vengono insegnati sebbene con relativo successo (“non mi sembri adatto a fare il contadino” gli dirà Raffaele). La seconda parte del film è un’unica sequenza in cui il bambino a dorso di mulo torna a trovare l’anziano e in cui i due stringono un rapporto più forte, andando anche a pescare anguille: emergono e deflagrano qui i conflitti che, sottotraccia, il film contiene fin dall’inizio. Se Raffaele pare essere uno dei pochi ad affidarsi ancora al vento e non alle macchine, l’affetto spigoloso che mostra per Angelino ha in sé un limite che l’uomo non sa o non vuole capire: i due parlano ma in fondo non comunicano, restando nella propria alterità, nella propria diversa dimensione. Raffaele è, a modo suo, contento di poter stare con un giovanissimo cui magari trasmettere delle conoscenze, ormai residuali e destinate a essere divorate dal tempo, ma non si rende forse conto che per Angelino nozioni e gesti rimangono nell’ambito del gioco infantile, della riproduzione decontestualizzata di azioni che smarriscono ineluttabilmente il proprio senso nel momento stesso in cui vengono compiute. Lo iato delle generazioni e dei cambiamenti vengono ignorati dall’anziano e la serietà della tradizione non può essere compresa dal bambino: è in questo spazio pericolosamente vuoto che si annida la contraddizione, l’impossibilità di una trasmissione, l’interruzione brusca di un mondo che verrà inghiottito da un altro. “L’America ci ha portato via tutto, ha fatto quello che voleva” ripete ogni tanto, nel suo soliloquio, Raffaele; e del resto Angelino è in realtà proteso a diventare grande, più grande di quel che è, a crescere in fretta senza dover imparare le dure regole di una natura destinata per lo più a essere intensivamente manipolata.

Il film riesce a costruire una progressione narrativa di alta drammaticità con una chiarezza di sguardo, di messa in scena, di azione, disarmanti. La natura non è un luogo di spiriti benigni, un dolce rifugio per anime belle: il paesaggio della Trexenta, nella provincia di Cagliari, inganna con la sua armonia e i suoi colori caldi, nascondendo un’anima ovviamente indifferente alle vicende degli uomini. Quando il vento risveglierà il grano non ci sarà alcuno stupore panico, nessuno sguardo elegiaco. Tra le due generazioni dei protagonisti non c’è invece riconoscimento, né lingua comune nonostante entrambi parlino in sardo, ma ci sono soprattutto fraintendimento e difformità. Tutti questi elementi sottopelle spingono il film a un climax potentissimo e inatteso. La magnifica dissolvenza finale si sofferma sull’eternità dell’elemento naturale contrapposto a quello umano, un’eternità che macchine e trebbiatrici metteranno in discussione nella pratica di sfruttamento ma che non potrà mai essere veramente scalfita nella prevalenza sostanziale di una forza altera e muta. In 70 minuti Salvatore Mereu realizza un film piccolissimo e molto prezioso, un gioiello che ci ricorda quanto poco “materialmente” basti a fare un film di naturale purezza ma quanta precisione intellettuale invece serva per portarlo a termine lavorando con gli elementi fondamentali di una narrazione. Due personaggi, un luogo, un conflitto, un’idea netta di ciò che si vuole dire. Una piccola, grande, lezione di cinema.

Info
Bentu sul sito delle Giornate degli Autori.

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