Marx al supermercato. Idiozia e burlesque nei film del Groupe Dziga Vertov
All’interno dello speciale che dedichiamo a Jean-Luc Godard, Federico Rossin ci dona il testo originale italiano di un saggio dedicato al Groupe Dziga Vertov che venne pubblicato nel 2011 dalla rivista «Vertigo».
I am for an art that grows up not knowing it is art at all, an art given the chance of having a staring point of zero.
I am for an art that takes its form from the lines of life itself, that twists and extends and accumulates and spits and drips, and is heavy and coarse and blunt and sweet and stupid as life itself.
Claes Oldenburg
I film girati da Jean-Luc Godard – con Jean-Pierre Gorin – fra il 1968 e il 1972 (otto film finiti, due incompiuti, uno spot pubblicitario) e variamente ascritti al Groupe Dziga Vertov 1,sono quasi sempre stati bollati dalla critica coeva come astratti e intellettualistici, politicamente poco chiari e formalmente brutti, e soprattutto pesanti e poco divertenti se comparati ai film realizzati in precedenza: negli anni ’80 e ’90 sono addirittura scomparsi dai libri su Godard, quasi che fossero una parte estranea al suo corpus 2. Vederli oggi, finalmente in ottime copie restaurate, significa ribaltare totalmente quei giudizi ingenerosi: i film del Gruppo Dziga Vertov ci appaiono inaspettatamente come una continua vertigine estetica, un dilagante esperimento formale, una ricerca linguistica di grande importanza. Quello che rende i film del Groupe Dziga Vertov degli OVNI – Objet Visuel Non Identifié 3, come li chiama oggi con grande intelligenza critica e un distacco un poco sardonico Gorin – è la resistenza che hanno mantenuto a lasciarsi ingabbiare in una griglia definitoria troppo stretta. All’inizio degli anni ’70 Godard e Gorin non fanno un pacificato cinema politico militante, semmai adoperano la macchina-cinema con un senso acutissimo del loro presente: nei film del Groupe Dziga Vertov troviamo, è ovvio, slogan e parole d’ordine che reclamano una prassi e una vita radicalmente altre, ma quello che finora non è stato messo in chiaro è come i due registi avessero già colto proprio in questa serie di film, attraverso la frantumazione dei linguaggi e delle forme, lo sfaldarsi del mondo. Quei film registrano nelle loro strutture profonde l’impossibilità senza ritorno di un’esperienza e di una rappresentazione omogenee e universalizzabili del mondo, rifiutano un orizzonte di senso unitario, «inglobante eventi narrabili secondo concatenazioni e relazioni rinvenute o immaginate da individui sufficientemente fiduciosi nelle potenzialità unificanti delle proprie capacità descrittive» 4. Sono cioè, come cercheremo di dimostrare, dei film girati dal punto di vista di un idiota e soprattutto con un linguaggio che trae dall’idiozia il proprio nucleo generativo.
In greco il sostantivo ὁ ἰδιώτης è assolutamente intraducibile fuori da un contesto: la sua particolarità è di poter acquistare un senso compiuto solo da una rete di opposizioni perché alla lettera è una parola che non vuol dire nulla. In opposizione al γένος significa individuo, in opposizione ad una persona che ha una carica pubblica significa privato cittadino, in opposizione a Βασιλεύς vuol dire suddito o non facente parte della famiglia reale, se in opposizione a sacerdote lo si trova poi nel senso di laico; può inoltre significare “uomo sprovvisto di un sapere” e cioè di una τέχνη (una capacità professionale, sportiva o politica che sia): assai raro è il suo uso in senso deteriore o spregiativo 5. È solo con il mondo moderno che il termine idiota significa stupido: ma nella sua radice etimologica permane questa resistenza ad una definizione precisa.
È a
partire dai film del Groupe Dziga Vertov, prodotti da piccole società
o finanziati da alcune televisioni europee, che Godard inizia a porsi
radicalmente fuori dalla società consumistica della sua epoca,
contro lo stato capitalista che ne è la quintessenza, contro le
istituzioni e i partiti che ne sono l’espressione ideologica: la
sua scelta è quella di un uomo solo che esprime, attraverso un
linguaggio cinematografico nuovo ed estremo, la sua visione
etimologicamente idiota delle cose. Nei suoi anni Mao Godard
ha sempre voluto rimarcare uno stacco deciso con il suo periodo
cosiddetto nouvelle vague, sottolineando la sua trasformazione
politico-esistenziale da cineasta borghese in militante
rivoluzionario, evidenziando la scomparsa del suo sé autoriale,
mostrando quindi di aver distrutto la sua soggettività poetica a
favore di una oggettività politica, o meglio di una soggettività
che doveva essere ripensata in termini di classe e di una
persona-artista che andava intesa solo come produttore-collettivo al
lavoro su oggetti a cui applicare una pratica ideologica specifica –
e cioè il cinema e i film. Queste sono le intenzioni sbandierate da
Godard e dal suo sodale Gorin in decine di interviste, presentazioni,
manifesti: quello che oggi noi abbiamo davanti è molto diverso e,
per molti aspetti, spiazzante e nuovo. La nuova soggettività cui
Godard arriva è in realtà quella di un artista-idiota di fronte
alla catastrofe del mondo e all’impossibilità di darne un’immagine
veritiera se non attraverso un’opera in frammenti 6.
Nel
primo capitolo del loro Anti–Œdipe Deleuze e
Guattari, scritto proprio all’inizio degli anni ’70, ben
descrivono la situazione storica, esistenziale ed ontologica che si
trova ad affrontare il Groupe Dziga Vertov: «Nous sommes à l’âge
des objets partiels, des briques et des restes. Nous ne croyons plus
en ces faux fragments qui, tels les morceaux de la statue antique,
attendent d’être complétés et recollés pour composer une unité
qui est aussi bien l’unité d’origine. Nous ne croyons plus à une
totalité originelle ni à une totalité de destination. Nous ne
croyons plus à la grisaille d’une fade dialectique évolutive, qui
prétend pacifier les morceaux parce qu’elle en arrondit les bords» 7. A Godard e Gorin non interessa più dare forma all’informe
del mondo, porsi cioè come trasformatori di χάος in κόσμος:
l’obiettivo principale – che è sia politico, filosofico e
artistico – è quello di disfare come due idioti il gomitolo del
mondo, di smagliare il tessuto che ricopre la sostanza delle cose per
rivelarne il caos irreversibile. Ciò avverrà sfaldando e
decostruendo gli stili e il pensiero con cui fino ad allora il cinema
pretendeva di orientarsi e contenere il caos dell’esperienza.
Il film della coppia Godard-Gorin meno considerato di tutti, Vladimir et Rosa (1970), è quello che maggiormente ci colpisce, per la sua radicalità politica, la libertà idiota della sua costruzione e per la sua comicità burlesque 8. Il comico non è mai mancato a Godard nemmeno nel periodo di cinema militante 9: British Sounds (1969) ha momenti di delirio verbale esilaranti, in Vent d’Est (1969) l’apparizione di Glauber Rocha riporta ad una atmosfera carnevalesca e delirante la seriosità dei dibattiti politici; i siparietti all’università e in un negozio di abbigliamento vissuti dalla protagonista Paola di Lotte in Italia (1970) sono momenti di pura farsa brechtiana; in Tout va bien persino la scenografia è un omaggio al cinema comico, presa com’è da quella di The Ladies Man dell’amato Jerry Lewis, e tutto il ruolo eccessivo e anarchico giocato dalle comparse è basato sulla commedia francese degli anni ’30-’40.
In Vladimir et Rosa Godard e Gorin portano alle estreme conseguenze l’adesione ad un genere primitivo del cinema comico, realizzando un film in cui non solo i personaggi, la scenografia e i costumi ma la stessa messa in scena, la stessa costruzione e in definitiva lo stesso linguaggio cinematografico sono pura idiozia e burlesque. Dovendo girare per la televisione tedesca un film sul processo ad un gruppo di attivisti radicali (tra i quali Bobby Seale, Abbie Hoffman e Jerry Rubin) accusati di aver fomentato le proteste alla convenzione del partito democratico di Chicago nel 1968, Gorin e Godard optano per una messa in scena simbolica estremamente caricata e caricaturale 10 e trasformano la loro abituale macchina dialettico-filmica in una struttura esplosa priva di gerarchie e senza una progressione lineare: il verbo francese rompre, che sentiamo continuamente, è la parola d’ordine del film. La struttura si presenta come una serie di frammenti tra loro quasi sempre irrelati nel tempo e nello spazio, proprio come avviene nel burlesque che è «fatto di passaggi discontinui da frammento a frammento […] in questo movimento i frammenti permangono un itinerario di luoghi distinti e senza connessione, non diventano direzione, non risultano investiti di senso come progresso verso qualcosa» 11, o nella slapstick comedy «dove la logica drammatica del racconto è sostituita da un canovaccio approssimativo sul quale si infilano le serie dei gags attraverso un incatenamento altrettanto approssimativo, e l’intero meccanismo si adegua più a un principio ritmico che a un principio di causalità» 12.
A trapuntare questa struttura ontologicamente anarchica i due registi mettono in scena un loro dialogo, che è anche un meta-commento al film 13: ci appaiono in mezzo ad un campo da tennis, divisi dalla rete e ogni tanto colpiti dalle palle dei giocatori: Godard, con un buffo cappello e un forte accento svizzero/russo, fa delle domande a Gorin reggendo verso di lui un microfono, entrambi indossano grosse cuffie da tecnici del suono e balbettano continuamente. Il tema del dialogo è il film stesso, le scelte politico-estetiche che si vorrebbero applicare, le contraddizioni fra la teoria e la pratica che vivono due cineasti militanti. Mentre elaborano il progetto del film, registrano e ascoltano il loro dialogo, che viene distorto e reso quasi incomprensibile 14 dall’eco e dall’amplificazione: se «nel cinema devi respingere tutte le palle, alcune sono avvolte nello zucchero ma sono pericolose e mortali» 15 – e sono quelle del cinema cosiddetto politico ancorato alla drammaturgia hollywoodiana –, allo stesso modo devi saperti auto-deridere e saper criticare il ciarlare vacuo e infinito proprio del militantismo. Il problema è sfuggire allo slogan facile, alle parole d’ordine, alle asserzioni ideologiche: alla domanda di Vladimir-Godard «Ma come possiamo fare immagini della rottura?» Rosa-Gorin risponde «Non saprei, dovremmo prima conoscere le immagini che ci opprimono per poterle distruggere meglio». Vladimir et Rosa riesce in questa distruzione nella misura in cui la rifondazione materialistica del linguaggio cinematografico, che era l’obiettivo primario del Groupe Dziga Vertov, passa nel film attraverso un ritorno alle origini del cinema comico e ne sposa totalmente i principi costruttivi: «c’est frappant […] à quel point toutes les parties sont produites comme des côtés dissymétriques, des directions brisées, des boîtes closes, des vases non communicants, des cloisonnements, où même les contiguities sont des distances, et les distances des affirmations, morceaux de puzzle qui ne viennent pas du même, mais de puzzles différents, violemment insérés les uns dans les autres, toujours locaux et jamais spécifiques, et leurs bords discordants toujours forcés, profanés, imbriqués les uns dans les autres, avec toujours des restes» 16.
Il
programma del Groupe Dziga Vertov enunciato con semplicità idiota da
Gorin e Godard in Vladimir et
Rosa (1970) non è altro che un’analitica dell’immagine,
una decostruzione dell’immaginario, una guerriglia semiologica
espresse attraverso una delirante allegoria slapstick in cui i gags
hanno la priorità sulla logica drammaturgia e la somma delle parti
eccede sempre l’unità finale. Quella che vediamo è cioè «una
comicità senza esito, e la struttura del racconto che ne deriva è
quindi […] quella di un meccanismo che opera con una circolarità
viziosa, senza una finalizzazione degli atti, risolta interamente nel
suo funzionamento interno» 17:
una struttura etimologicamente idiota. Gorin e Godard, con i loro
microfoni che distorcono le voci del loro dialogo, rendono manifesta
la loro ideologia ma allo stesso tempo sono consapevoli della
distorsione comica che non permette nemmeno a loro di udire le
proprie parole con chiarezza. L’ideologia pesante e invecchiata che
ha allontanato la critica da un’analisi necessaria dei film del
Groupe Dziga Vertov era in realtà già stata disinnescata da Gorin e
Godard con un gesto di autocritica surrealista e libertaria: è come
se i due cineasti ci dicessero «siamo due idioti che, pur
bersagliati da ogni parte, vogliono fare del cinema politico e di
rivolta», un cinema punk come lo ha definito recentemente
Gorin. Burlesque e idioti non sono solamente i due registi del
film, vestiti come due scemi del villaggio (non possiamo non pensare
ai Three Stooges, i più anarchici e distruttivi fra i comici
americani, piuttosto che ai fratelli Marx – di cui appare una foto
nel film) o come due sbirri usciti da una comica di Mack Sennett
(solo molto più inquietanti e perversi, con Godard che estrae dalla
zip dei pantaloni un lunghissimo e minaccioso manganello), o il
giudice (Himmler!) che prende appunti su Playboy e parla con una
vocetta da cartone animato: burlesque e idioti sono anche
l’irrealismo dei gesti, l’inesistenza di una qualche figura
psicologicamente marcata, la poetica surrealista degli oggetti. Ma
soprattutto burlesque e idiota è appunto il linguaggio: se
Godard negli anni ’60 era famoso per scrivere la sceneggiatura dei
suoi film direttamente sul set, di giorno in giorno, con Vladimir
et Rosa questo procedimento raggiunge il parossismo.
Oggi
è chiaro che la vera ideologia portante del Groupe Dziga Vertov –
ideologia secondo l’accezione althusseriana, molto cara sia a
Godard che a Gorin, di «rapporto immaginario degli individui con le
proprie reali condizioni di esistenza» 18 – non fosse un
marxismo-leninismo orecchiato malamente eppur splendidamente recitato
come un mantra («
l’analisi
concreta di una situazione concreta») ma bensì la costruzione di un
radicale grado zero della scrittura e del linguaggio, e cioè un vero
e proprio mito modernista (secondo la puntuta definizione di Rosalind Krauss 19),
quello del back to zero,
e cioè quello dell’idiozia come cuore della forma e del
linguaggio. Il punto di vista dell’idiota serve a
Godard e Gorin per rendere conto, in termini paradossalmente
scientifici, della realtà vera del mondo contemporaneo: «l’unica
soluzione possibile è la descrizione dei fenomeni complessi dal
punto di vista dell’incomprensione, cioè della “stupidità”,
mentre l’incomprensione, il primitivo, la “stupidità” da
anomalia culturale si trasforma in problema culturale» 20.
È proprio a partire dai film del periodo Dziga Vertov che Godard imbastisce i suoi film essenzialmente sul farsi stesso del linguaggio e del film (cosa che avveniva anche prima, certamente, ma non con la stessa radicalità): il contenuto del film è cioè il processo stesso della realizzazione, un processo che negli anni ’70 si identifica soprattutto con una rifondazione del linguaggio filmico e un’autocritica ideologica tra lo spietato e il clownesco, e dagli anni ’80 in poi in una riflessione continua sul cinema e sulla sua storia. Da questo punto di vista tutti i film di Godard sono imbevuti della poetica del burlesque e da una vena idiota dilagante: «L’opera non è l’espressione di idee precedentemente concepite, è l’avventura stessa di un pensiero mentre si sta formando, di un discorso che, piuttosto che sviluppare un soggetto lo inventa liberamente sviluppando se stesso. Nello stesso tempo, la logica dell’intrigo drammatico fa posto a quella delle libere associazioni di idee (o, meglio, di immagini) » 21.
I film del Groupe Dziga Vertov sono strutturati secondo un principio ontologicamente metalinguistico e di work in progress. E più radicalmente non solo sono costruiti secondo un procedimento dialettico che rende ogni parte del film come la tappa per la trasformazione e il superamento di quella precedente, ma l’intero corpus si struttura macroscopicamente come una riflessione in corso d’opera in cui ogni stazione/film è insieme la critica e la soluzione di quella precedente – o meglio la sua distruzione. L’autocritica maoista è mimeticamente presa a modello ironico e idiotaper la costruzione riflessiva di ogni film, ed il procedere a capitoli irrelati e a sequenze frammentarie tipico dei film pre-Maggio ’68 si struttura proprio in Vladimir et Rosa in senso più anarchico e distruttivo.
Anche laddove Godard sembrava darsi una scansione più rigorosa – Un Film comme les autres o British Sounds – finisce per sfondare le gabbie in cui si era chiuso, dissolve la programmatica istanza sistematica con la sua pratica di rottura permanente fra gli elementi in gioco. Paradossalmente Godard «non soltanto non si cura della certezza scevra di dubbio, ma denuncia persino l’ideale. Si invera nel procedere che lo porta al di là di se stesso, non nella archeologizzante ossessione dei fondamenti. I suoi concetti brillano della luce di un terminus ad quem che gli rimane sconosciuto e non invece di un manifesto terminus a quo, ed è qui che il suo stesso metodo esprime l’intenzione utopistica» 22. Idiozia e utopia si abbracciano fra loro.brL’ossessione semplificatrice si ribalta in sempre maggior complessità, l’obiettivo di unità trova vera realizzazione non nella saldatura delle fratture ma nell’esibire apertamente nei film la forza destrutturate che opera al loro interno 23. E quindi, tanto più sentiamo risuonare nei film del Groupe Dziga Vertov proclami maoisti, tanto più la forma dei film stessi – con l’eccezione di Pravda (1969), che ci pare meccanico nel periodare, sciatto nella struttura e povero di idee visive, se si escludono i primi straordinari dieci minuti – eccede la programmatica sistematicità e la sbandierata struttura dialettico-critica per raccontarci un sublime “«tale told by an idiot, full of sound and fury»”. La lavagna nera su cui il Groupe Dziga Vertov diceva di voler scrivere un linguaggio nuovo comprensibile a tutti i proletari è in realtà piena di giochi linguistici, di divertiti détournements e citazioni cialtronesche, di sberleffi alla Sennett e siparietti idioti in cui duettano un’erotica eretica e una metalinguistica presa in prestito da Lewis Carroll. L’omogeneità di forma e contenuto si rivela tale proprio perché nel linguaggio esplodono continue contraddizioni tra significante e significato e il non senso si rivela essere il più profondo strumento di analisi per l’apocalisse conoscitiva del mondo contemporaneo.
Quel “«pauvre idiot de révolutionnaire, millionnaire d’images»” 24, con il suo far risuonare dentro di sé un estenuante balbettio idiota e con i suoi gesti slapstick e burlesque, aveva annunciato un’epoca e un mondo che non abbiamo ancora cessato di vivere e abitare.
Testo originale italiano del mio articolo tradotto in francese Marx au grand magasin. L’idiotie et le burlesque dans les films du groupe Dziga Vertov, uscito sulla rivista Vertigo 2011/2 (n° 40).