Il sindacalista

Il sindacalista

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Spassosissimo e caratterizzato da un ritmo a tratti travolgente, Il sindacalista di Luciano Salce si delinea a cinquant’anni di distanza come un apologo spaventosamente profetico e lungimirante sulla deriva socio-antropologica del mondo del lavoro italiano fino ai giorni nostri. Splendida prova a due per Lando Buzzanca, forse al suo ruolo migliore per il cinema, e per un misuratissimo Renzo Montagnani.

Il sol delle sinergie

Contestatore innato, il siciliano Saverio Ravizzi è emigrato al Nord e lavora in una fabbrica di frigoriferi di proprietà del sornione Luigi Tamperletti. Sposato con Teresa, consorte repressa e repressiva, Saverio agita continuamente i colleghi di fabbrica per ottenere condizioni di lavoro sempre migliori. Mentre le provocazioni si fanno più forti e ricorrenti, a poco a poco Tamperletti prende contromosse di ambigua interpretazione, fin troppo disponibili al dialogo… [sinossi]

Come talvolta accade nel cinema di Luciano Salce, anche Il sindacalista (1972) non disdegna parzialmente gli strumenti della farsa. Vi è del resto la presenza stessa di Lando Buzzanca in qualità di protagonista a spingere in tale direzione. Figura comica dai tratti progressivamente marcati e tipizzati, Buzzanca si è tuttavia ritrovato, di quando in quando, all’interno di progetti cinematografici che sembrano voler alzare il tiro rispetto all’immediata satira di costume (spesso a tematica erotica) che caratterizza la sua filmografia anni Settanta. È il caso dell’incontro con Salce. C’è anche la farsa, sì, immediata e conclamata. Basti pensare all’esordio del film, sottolineato dal richiamo della voce onirica di Giuseppe Di Vittorio. In Il sindacalista emergono subito il tratto forte, la tipizzazione survoltata, a dare i contorni di un profilo psicologico e di una contestualizzazione socio-antropologica. Indomito difensore dei diritti dei lavoratori e degli oppressi in genere, il protagonista Saverio Ravizzi finisce per sognare nottetempo la voce del suo esorbitante modello e punto di riferimento. La farsa e l’eccesso grottesco allignano poi un po’ in tutta la costruzione del film, a cominciare dal ricorso a macchiettoni nei personaggi secondari, all’utilizzo saltuario dell’accelerato, ad alcune soluzioni narrative palesemente fuori misura – la marcia di solidarietà per gli operai della Pirelli, all’esordio del film, condotta in mezzo alle intemperie e in solitudine pressoché totale; il furto dell’autobus; la sicilianità a tinte fortissime della moglie di Saverio, interpretata da Isabella Biagini; i messaggi in segreteria telefonica; l’indagine sulla pernacchia; e chi più ne ha più ne metta. Non è quasi per nulla coinvolto nelle tonalità farsesche, invece, il coprotagonista Renzo Montagnani, qui in versione sbarbata, dai tratti più giovanili rispetto al profilo del pavido borghesotto facoltoso delle successive commedie sexy. Sempre di industriale si tratta (e anzi, viene da pensare che discenda proprio da qui, dal Luigi Tamperletti di Il sindacalista, l’archetipo del personaggio nel quale poi Montagnani si troverà prigioniero per buona parte della sua carriera), ma in versione credibile, giusto un filo oltre alla soglia del grottesco e solo in alcune specifiche sequenze, in particolare nei sapidi e gustosissimi duetti con Buzzanca.

Non è la farsa, tuttavia, a esaurire completamente il profilo estetico di Il sindacalista. A fronte di una costruzione fortemente episodica, che specie nella sezione centrale ripete più volte le medesime situazioni narrative senza palesare una spiccata progressione di racconto, Salce propone una commedia a tratti molto spassosa che al contempo riflette in modo assai penetrante sull’evoluzione dei rapporti e dei costumi nel mondo del lavoro dell’operosissima Italia anni Sessanta e Settanta. È un film di fabbrica, Il sindacalista, categoria trasversale a più generi lungo i nostri Settanta e fittamente ripercorsa dagli autori più diversi (tra gli altri, La classe operaia va in paradiso, Elio Petri, 1971; Una breve vacanza, Vittorio De Sica, 1973; Romanzo popolare, Mario Monicelli, 1974; Delitto d’amore, Luigi Comencini, 1974; La patata bollente, Steno, 1979). Ed è un film di fabbrica alimentato da un dominante cinismo narrativo, che tramite la tipica sferzata salciana si abbatte contro tutto e tutti, salvando solo in parte l’idealismo anarchico-individualista del protagonista. A sua volta il personaggio di Saverio si delinea ogni tanto come una macchietta, che introduce e conclude il racconto delle sue gesta seguendo le coordinate di un segno fortemente distorto – nello scioglimento, la sua rivendicazione dei diritti dei lavoratori anche all’interno del sindacato stesso si traduce in un’estenuante logorrea che s’interrompe solo sulla parola Fine. Buzzanca tiene però a briglia corta la sua tendenza al macchiettone (alla quale pure cede ogni tanto pure in questa occasione) e si affida al racconto di un profilo più umano e credibile del solito, a tratti capace di solleticare l’empatia dello spettatore – basti pensare al patetico senso di esclusione che emana dal suo tentativo di elevarsi socialmente tramite una storia d’amore con la giornalista Vera. Con buone probabilità Saverio Ravizzi è il ruolo migliore di Buzzanca per il cinema, e non casualmente ciò è stato possibile grazie all’incontro con un autore solido e robusto come Luciano Salce.

In qualche modo Il sindacalista sembra anche una vaga e lontana anticipazione di Fantozzi (1975). In entrambi i casi Salce affronta il mondo del lavoro, conducendo idealmente, da un film al successivo, una sorta di percorso dalla fabbrica operaia all’ufficio impiegatizio. In entrambi i casi Salce dà conto di un contesto socio-lavorativo in forte evoluzione (o per meglio dire, involuzione). In Il sindacalista i conflitti forti in seno alla realtà produttiva di una fabbrica di frigoriferi sono tutti risolti in favore di un quieto corporativismo, dove il padrone Tamperletti non fa altro che anestetizzare qualsiasi esigenza dei propri lavoratori tramite ruffiane regalie apparentemente generose – l’appartamento abusivo per gli sposi, un esempio per tutti. Per ridurre lotta e coscienza di classe è sufficiente e necessario azzerare il conflitto. Non accogliendo (o non sempre) le istanze dei lavoratori, bensì accontentandoli in altro, lisciandoli, illudendoli di essere speciali, stuzzicando l’individualismo del singolo. In Fantozzi tale percorso avrà già compiuto un salto ulteriore. Il corporativismo è ormai conclamato e ha assunto tratti sottilmente o sfacciatamente autoritari e repressivi. Il bisogno di sentirsi uguali agli altri, totalmente inclusi e adeguati ha invaso la psicologia del singolo. La sparizione della coscienza collettiva ha lasciato completamente posto a un servilismo attutito e consolato dall’illusione della felicità garantita da nuove soddisfazioni d’acquisto e di status symbol (nel caso di Fantozzi, ottenute sempre in forma degradata). L’illusione del benessere. Se la religione è l’oppio dei popoli, lo spettro dell’inclusione sociale ne è il Prozac ante litteram. Del resto, si è palesemente imborghesita pure la realtà del sindacalista tutto d’un pezzo Saverio Ravizzi, la cui consorte Teresa esprime una cura e un’idea maniacale di possesso nei confronti del mobilio di casa, fino a tenere per decenni il salotto sotto cellophane – quanta verità, quanto acume sociologico anche soltanto in questa notazione, perdio.

Il cinema di Salce giunge ad avere consapevolezza di questo, e a darne conto, in pieni anni Settanta, ossia nel bel mezzo del decennio apparentemente più ribollente di scontri e conflitti sociali nel nostro Paese. Profetico e lungimirante come pochi, Salce intravede già una deriva sociale perfezionata nei suoi nefasti effetti fino ai giorni nostri. In Il sindacalista assume un peso rilevante non soltanto il racconto di una feroce e inconsapevole strumentalizzazione del sindacato in favore del padrone, ma anche e soprattutto la prefigurazione di un mondo proiettato a sinergie sempre più globalizzanti. Nel suo piccolo, il quieto Tamperletti di Renzo Montagnani si muove già in sinergia con il mondo della pubblicità (i caroselli di allora), piega la stampa a un uso strumentale, si muove in combutta con altre realtà industriali per fingere di investire in welfare facendosi finanziare dall’esterno (l’accordo con la Deutsche Cola)e soprattutto apre l’orizzonte dei suoi affari a un raggio europeistico-internazionale. Ma, si badi bene, non reclamando un ruolo paritetico dell’Italia al tavolo dei grandi, bensì prestandosi a una speculazione a tutto vantaggio di investitori stranieri. Sostenuto da un’ottima sceneggiatura di Castellano e Pipolo, nel 1972 Il sindacalista sembra in sostanza anticipare il profilo che il nostro Paese è venuto assumendo nei cinque decenni successivi. Pensando sempre all’oggi e mai nell’ottica di una più ampia progettualità, l’Italia non sembra infatti aver piegato la testa a precise invasioni economiche dall’estero, bensì ha scelto di cedere spontaneamente se stessa a più danarosi investitori di oltreconfine. Se, come sottolinea Raffaele Meale nel suo pezzo di queste pagine dedicato a Fantozzi, il film con Paolo Villaggio sembra annunciare da lontano l’Italia renziana e post-renziana, per parte sua Il sindacalista preconizza nel profilo del Tamperletti un piccolo Silvio Berlusconi dei frigoriferi. Bonario e paternalistico in superficie, sagace nel tessere reti sinergiche, capace di trasformare i propri dipendenti in adulati veneratori. Manovratore di stampa, televisione e pubblicità. In grado di ridurre praticamente al grado zero il conflitto sociale senza garantire in realtà il minimo progresso nella qualità della vita delle masse.

E il sindacalista? Il sindacalista di Lando Buzzanca soffre un po’ il confronto, a dire il vero. A distanza di cinquant’anni esatti, il film di Salce propone un profilo di protagonista meno interessante del suo contraltare narrativo. A fronte di molte contraddizioni insite nella Sinistra storica (la moglie è trattata come un essere platealmente inferiore da comandare; il figlio capellone è costretto ad andare alla Messa di Natale, ché in fondo il sindacalista ci tiene, è chiaramente familista e adora le canzoni nazionalpopolari di Claudio Villa; le minigonne sono malviste), Saverio Ravizzi è un idealista che soffre molto la rigidità dell’istituzione cui appartiene suo malgrado. Ingenuo e spontaneistico, Saverio malsopporta l’idea che a sua volta pure il sindacato debba seguire e rispettare regole e protocolli, che debba muoversi come un’entità organica e strutturata anche nei confronti dei datori di lavoro. Per Saverio è necessario e fisiologico lottare, non contrattare. Al sedersi a un tavolo di confronto lui preferisce salirci sopra. In tal senso Il sindacalista assume semmai un punto di vista all’epoca piuttosto inedito, e che probabilmente non fece amare troppo il film dalla critica di sinistra. Pure la sequenza finale, in cui Saverio viene picchiato a sangue dai suoi compagni di fabbrica, risultò al tempo inaccettabile. Di nuovo eccentrico, lungimirante e anarcoide, semplicemente Salce non riserva un occhio troppo lusinghiero nemmeno ai sindacati tradizionali. Ché pure gli ingranaggi del sindacato hanno bisogno delle loro rotelline, come viene platealmente espresso nel film. Odioso il padrone, scostante il sindacato, Il sindacalista rischia di passare per qualunquista. In realtà Salce esprime in ultima analisi un roboante pessimismo sociale, una visione schiacciante e nichilista del suo presente e del futuro italiano. Non c’è spazio per l’individuo e non c’è spazio per una lotta che si conservi pura. Tutti quanti finiscono per sporcarsi le mani, se per sporcarsi s’intende dover scendere inevitabilmente al compromesso del confronto. In tal modo, da commedia a tratti sanamente sbellichevole, Il sindacalista finisce per evocare un profilo di disperante apologo intorno a inossidabili ontologie italiane. Forse universali. Sicuramente italiane.

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