Nanuk l’esquimese

Nanuk l’esquimese

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A un secolo esatto di distanza dalla sua realizzazione, illumina le 41me Giornate del Cinema Muto di Pordenone Nanuk l’esquimese, pionieristico capostipite del cinema documentario con cui l’esploratore Robert J. Flaherty si spingeva fra gli Inuit dell’Artico canadese per trasformare per la prima volta il reale in narrazione poetica e drammaturgica. Un film, per il suo approccio, per la sua (in)consapevole portata teorica e per le strade che ha aperto alla cine-verità che sarebbe venuta successivamente, universalmente riconosciuto fra i più importanti di tutti i tempi.

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Il documentario segue le vite di un Inuit, Nanuk, e della sua famiglia, mentre viaggiano, cercano cibo e commerciano pelli nella penisola di Ungava, nel nord del Quebec, in Canada. Nanuk, sua moglie Nyla e la loro famiglia vengono presentati come eroi senza paura che sopportano rigori che nessun’altra etnia potrebbe sopravvivere: cacciano un tricheco e una foca, costruiscono un igloo, si riparano dal freddo e vivono la quotidianità. [sinossi]

Già il primissimo vagito del neonato cinema, nel 1895, sanciva di fatto anche la nascita del documentario e del suo rapporto inevitabilmente strettissimo e dicotomico con la finzione. Due storie che corrono da sempre su due binari ora paralleli e ora convergenti, a partire dal primissimo esempio di immagini in movimento proiettate in pubblico con la veduta su L’uscita dalle officine Lumière, nella quale gli omonimi fratelli inventori del cinematografo filmavano (o molto più probabilmente rimettevano in scena in un orario più luminoso e consono alla bassa sensibilità delle loro prime pionieristiche pellicole) la fine del turno degli operai dell’impresa paterna. Anche al momento del celeberrimo L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat dell’anno successivo, del resto, nessuno può realmente essere sicuro che i pur veri passeggeri che scendono dal treno non fossero al corrente che ad aspettarli ci sarebbero stati due fratelli dietro a un gigantesco e bizzarro apparecchio a manovella da fare finta di non vedere. Fatto sta che nessuno lo guarda, nessuno si incuriosisce, nessuno sembra nemmeno accorgersi dell’ingombrante presenza della cinepresa. Tutti tasselli di un rapporto inestricabile fra immagini in movimento, verità e simulazione che a ben vedere era iniziato ancora prima della nascita del cinema, già dalle scene di vita vissuta, in realtà quasi sempre ricostruite in studio per ovvie necessità di illuminazione, su cui già nel 1893-1894 si apriva il visore monoculare del kinetoscopio di Edison. Del resto, che sia semplicemente catturata oppure recitata, nel momento stesso in cui diventa un’inquadratura la realtà non può più esistere per come è, ma è già stata inevitabilmente manipolata, filtrata, selezionata dallo sguardo registico e dalle necessità narrative, dalle soluzioni (e magari a volte attrazioni) di montaggio e dalla sua necessità intrinseca di avere un punto di inizio e un punto di fine, prima e dopo i quali non esistono né immagini né racconto, mentre fuori dal cinema il mondo continua. Eppure sullo schermo può esistere una verità ancora più pura e profonda della mera osservazione del reale. Un vero assoluto, personale e universale, nel quale poco conta che si stia osservando o ricostruendo ciò che si è visto e vissuto, conta solo la genuina autenticità che traspare, conta solo l’esattezza del suo senso, conta solo l’intima corrispondenza di ciò che si descrive. È per questo che Nanuk l’esquimese, primo capolavoro dell’esploratore Robert J. Flaherty universalmente riconosciuto come il vero punto di partenza del cinema documentario, ben al di là delle sue piccole approssimazioni etnografiche (la bigamia del protagonista omessa per non scandalizzare il pubblico occidentale, la ‘antica’ caccia con gli arpioni quando già da anni erano arrivati i fucili, l’esagerazione nel narrare i pericoli del luogo) o dei suoi ben noti elementi di finzione (a partire da Nanuk che nella realtà si chiamava Allakariallak, non era il vero marito di Nyla nella realtà Alice Nevalinga amante dello stesso Flaherty e consapevolmente recitava non solo se stesso, ma anche lo stupore naïf di fronte a un grammofono e a un disco 78giri che sapeva benissimo cosa fossero), è considerato ancora oggi dalla popolazione Inuit, con in mezzo tutti i decenni di colonialismo selvaggio, come parte integrante e fondamentale della propria cultura. Non solo per la realtà di fatto, brillantemente messa per iscritto da Roger Ebert, che «se metti in scena una caccia al tricheco, implica comunque la caccia a un tricheco e il tricheco non ha letto il copione1», ma per l’approccio che ebbe Flaherty al loro mondo, ai lunghi anni passati vivendo insieme e capendosi reciprocamente, al rapporto di rispetto, fiducia e totale collaborazione creato con i suoi attori, alla sua decisione di sviluppare e proiettare i giornalieri direttamente in loco, capendo tutti insieme quale direzione stesse prendendo il loro lavoro. Il primo lungometraggio nella Storia che, ribaltando tutta la finzione ‘spettacolare’ del primo cinema narrativo figlio di Méliès, metteva le regole della narrazione cinematografica e i limiti tecnici del tempo (con tutto il loro necessario falso, compreso un igloo-sfondo di soli tre lati per riuscire a girarne il falso interno con l’ingombrante e poco sensibile macchina da presa) al servizio del vero, intuendone per la prima volta le potenzialità liriche e drammaturgiche, l’intrinseca cinematograficità, l’emozione che può suscitare. Una vera e propria rivoluzione tematica e quindi necessariamente linguistica, con cui (in)consapevolmente codificare il cinema documentario e aprire le porte a quello che, dai capolavori di Dziga Vertov, Joris Ivens e soprattutto dell’etnografo Jean Rouch alle speculazioni filosofiche dell’Orson Welles di F for Fake e alla sempre totale commistione di realtà e finzione di Werner Herzog, passando per infiniti esempi fino al recentissimo Leone d’Oro attribuito al decisamente meno cinematografico All the Beauty and the Bloodshead di Laura Poitras, sarebbe apparso sugli schermi nei cent’anni successivi.

Inizia in un certo senso dieci anni prima della sua effettiva realizzazione Nanuk l’esquimese, titolo italiano del tempo che soffre il passare degli anni e l’evolversi della lingua ben più dell’originale Nanook of the North – A story of life and love in the actual Arctic, e che probabilmente per questo si trova in diverse fonti anche modernizzato in Nanook (talvolta pure l’intermedio Nanouk) l’eschimese. Inizia nel 1910, con la prima spedizione dello statunitense Robert J. Flaherty nelle terre artiche canadesi come cercatore di minerali, e con i suoi primi contatti sempre più stretti con la popolazione indigena Inuit dei quali aveva immediatamente capito e assorbito la mancanza di gerarchie, il valore di una solidarietà fatta di collaborazione e mutuo soccorso, il lavorare tutti insieme per la sopravvivenza facendo fronte a ogni difficoltà. È per questo che già nel 1913, in occasione del suo terzo viaggio, Flaherty decise di portare una macchina fotografica a lastre e una cinepresa, per imparare a manovrare la quale, totalmente digiuno di cinema, aveva seguito un breve corso per principianti presso la Kodak. Riuscito a impressionare e a fare appassionare alla nuova tecnologia gli abitanti locali fino a scoprirli validissimi tecnici e collaboratori, iniziò un lavoro di gruppo lungo due anni, destinato però ad andare letteralmente in fumo nel 1916, con il rogo di una sigaretta caduta accidentalmente sui negativi delle pellicole in nitrato mentre le prime versioni di test montate – e oggi andate perdute – non convincevano un sempre più consapevole Flaherty. Tanto da spingerlo a decidere, dopo le faticose ricerche di nuovi fondi forniti questa volta dall’azienda di pellicceria francese Revillon Frères, di ricominciare a filmare tutto dal principio fra il 1920 e il 1921, scegliendo ora di focalizzarsi su un solo protagonista e seguendolo nella sua caccia, nella sua pesca e nei suoi commerci di pelli di foca con un Occidente bianco sempre più vicino, nella sua quotidiana ed eroica sopravvivenza in un ambiente naturale ostile, nei suoi rapporti con i vicini di villaggio e con la famiglia, la moglie, i due figli e il cagnolino che spuntano dal kayak, e poi gli husky a trainare le slitte d’inverno, quando l’acqua diventa ghiaccio, il cibo scarseggia e bisogna ripararsi dalle tempeste. Un film guidato dall’istinto e dalla quotidianità dei luoghi, dalla cultura locale e dall’interesse etnografico di chi rimette in scena, ma soprattutto dal vivere intimamente e tutti insieme ciò che si vede, dallo soffrire insieme la fame e il freddo, dal viaggiare insieme, dal comprendersi e fidarsi l’uno dell’altro. Dal vedere e saper inquadrare/raccontare/mostrare la poesia della quotidianità, lo sconforto che si può celare dietro una risata, quel muto interagire fra chi è in campo e chi sta fuori dall’inquadratura, ma fa sentire (e a volte vedere, con Nanuk che guarda verso la macchina da presa e parla direttamente con Flaherty) di essere subito lì, intimamente immerso nel medesimo stralcio di vita, alla ricerca delle abitudini più ancestrali. Il resto è una trama semplice, fatta di interludi comici debitamente sceneggiati e di improvvise pennellate della realtà di chi deve procacciare da mangiare per se stesso e la famiglia, in cui Nanuk naviga, viaggia verso le regioni limitrofe, pesca trote, caccia un tricheco d’estate e una foca d’inverno, costruisce un igloo con tanto di finestra in poche ore e si rifugia in un altro abbandonato, si veste delle calde pelli e pellicce degli animali che personalmente uccide, mentre i figli giocano e iniziano a crescere, la moglie lo segue e lo aiuta nelle sue avventure, qualcuno fa indigestione di grasso e agli albori del fascismo viene curato con olio di ricino rigorosamente italiano, e leccando il coltello per farlo ghiacciare diventa semplice intagliare i blocchi di neve. Fino alla lirica di un paesaggio gelato in cui anche i cani vengono ricoperti dalla bufera, come un brivido di freddo del Nord a -45° che ancora si propaga dallo schermo alla platea. Mentre nel Teatro Verdi sede delle 41me Giornate del Cinema Muto di Pordenone, dove Nanuk l’esquimese è stato proiettato in occasione del suo centenario, la nuova (e solo a tratti convincente, va detto) partitura per quartetto di flauti, batteria, due cantanti di gola inuit e due solisti recentemente realizzata per il film e diretta da Gabriel Thibaudeau continua ancora per qualche istante a fare immaginare e forse percepire i suoni della Natura, il soffio del vento, lo scorrere dell’acqua, le flebili voci nel gelo. Giusto il tempo per metabolizzare ancora una volta l’impatto emotivo e la rilevanza storica di uno dei film più importanti e rivoluzionari di ogni tempo. Giusto il tempo per uscire dalla sua assoluta e assolutamente fittizia verità, e accettare di ritornare nell’inevitabile falsità del mondo reale di ieri e di oggi. Chissà come staranno, quei ghiacci che sembravano così eterni e inscalfibili…

NOTE
1Ebert, Roger (September 25, 2005). “Reality at the end of the world”. RogerEbert.com. Ebert Digital LLC.
Info
Nanuk l’esquimese sul sito delle Giornate del Cinema Muto.

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